Botte e insulti nei centri libici
Ragazzi marocchini arrestati appena arrivati all'aeroporto di Tripoli, perché considerati potenziali candidati all'emigrazione clandestina verso l'Italia. Oppure beccati mentre cercano di lasciara l'ormai famoso porto di Zuwarah nel tentativo di raggiungere il nostro paese. E tutti, senza distinzioni, accompagnati nelle «prigioni libiche»: i centri per immigrati clandestini che anche l'Italia sta finanziando. L'Unione europea potrebbe accodarsi a breve.
In Marocco è questa la nuova emergenza delle associazioni che si battono per i diritti umani. Da Marrakesh a Casablanca, da Rabat a Khouribga - che pur essendo una piccola località merita di essere annoverata tra le grandi città quando si parla di emigrazione, essendo un bacino inesauribile di «espatriati» - sono centinaia le persone che denunciano di essere state maltrattate nei centri libici. Chi è riuscito a tornare parla di botte quotidiane, di cibo scadente, di cure sanitarie inesistenti, e di punizioni esemplari per chi cerca di scappare. L'Afvic - l'Associazione amici delle famiglie delle vittime dell'immigrazione clandestina - che ha il suo quartier generale proprio a Khouribga, ha attivato a marzo una linea telefonica appositamente dedicata a chi vuole segnalare casi del genere. «Finora abbiamo raccolto circa duemila segnalazioni. In alcuni casi i ragazzi sono tornati a casa. In altri casi, non se ne hanno più notizie», spiega Paco Belgacem, uno degli attivisti dell'associazione.
Youssef, Karim e Mohammed sono tre ragazzi di Khouribga appena espulsi dalla Libia. Tutti e tre si conoscono da tempo: abitano nel «quartiere operaio» della città, che prima di diventare famosa per aver dato i natali alla maggior parte degli immigrati marocchini in Spagna e Italia lo era per essere la patria del fosfato, unica risorsa naturale del Marocco. E' da qui che partono la maggior parte dei giovani di Khouribga per cercare fortuna all'estero. E se non riescono a ottenere un visto, passano per la Libia. Questa nuova rotta ha preso piede da circa due anni, esaurendo quasi completamente quella tunisina, i cui passeur sono malvisti a causa dei continui naufragi. Lo scorso gennaio l'ex ministro dell'Interno italiano Pisanu e il leader libico Gheddaffi avevano espresso «viva preoccupazione» per l'aumento degli immigrati provenienti dal Marocco. Pisanu aveva auspicato un maggior impegno dell'Europa nelle relazioni con la Libia.
Yussef è tornato a casa da due giorni, dopo averne passati 24 nel centro di detenzione di El Fellah, a Tripoli. Il suo racconto è ancora fresco e rabbioso, il fratello più piccolo lo ha praticamente imparato a memoria e lo aiuta a mimare i maltrattamenti delle guardie libiche. Mentre racconta, il salotto di casa si riempie piano piano, arrivano anche Aisha e Mohammed: i loro figli erano partiti insieme a Yussef e sono ancora detenuti in Libia. «I libici sono peggio degli israeliani», esordisce il giovane marocchino, in piedi, le mani nelle tasche dei bermuda. Ha scagliato l'insulto peggiore per un arabo, e riceve un convinto assenso dalla platea improvvisata. E' partito a maggio dall'aeroporto di Casablanca, «eravamo diversi ragazzi di qui, ma anche di Fes e Casablanca». Il suo passaporto era in regola, e in tasca aveva belli pronti i 450 euro necessari per poter entrare nel paese. «Nascosti, poi, ne avevo altri 2 mila, per arrivare in Italia. La prima cosa che ho fatto - continua Yussef - è prendere un taxi per farmi portare all'hotel Haiti di Tripoli. E' quello il posto dove si prende il primo contatto con i passeur». Che sono soprattutto libici, ma anche marocchini. Dopo aver passato quattordici giorni in una casa di Zawia, vicino Tripoli, finalmente arriva la notte del viaggio. Ma Yussef non partirà mai dal porto di Zuwarah, perché alcuni abitanti chiamano la polizia, che portano gli aspiranti immigrati italiani a El Fellah. «Una vita brutta, brutta. Ti davano da mangiare solo i ceci, il minimo indispensabile, due sole volte al giorno. Ti dicevano: mangia in cinque minuti. E se non ti sbrigavi, erano botte. Per noi marocchini, poi, insulti. Per dirci di stare seduti ci dicevano quot;a cucciaquot;, come con gli animali». «E se cercavi un po' d'ombra per mangiare, quelli ti spostavano al sole», aggiunge Mohammed. Anche lui, che dimostra molto meno dei suoi 23 anni, è partito con Yussef da Casablanca. Si sono ritrovati a El Fellah, di cui ricorda le notti da incubo: «Siccome eravamo troppi, si dormiva per terra su materassi finissimi, come quelli dei soldati. E ci dovevamo incastrare testa-piedi, uno con l'altro». Un giorno organizzano anche uno sciopero della fame: «Abbiamo un po' parlamentato con le guardie, e loro lì a dirci che era l'Italia a non volere gli immigrati e a fare quella politica».
