L'odissea dei rimpatriati dalla Libia
Un paio di pantaloni e una camicia. Ad Abdou Wakilou non è rimasto quasi nulla dei nove mesi trascorsi in Libia: nelle tasche vuote, il provvedimento di espulsione delle autorità di Tripoli; nello sguardo, l'amarezza per l'umiliazione subita. Reduce da un viaggio attraverso il deserto del Teneré su un camion carico di immigrati rispediti a casa, questo trentacinquenne nigerino rievoca con una punta di tristezza le ultime tappe della sua odissea. «Facevo il macellaio a Sheba. Un lavoro discreto, con una paga decente», racconta. «Un giorno, mentre stavo andando a lavorare, la polizia mi ha fermato per strada. Mi hanno chiesto i documenti e, appena hanno visto che non ero in regola, mi hanno sbattuto in carcere. Non mi hanno lasciato neanche il tempo di andare a casa a prendere le mie cose».
Dal giorno dell'arresto, la vita di Abdou è un susseguirsi di mortificazioni. Chiuso nel centro di detenzione di Sheba in attesa di essere rimpatriato, viene prelevato ogni mattina con un pulmino e portato a costruire... il nuovo commissariato della città. Il sole è opprimente, il lavoro sfiancante. Per ricompensarlo, i poliziotti libici gli danno alla sera una ciotola colma di riso. Finché un bel giorno, invece del solito pulmino, viene caricato su un camion. Destinazione sud: si torna in Niger. Sul cassone del veicolo, un centinaio di compagni di sventura condividono con lui l'esperienza del viaggio a ritroso sulla stessa pista che li aveva condotti verso nord. Oggi Abdou trascorre le sue giornate nei pressi della stazione degli autobus di Agadez, crocevia di partenze e ritorni, punto di snodo delle rotte dell'immigrazione che portano in Nord Africa. E da qui - per chi ha il coraggio e i soldi necessari - in barca in Europa.
Una coincidenza sospettaAbdou scruta un pick up carico e pronto per partire alla volta di Djanet, in Algeria, sulla strada che va all'oasi di Ghat, nel Fezzan libico. Vuole ritentare la sorte? «No, la Libia mai più. È troppo pericoloso». Da quando l'Italia ha siglato gli accordi con il colonnello Gheddafi, i sub-sahariani - e in particolare i cittadini del Niger, protagonisti da decenni di un'emigrazione transfrontaliera verso il paese vicino - sono nel mirino.
Su impulso italiano, la Libia ha di fatto assunto il ruolo di gendarme alla frontiera sud. Per dimostrare la sua buona volontà nel realizzare il compito assegnatogli dall'Europa, il leader di Tripoli dispone oggi retate e rimpatri. Per comprovare il buon funzionamento dei centri di detenzione costruiti con i soldi italiani, li riempie con solerzia. E per rimpolpare le statistiche, carica camion e pick up alla volta del deserto. I numeri dimostrano l'estensione del fenomeno: nel 2005 sono stati rimpatriati ad Agadez 8.235 cittadini nigerini, a fronte dei 1.574 del 2004. Una progressione che non sembra arrestarsi: al commissariato di Dirkou, primo centro abitato sulla strada che dalla Libia porta alla gloriosa capitale tuareg, hanno registrato 1.384 rimpatri solo nel primo trimestre del 2006.
«La politica dei refoulementsè diventata sistematica da un paio d'anni», dice Tahirou Oumarou, responsabile della divisione «Nigerini all'estero» al ministero degli esteri di Niamey. «Anche in passato le autorità di Tripoli procedevano di tanto in tanto a rimpatri di stranieri. Ma erano occasionali, conseguenza spesso di qualche frizione all'interno del paese. Ormai è la norma: ogni giorno assistiamo alla deportazione di decine di nostri connazionali». Oumarou non deplora tanto il fatto che i nigerini siano rimpatriati («sono immigrati illegali, la Libia ha tutto il diritto di mandarli indietro»), quanto il trattamento che questi ultimi sono costretti a subire. «Perché non permettono loro di recuperare le loro cose? Perché li rinchiudono in quei centri di detenzione?», chiede. Il funzionario non sa dire con certezza cosa spinga la Libia a liberarsi di una presenza immigrata che è sempre stata parte integrante del panorama sociale del sud del paese. Ma, con fare diplomatico, avanza un'ipotesi: «I rimpatri di massa sono iniziati poco dopo la firma degli accordi tra il vostro governo e quello libico. Diciamo che la coincidenza è, quantomeno, sospetta». Nel sottolineare questo punto, segnala un altro aspetto: «Se, come sembra dalla convergenza di date, Tripoli ha cambiato politica in seguito alle pressione italiane, è bene che l'Italia sappia che sta prendendo un abbaglio: posso affermare con certezza che il 99,9 per cento dei nostri connazionali rispediti indietro non ha mai sognato neanche lontanamente di andare in Europa. A dimostrarlo, basta un dato: tra gli immigrati sbarcati sulle coste europee o tra quelli morti nei naufragi in mare, non si è mai avuto il caso di un nigerino».
