IDENTITA’ CULTURALE E CONFLITTO NELL’ESPERIENZA DEGLI IMMIGRATI
Di sicuro all’integrazione non si arriva attraverso miracoli, veri o falsi che siano, ma nemmeno attraverso false ideologie, assistenzialismo indiscriminato, ambigui aiuti che rischiano di diventare, seppur in chiave moderna, un qualcosa di pericolosamente simile all’antico “commercio di schiavi”.
Ho provato a leggere su un qualsiasi dizionario il significato del termine “integrazione” e lo porto così come l’ho trovato: “l’incorporazione di una certa entità in una società, con l’esclusione di qualsiasi discriminazione razziale”.
Per arrivare a questo risultato mi sembra innanzitutto necessario analizzare, conoscere e capire le varie tappe attraverso le quali un immigrato deve passare nel suo percorso verso l’integrazione. Qui un primo criterio di valutazione è la qualità dell’integrazione che un gruppo sociale realizza al suo interno e nel rapporto con gli altri gruppi, osservando cioè i modi in cui un gruppo entra in contatto con la diversità culturale ed i modi in cui vive, al suo interno, le singole differenze.
La ricchezza e la forza di una cultura sta infatti nel suo potere di diversificarsi ed integrare, nella sua capacità di elaborare il tempo passato, di vivere spazi diversi di esperienza e di memoria, di sperimentare la loro distanza e continuità, di trovare “spazi di emergenza” per i sentimenti profondi e per i linguaggi che li esprimono; una cultura quindi in grado di promuovere l’uscita dall’interdeterminatezza e dalla confusione, nello sviluppo della persona; in particolare, in grado di creare i presupposti per una dialettica del dare/ricevere che arricchisce i rapporti con le altre identità culturale e, insieme, la percezione della propria.
Le differenziazioni tra le culture non sono determinate solo dai contenuti, ma dalle forme che li esprimono (cognitive, nel linguaggio, nelle immagini usate, nei modi di espressione, troviamo una rappresentazione simboliche di come è organizzata la percezione del mondo e della realtà, in una determinata cultura, linguistiche, simboliche in senso lato).
Una tentazione ricorrente nel pensiero scientifico occidentale è quella di considerare diverso il pensiero dei cosiddetti popoli “primitivi”, o dei popoli di paesi appartenenti ad aree non ancora alfabetizzate e capaci di una trasmissione orale della cultura, e perciò solo superficialmente impregnati dai simboli della cultura occidentale; infatti non usa astrazioni, è un pensiero che si esprime nelle forme della concretezza operatoria, perché la sola veramente utile in quella sfera di vita.
Questo non implica affatto che soggetti che vivono questa esperienza mentale, portati in un’altra condizione di vita, dove la sfera del simbolico-formale sia necessaria e dominante, non la possano dominare e usare, anche se questo può costare loro molto sul piano del controllo mentale della realtà.
Analogamente, in psicoterapia, una delle operazioni terapeutiche è quella di riportare, “tradurre”, le astrazioni (meccanismo difensivo di “intellettualizzazione”) ad un tipo più legato all’esperienza personale.
Il controllo delle nuove realtà è anzi tanto più ricco e funzionale, quanto è ricollegabile alla precedente esperienza e coniugabile con questa. Nell’esperienza migratoria infatti, ciò che rende faticoso e a volte pericoloso il contatto tra culture differenti è proprio l’assenza di agenti di mediazioni tra l’esperienza precedente, nel paese d’origine, e l’esperienza del paese d’accoglimento cioè lo sforzo enorme che comporta l’esperienza del cambiamento d’ambiente, di vita, il passaggio da un sistema conoscitivo ad un altro, da un’organizzazione della mente, appunto, da una forma operatorio-concreta del pensiero, ad una forma simbolico-formale: uno spazio mentale da attraversare per coprire l’enorme distanza tra due culture.
Il tentativo di percorrere la distanza che ci divide dalle culture “altre” non è dunque una fuga, un rifugiarsi nella diversità, in ciò che è lontano per nascondersi a se stessi, ma anzi dovrebbe essere un percorso di identificazione che ci porti ai limiti della nostra cultura e ci permetta di decodificarne i significati.
Le culture sono ed esistono in quanto ci sono gli uomini che le condividono. Cercare di capire la differenza-distanza comporta un doppio movimento della mente: è un andare verso “l’altro” ma è anche un ritorno verso noi stessi per vedere e capire la nostra cultura.
La diversità, la distanza culturale portano implicita in sé un’altra dimensione che va esplorata e che tanto incide sulle modalità d’incontro tra le culture: quella del conflitto. L’avvertimento della diversità produce uno stato d’animo ambivalente, cioè una tensione tra attrazione e rifiuto: questa tensione è alla radice di ogni conflitto culturale ma non si spiega tuta nella sola dimensione della cultura, cioè nel mondo mentale espresso e esprimibile; forse affonda le radici più in profondità, cioè nella dimensione fantasmatica, individuale e collettiva delle culture che entrano in contatto.
Nell’incontro tra culture giocano come fattori di conflitto proprio gli universi simbolici di identificazione (lingua, costumi, ritualità, ecc.) quei fattori cioè che costituiscono le basi dell’identità etnica. Il problema sorge solo in presenza della differenza, dal confronto con la differenza; questo confronto si carica di conflitti che sono la radice dei processi di acculturazione.
