Migranti o vincenti, ma scrittori
La nostra è una società che ama fare le classifiche. Non sazi della serie A e della serie B di calcio ci siamo sbizzarriti a fare classifiche su tutto il resto. I più buoni e i più cattivi, i più belli e i più brutti, quelli che venderebbero la nonna per partecipare al Grande Fratello e quelli che magari solo il gatto. Anche gli immigrati non sfuggono alla mania classificatoria italiana. Ci sono gli immigrati buoni, quelli buonissimi, i moderati, i delinquenti e sì, ci sono anche loro, gli immigrati vincenti: quelli che ce l'hanno fatta, che quasi quasi ce lo potrebbero avere duro come certi imprenditori della Brianza con camice verdi, vignette sul cruscotto (rigorosamente antislamiche) e kalashnikov in dotazione per difendere i beni materiali. Ma cosa significa vincente?
Qual è la caratteristica che trasforma un qualcuno anonimo in un vincente?
Lo siamo andati a chiedere a due giovani scrittori migranti che sono stati definiti tali dai nostri media nazionalpopolari: Gabriella Kuruvilla e Jadelin Mabiala Gangbo.
Siete vincenti?
Silenzio.
Ripeto la domanda: siete vincenti?
Siamo e basta, dicono. Vincenti? Che significato ha?
Qui le cose si complicano. Si perdono le coordinate,le certezze classificatorie. Si deve rivedere tutto. Anche gli immigrati! Anche quelli vincenti!
Vinci se vivi del tuo lavoro
Gabriella Kuruvilla ci viene in soccorso: «Sei vincente», ci dice, «nel momento in cui riesci a vivere del tuo lavoro».
Gabriella riesce a conciliare numerose attività in effetti, ma vivere è un'altra storia. È scrittrice, pittrice, architetto, giornalista professionista. Suo padre è nato in Kerala, nell'India meridionale, sua madre è di origini milanesi con un passato di femminismo politico. Ha un figlio di due anni, Ruben. Ha pubblicato sotto lo pseudonimo di Viola Chandra il romanzo «Media chiara e Noccioline» (Derive Approdi) e due suoi racconti sono presenti nella raccolta «Pecore Nere» (Laterza). Come tutti ogni fine mese fa salti mortali per far tornare i conti. «Essere artisti in Italia oggi è complicato. L'arte, la cultura in genere, qui viene considerata un hobby di prestigio, non un lavoro. Non c'è
riconoscimento a livello economico, né tantomeno a livello sociale. Alla fine
l'artista si sente quasi in colpa, come se stesse rubando il tempo alla vita reale, una vita fatta di lavori precari con contratti schiavistici.
La dimensione intellettuale è affossata. Si pensa che l'arte sia un gioco da bambini,`Non è roba seria', ti dicono. In altri paesi d'Europa non è così. L'arte è sovvenzionata, parecchio anche. Una mia collega pittrice che vive ad Amsterdam ha uno stipendio minimo garantito e inoltre ha spazi forniti dallo stato per le sue attività».
«Poi se sei un artista immigrato», ci dice Jadelin, «è anche peggio».
Jadelin Mabiala Gangbo vive a Bologna da quando aveva quattro anni. Un diploma di istituto alberghiero e una infanzia-adolescenza passata da un istituto religioso ad un altro. Ha pubblicato già due romanzi, «Verso la notte Bakonga» (edizione Portofranco) e «Rometta e Giulieo»(Feltrinelli). A Settembre sfornerà la sua terza opera.
«Essere artista ad un immigrato non è proprio permesso».
Ci dice: «Per l'apparato burocratico messo su dalla legge Bossi Fini l'immigrato può essere solo braccia, mano d'opera a basso costo, manovalanza bieca. L'arte (qualsiasi essa sia) non garantisce un'entrata. Per raggiungere quel tetto massimo di entrata ho fatto tutti i tipi di lavoro saltuario. L'importante per me era mantenere viva la scrittura, la mia ragione di vita. Inoltre l'arte può anche diventare rischiosa per un immigrato».
Il rischio è nel rimpatrio. La Bossi Fini è legata al lavoro-sfruttamento, non ai sogni. Molti ragazzi, come Jadelin di seconda generazione, conoscono solo l'Italia in cui sono cresciuti, di cui per uno scherzo ridicolo del destino (destino legislativo) non hanno la cittadinanza.
Del paese d'origine spesso hanno solo un vago ricordo. Ma per la legge una volta raggiunta la maggiore età si diventa automaticamente stranieri e lì comincia il calvario fatto di file per il permesso di soggiorno, di soprusi e della grande paura di essere messo in un aereo destinazione ignota.
«Quello che mi fa rabbia», ci dice Jadelin», è che in questo paese l'immigrato non esiste. Esiste solo nel lavoro, 8 ore, 9 ore, 10 ore e poi scompare. L'immigrato non può aspirare a vivere fuori dal lavoro. Senza il lavoro tutto quello che si è accumulato in termini di amore, identità, vita è destinato ad essere cancellato con un colpo di spugna. Io vivo con questa spada di Damocle sulla testa, se faccio un errore posso essere rimpatriato.... rimpatriato in un terra che non ho mai conosciuto veramente. Le leggi dovrebbero essere fatte alla luce di tutti quelli che vivono in una comunità. Non solo di una parte. L'immigrazione è un fatto reale, non è un'invenzione, non si dovrebbe far finta di non vederla. La mia vita non può essere occultata come pretende la Bossi
-Fini. Non è giusto».
