Quei centri negati alla stampa
Che nei centri di permanenza temporanea i giornalisti non possano mettere piede è cosa nota. E non da oggi, ma da quando sono nati per opera del governo di centrosinistra. Una prassi - e non è la sola - che il governo Berlusconi ha onorato, negando sistematicamente ai giornalisti di qualunque testata (e non si dica che non siamo in democrazia...) di fare ingresso in un cpt, per raccontare come funzionano, chi ci finisce dentro, chi ci lavora: per esercitare il diritto di cronaca, tutelato dalla Costituzione. E' una regola che tutti abbiamo accettato un po' supinamente, nonostante la Federazione nazionale della stampa qualche tempo fa abbia alzato la voce, senza ottenere alcun risultato. E' una consuetudine che il ministero dell'interno ha argomentato in vario modo le poche volte che è stato messo alle strette. A Giovanna Boursier, giornalista di Report che due anni fa chiese insistentemente di poter visitare qualche centro, il sottosegretario Alfredo Mantovano spiegò che ciò non era possibile, in nome del sacrosanto diritto alla privacy degli immigrati. Argomentazione ingegnosa, e a nulla valse che, nello stesso servizio, l'allora Garante per la privacy Stefano Rodotà spiegasse che il diritto alla tutela dei dati personali è individuale: sono gli immigrati a dover decidere se vogliono raccontare la loro storia, se vogliono dire il proprio nome, se vogliono che la propria faccia finisca in tv. Questo d'altronde i giornalisti lo sanno benissimo, con buona pace del sottosegretario Mantovano e dei tanto puntigliosi dirigenti del ministero dell'interno. Ovviamente, trattandosi di un sotterfugio, ci si può attrezzare per aggirarlo con altri sotterfugi: dal «classico» presentarsi sotto mentite spoglie come collaboratori di parlamentari, le uniche figure tra i non addetti ai lavori a poter visitare i centri, al ben più coraggioso «metodo Fabrizio Gatti», che per due volte si è finto immigrato, vivendo sulla sua pelle l'esperienza del cpt e beccandosi persino una condanna per «falsa dichiarazione di identità».
Stavolta siamo arrivati al parossismo. Oggi avremmo voluto raccontare ai nostri lettori come è fatto il centro di permanenza di Gradisca d'Isonzo, il più moderno cpt d'Italia. Il centro dovrebbe entrare in funzione martedì, ma per ora è vuoto, anche se formalmente aperto. Non ci sono immigrati di cui si potrebbe violare la privacy. Ecco perché abbiamo pensato che non potessero esserci problemi, per una nostra cronista, a ottenere un permesso di ingresso nella struttura, che si è già guadagnata il titolo di «Guantanamo del nord-est», cosa che avremmo voluto verificare con i nostri occhi. Ma la richiesta inviata alla Prefettura di Gorizia è stata rispedita al mittente. Prima con una telefonata, in cui un dirigente spiegava che «il ministero ritiene si tratti di un'iniziativa disarticolata, che riguarda un solo giornale». Come a dire che dentro i centri vige la par condicio, perciò o ci entra uno che ne parla bene e uno che ne parla male o non se ne fa niente. Obiettato che non avremmo avuto alcun problema a visitare il centro insieme ad altri colleghi, ma che certo non potevamo assumerci l'onere di organizzare una spedizione di giornalisti, abbiamo chiesto alla Prefettura di non menare il can per l'aia e di fornirci una risposta scritta, facendo riferimento a un articolo di legge in cui si dice che esiste un luogo in Italia dove i giornalisti non possono mai entrare. Ovviamente sottintendevamo che quella legge non può esistere, ma evidentemente ci sbagliavamo. Dopo qualche ora in redazione è arrivato un fax in cui si spiegava che il Superiore Ministero non avrebbe autorizzato l'ingresso ai sensi del comma 7 dell'articolo 21 del regolamento sull'immigrazione. Quello che elenca i soggetti che possono entrare nei centri (familiari, avvocati, ministri di culto) e in cui la figura del giornalista non compare. Che strana coincidenza: l'articolo 21 della Costituzione, invece, è quello che tutela la libertà di stampa, che non può essere sottoposta a autorizzazioni o censure, il cui naturale corollario è proprio il diritto di cronaca. Tramite un fax, dunque, viene sancito che in Italia esistono luoghi vietati ai giornalisti di cui non si può raccontare nulla, neanche come è fatta la struttura. Forse è giunto il momento che l'Ordine dei giornalisti dica qualcosa.
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