Ma quello che lo ha più meravigliato, è quando ha capito che c'era anche del lavoro da fare. «Ogni tanto ci venivano a prendere, ci caricavano su un camioncino, e ci portavano a lavorare in una base militare - racconta Mohammed - Dovevamo pulire, fare delle piccole riparazioni. Una volta ho chiesto dell'acqua. Mi hanno detto: quando avrai finito. Alla fine mi hanno fatto bere da una bottiglia che era stata tutto il giorno sotto al sole, e era anche acqua sporca». Karim, invece, ricorda quando le guardie sparavano in aria per fare paura, e giura che un africano sub sahariano è stato colpito alla schiena. Nel centro di El Fellah, nelle stesse condizioni vivono anche donne e bambini. «Mi ricordo il caso di una donna egiziana, e del suo bambino di nove mesi, a cui nessuno dava il latte», racconta Mohammed. Le donne vivono in uno spazio separato dagli uomini, ma una volta al giorno - alle quattro - escono nel cortile comune. «C'è gente che si comporta bene, e gente che si comporta male con loro», dice Mohammed, senza scendere in particolari.
Mehdi è più anziano dei tre giovani ragazzi del quartiere operaio di Khouribga. Lui abita fuori città, ha quasi trent'anni, è più riflessivo e anche più segnato dall'esperienza nel centro di El Fellah, dove ha passato un mese e mezzo nel novembre del 2005. «Voglio raccontare questo episodio, a cui ho assistito con i miei occhi. C'erano cinque bangladeshi, che sono riusciti a fuggire dal centro, ma ovviamente sono stati ripresi. Allora ci hanno fatto uscire tutti fuori in cortile e i bangladeshi sono stati fatti stendere a terra,e gli hanno immerso la faccia nello scolo della fogna. Era una punizione esemplare». Sorride ricordando quella volta della «visita ufficiale»: «Non so di cosa si trattasse esattamente - spiega - ma so che le autorità libiche hanno svuotato il campo: ci hanno portato tutti in uno stadio di calcio, e nel centro hanno lasciato duecento persone». Mentre, secondo Mehdi, quando c'è stato lui i detenuti erano almeno 500, delle nazionalità più disparate, ma prevalentemnete africane, compresi somali e eritrei.
I quattro sono fortunati, perché possono raccontare. «Alcune persone che sono partite con me, ma sono ancora là dentro», dice Mehdi. Per i marocchini, le «espulsioni» dalla Libia funzionano in modo un po' particolare. Non sono infatti delle vere e proprie espulsioni: se vogliono tornare, il viaggio se lo devono pagare da soli. E' l'ambasciata del Marocco in Libia a occuparsi di tenere i contatti con le famiglie dei detenuti, a fornire il numero di fax dove segnalare l'avvenuto pagamento di un aereo di ritono a Casablanca, a occuparsi di fornire il biglietto alle autorità libiche. Sbriga tutte le pratiche un certo Ziad. Il primo passo, però, spetta al detenuto, che deve risucire a telefonare alla famiglia. Alcuni prigionieri riescono a tenere il cellulare, e lo affittano: due euro per ricevere una chiamata, cinque per farla «Ma chi non ha nessuno, oppure non ha il passaporto, rimane dentro» spiegano i «sopravvissuti». Mehdi ricorda un marocchino rinchiuso da nove mesi. I genitori che assistono al racconto si struggono. I ragazzi, invece, dicono di volere una «seconda chance». Nei bagni pubblici marocchini capita di trovare questa scritta: «O Italia, o morte».
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