Le parole in bocca ai due giovani sono dure, taglienti.
E il vincente?, chiedo.
Solo se sembro bianca
«Questa è la tragedia!», sbotta Gabriella. «La prima volta che mi hanno definito così sono rimasta di sasso. Ero con altre scrittrici migranti in uno studio televisivo iperriscaldato. Che significa? mi sono chiesta tutto il giorno. Che sembro una bianca e non sono più una indiana color beige? Che non lavo i cessi delle case dei ricchi? Che anzi vesto come le persone per bene e faccio una cosa estremamente chic? Che ogni tanto i giornali parlano dei miei racconti? Non mi sento vincente, qualsiasi cosa questo possa significare. Trovo che in questo vocabolo ci sia uno scollamento tra la mia realtà quotidiana e il mio apparire
pubblico. La mia realtà è fatta di sacrifici... sacrifici per mio figlio, per
il lavoro, per il mio sogno di scrivere. L'apparire invece fa vedere un glamour che non esiste, un successo che non esiste. La scrittura, lo diceva bene Garcia Marquez, è un mestiere suicida. Dedizione, fatica, sudore, poco guadagno. Il "vincente" poi suona leggermente razzista, suona `sei leggermente come noi, ora... ti sei allontana dalla feccia nera, ora...'. Non mi piace, è un vocabolo ambiguo».
Anche Jadelin concorda e aggiunge «sei vincente fino a quando non vai a fare la fila per il permesso di soggiorno. Mi è capitato tempo fa di fare una fila in compagnia di un signore nigeriano e di una signora peruviana. Era buffo. Facevamo uso dei vocaboli più eloquenti, ostentavamo un accento bolognese da film anni `50. Parlavamo di libri, politica... tra le righe volevamo gridare al mondo che in quella fila là ci eravamo finiti quasi per errore. In realtà l'errore c'era ma non era nostro, né degli altri stranieri con accento straniero, era solo di una situazione inumana: la fila di ore fatta in questura. Non mi piace questa equazione tra immigrazione e delinquenza. Perché si deve andare in questura a rinnovare il permesso? La polizia ha tanto lavoro da fare, perché non andare in municipio invece? Sarebbe più facile per tutti.
Ci sentiremmo tutti meno colpevoli».
Gli scritti di Jadelin e Gabriela riflettono molto i pensieri che si agitano in loro, gli ideali. Si parla di immigrazione, identità in crisi, precarietà, società in cambiamento, seconde generazioni. Volenti o nolenti questi due giovani sono diventati portavoce di una fetta di società invisibile.
Soprattutto di quei giovani che sono invisibili tra gli invisibili.
Gabriella di questo è molto fiera. «Io mi sono sempre definita la migrante più stanziale che abbia mai conosciuto. Il viaggio lo ha fatto mio padre dal Kerala a qui, ma in un certo senso io stavo con lui anche se non mi sono mai mossa da Milano. Oggi sono una donna con un doppio sguardo sul mondo, sull'Italia. Guardo le stesse cose che guardano gli altri, ma invece di avere una sola posizione, una sola opinione, ne ho due o forse anche più. Ho imparato a tenere conto di più punti di vista».
Anche Jadelin è fiero del suo essere migrante, del suo essere dotato di più punti di vista.
E il modello letterario?
«'Migrante' suona quasi come una malattia infettiva per alcuni», ci dice. «Molti scrittori amici hanno difficoltà a identificarsi in questo termine. Tutti aspiriamo ad una realtà ufficiale, candida, asettica quale quello della letteratura italiana. Ma dinamiche editoriali ci respingono fuori da tale canone italianissimo. Io sono contento di essere stato respinto, perché è proprio grazie a questo rifiuto che ho capito quale sia il vero potenziale della scrittura mia e degli altri colleghi migranti: la molteplicità. Noi siamo qui e altrove allo stesso tempo. Italiani e non allo stesso tempo. Siamo storia, viviamo tra le storie come quella del consegnapizze cinese del mio secondo romanzo o come i resoconti dalla mia quotidianità tra file per il permesso di soggiorno e paura di un rimpatrio improvviso. È questa la nostra ricchezza, un'Italia che cambia. Un'Italia che ha il coraggio della denuncia».
Domande e risposte a tamburo battente. Ma ne manca una, di domanda, nonostante il flusso veloce di parole. La più ovvia, quella che tutti fanno ad uno scrittore prima o poi.
«A quale modello letterario vi siete ispirati? Cosa leggete?».
Mi guardano perplessi. «Non ce l'hanno mai fatta questa domanda», dicono in coro da un capo all'altro della penisola.
«A me chiedono sempre dei miei genitori», dice Gabriella.
«A me, della mia infanzia», sussurra Jadelin.
«Quasi non fossimo scrittori, ma solo casi di vita», aggiunge di nuovo Gabriella.
Poi sparano una serie di nomi. Don de Lillo, Bunker, Auster, Musil...lui. Extebberia, Ravera, Hornby, Kureish ...lei.
Una cosa è sicura gli immigrati leggono... e scrivono pure. Però, per favore, non chiamateli vincenti.
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