Come precisazione, sotto la voce “acculturazione” vanno inclusi quei fenomeni che si generano quando gruppi di individui con culture differenti entrano in contatto continuamente e diretto, con conseguente trasformazione nei modelli originali di cultura e dei gruppi che interagiscono.
Il principio dinamico del conflitto rimette in gioco processi quali l’identificazione, l’introiezione, la proiezione; in questo processo si tende a scindere, a proiettare, per negarle, le parti rifiutate e condannate del proprio sé, e se queste si incarnano in un “altro” in un “diverso” possono essere le radici del conflitto razziale. Solo questa dinamica può spiegare il coinvolgimento emozionale profondo che i conflitti etnici scatenano, perciò nel pregiudizio razziale in fondo noi coaguliamo i nostri desideri rimossi, caratterizziamo cioè “l’altro” attribuendogli le pulsioni respinte. Ma se questo accade, una parte di noi è nell’altro e questa parte ci attrae, ci affascina, ci richiama.
Il carattere arcaico delle radici psichiche dell’identità si salda bene con la dinamica della scissione proiettiva, per spiegare come il soggetto articoli sulla base dell’identità etnica la sua identità culturale; quest’ultima è infatti il frutto delle progressive esperienze di conflitto presenti nell’ambiente di crescita.
Si è creduto a lungo che il mescolarsi delle etnie, provocato dalle conquiste coloniali, dall’emigrazione di massa, dalla deportazione delle popolazioni avrebbe cancellato le identità etniche, le culture particolari in un processo di assimilazione irreversibile. Le ipotesi delle teorie assimilazionistiche, secondo le quali la cultura del centro (economico e politico) avrebbe fagocitato e distrutto le culture della periferia sono state invece smentite.
Le culture particolari, con le loro radici etniche continuano a vivere e ad esistere provocando trasformazioni profonde di tipo linguistico, nei modi culturali propri delle società avanzate che le hanno accolte.
L’identità culturale del migrante non nasce, quindi, certo solo da un’opposizione, dal rifiuto pregiudiziale dell’altro e dall’identificazione solo con il gruppo di appartenenza; nasce invece attraverso le differenti esperienze, i diversi ambienti attraversati, grazie al confronto con ciò che è diverso, cioè con le diverse culture incontrate.
Certamente queste identità etniche-culturali vivono ed esistono, ripeto, nella misura in cui sono compatibili con il sistema in cui si trovano; altrimenti il rischio è che sopravvivano trasformandosi in culture-ghetto, destinate a estinguersi con il passare delle generazioni o ad essere progressivamente sempre più ghettizzate (per esempio, vedi gli zingari).
Tutto questo e molto altro viene filtrato attraverso la propria assoluta unicità (identità) da parte di ciascuno. Tale unicità-identità è uno stato potenziale e altamente plastico, capace di mantenersi statico e di cambiarsi.
Le tendenza a mantenere statico è la tendenza a non mutare i propri tratti, a non prendere in prestito qualità, a non subire “concessioni” da culture diverse dalla propria; se prevale questo atteggiamento noi vedremo prevalere tra gli immigrati dinamiche di resistenza, antagonismo, di irrigidimento e la scelta di identificazione è allora prevalentemente regressiva, ghettizzante, di pura opposizione, frontista.
La tendenza al cambiamento è invece la capacità di giocare più varianti della propria identità etnico-culturale; quando prevale questa scelta di entrare nelle dinamiche del prestito, di accettazione e di elaborare di culture diverse da quella del proprio gruppo di appartenenza, l’identità dei gruppi migranti diviene più diffusiva, più dinamica, e allo stesso tempo meno oppositiva e rigida. Il rischio di questo secondo atteggiamento può essere quello del frammentarsi della coscienza tra le tante modalità culturali con cui via via la coscienza dei soggetti migranti si identifica.
La possibilità di incontrare più culture, più modelli propri di ciascuna cultura si inserisce in una precisa logica storico-sociale. Questa dipende da come si stratificano all’interno di ciascuna società le più culture ed i sistemi di potere, e con quali tra queste culture è permesso ai migranti di entrare in contatto.
Poter entrare in contatto con più immagini, modelli, simboli e comportamenti di culture diverse, dipende più che dall’intenzionalità soggettiva dei singoli, dall’organizzazione del sociale, dal carattere delle istituzioni politico-sociali che regolano ogni società, come riflesso della sua organizzazione economica e politica.
Il problema dell’identità culturale dell’immigrato è il problema della fenomenologia socio-culturale, e dunque politica, delle società di accoglimento: sono le due facce della stessa medaglia.
Se si vuol capire l’identità dei migranti non la si può dunque astrarre dai contesti in cui questi vivono nei paesi di accoglimento, dalle relazioni che vi hanno stabilito, dalle modificazioni che vi hanno subito, ma che vi hanno anche indotto; capire l’identità culturale dell’immigrato significa dunque capire con quale livello culturale la società di accoglimento cerca di omologarlo al proprio interno e la risposta mi sembra evidente: il livello culturale più basso, quasi marginale o marginale, cioè quello culturalmente più depotenziato, ai fini del potere contrattuale nella società. E’ importante evidenziare questo, perché se si salta questa connessione tra immigrati e fasce subalterne del paese ospite, qualsiasi strategie d’intervento promozionale della condizione di vita dei migranti è condannata al fallimento, mentre l’unica prospettiva corrente deve essere la rimessa al centro di ogni attività la sofferta esperienza culturale che questi soggetti attraversano.
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