Agadez, la porta del TeneréAlla stazione di Agadez, 1000 chilometri e dodici ore di strada a nord della capitale Niamey, la questione sollevata diplomaticamente da Oumarou è sulla bocca di tutti. «È un vero scandalo. L'Europa cerca di fermare l'emigrazione verso le sue coste, ma non si preoccupa minimamente degli effetti che hanno le sue politiche sul continente africano. Con i vostri accordi, colpite solo la povera gente che, per sfuggire alla miseria, vuole andare a fare la stagione al di là del confine». Capo del sindacato dei trasportatori di Agadez, Alajj Ousmane ha il dente avvelenato con l'Italia, che ha a suo dire ha una responsabilità diretta nella stretta ai confini: «Voi italiani siete ossessionati dall'idea dell'invasione e non vi rendete conto che la stragrande maggioranza dei cittadini sub-sahariani che emigrano verso il Nord Africa non hanno la minima intenzione di attraversare il mare. Solo i nigeriani e i ghanesi passano di qui per andare in Europa. Gli altri puntano semplicemente alla Libia».
A poca distanza, un altro pick up è pronto a salpare verso Ghat con trenta persone a bordo. Prezzo del trasporto: 35mila franchi Cfa (50 euro) fino a Djanet, in Algeria. Da lì, il gruppo continuerà a piedi con alcuni passeursspecializzati nell'ingresso in territorio libico. La composizione dei passeggeri sembra confermare le parole di Ousmane: sono tutti nigerini diretti in Libia. Alcuni hanno già sperimentato di persona il rimpatrio coatto; altri conoscono il rischio, ma partono lo stesso. Vittime di un tasso di disoccupazione galoppante e di una società che offre loro ben poche prospettive, gli exodants- come li chiamano ad Agadez - vogliono spingersi al di là del deserto per offrire alle loro famiglie un'esistenza un po' più dignitosa.
«In Europa solo con il visto»Stravaccati sul pavimento della stazione, i candidati all'esodo aspettano che l'autista finisca di espletare le formalità con la polizia, che registra in un'apposita lista i nomi e i bagagli di tutti i viaggiatori. I più non hanno nulla; un piccolo fagotto con una coperta e l'immancabile bidone d'acqua. Sperano di riuscire a lavorare un po' e racimolare qualche soldo nel paese vicino. Ma spesso tornano a mani vuote, rimpatriati a forza o ritornati volontariamente da un esilio in cui i loro sogni si sono trasformati in incubi.
Il guineano Thomas è uno di questi «auto-deportati». A circa 200 chilometri da Agadez, in un minuscolo agglomerato di capanne sulla pista che va verso l'oasi di Dirkou e da qui in Libia, si riposa all'ombra del camion che lo sta riportando indietro. «Ho trascorso due anni a Tripoli. Ma ormai, tra le retate e il razzismo della popolazione, il clima è soffocante: così ho deciso di tornare a casa», racconta. Con lui viaggiano altre decine di persone. Sono soprattutto nigerini, ma anche maliani, burkinabé, senegalesi. Tutti erano emigrati alla volta della Jahimiriyya. E tutti sono di ritorno. Pensano forse di ripartire? Alzano gli occhi al cielo. Hanno mai sognato di andare in Europa? «Sì, ma solo con un visto. Il mare è troppo pericoloso», risponde un ragazzo.
Thomas e i suoi compagni non sono i soli a tornare indietro spontaneamente. Mentre descrivono la loro esperienza in Libia, i sogni e le aspettative deluse, due altri bestioni a 10 ruote compaiono improvvisi all'orizzonte. Carichi all'inverosimile, contornati da una ghirlanda di barili d'acqua, i due camion somigliano a cattedrali mobili, tanto instabili quanto imponenti. Poco dopo, sulla strada, altri due veicoli traboccanti di persone sembrano indicare che la rotta del ritorno è oggi più battuta di quella di andata. E che alle cifre ufficiali dei rimpatri va aggiunto un numero imprecisato di fuggitivi, che hanno preferito il rientro volontario all'ignominia della detenzione e del rimpatrio coatto.
Perché la deportazione può riservare anche brutte sorprese. A volte, i camionisti libici incaricati di ricondurre i «clandestini» ad Agadez li abbandonano a Dirkou, dove questi rimangono di fatto bloccati. Alcuni si dedicano a lavori di fatica. Altri vendono, in un mercato improvvisato, le poche cianfrusaglie che sono riusciti a portare indietro dalla Libia: qualche vestito sdrucito, coperte, mucchi di tappeti e orologi con l'effigie di Gheddafi. Spesso trascorrono qui anche mesi, prima di riuscire a racimolare il denaro necessario per pagarsi l'ultimo tratto di strada. Dirkou è una trappola, da cui è difficile scappare.
Il nigeriano Yusuf Baba Ibrahim lo sa bene. Ha trascorso alcuni mesi in Libia, lavorando a Sheba come giardiniere. Poi è stato catturato e sbattuto nel centro di detenzione. Un'esperienza traumatica, il cui solo ricordo gli genera terrore: «Eravamo decine in celle piccolissime. Alcuni di noi venivano picchiati, altri erano portati a lavorare». Tanto disperata è la situazione che Yusuf prende una decisione estrema: fingersi nigerino per essere spedito nel paese vicino. Lui è un haussa del nord della Nigeria, la stessa etnia che vive nel sud del Niger, e il travestimento non gli riesce difficile. Yusuf è arrivato a Dirkou alcuni mesi fa. Oggi lavora come «tuttofare» nella casa del sindaco. Il futuro gli appare incerto: non ha i soldi per tornare indietro, né per tentare di nuovo l'avventura. Ma un dubbio lo tormenta: «È vero che è stata l'Italia a premere perché ci cacciassero in massa dalla Libia?», chiede. A risposta affermativa, una smorfia di incomprensione gli si disegna sul volto. Poi aggiunge, con espressione cupa: «Credevo che l'Europa avesse più attenzione per i diritti dell'uomo».
*Questo testo è tratto da un reportage più lungo che sarà distribuito alla conferenza di Roma
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