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Non vedo, non sento, non parlo. Il velo benpensante sui cpt

Marco Rovelli, autore della band “Les Anarchistes”, ha raccolto nel libro “Lager italiani” storie individuali di soprusi, di immigrati passati per i cosiddetti centri di permanenza temporanei
21 luglio 2006
Stefano Galieni
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Le ragioni di chi ha voglia di capire sono all’inizio e alla fine del libro. «E’ la nostra storia delle colonne infami e un giorno dei figli chiederanno certo conto ai padri di quello che hanno lasciato fare, permesso, incoraggiato col silenzio». Ad aprire le porte dell’inferno raccontato nel volume di Marco Rovelli Lager italiani (Bur, pp. 288, euro 9,80) è Erri De Luca, a chiuderle, con affermazioni altrettanto definitive è Moni Ovadia: «Le anime belle dell’eterna retorica “italiani brava gente”, i sedicenti moderati che coltivano la ferocia contro “l’altro”, dietro le linde tendine del benpensantismo, non si facciano illusioni, quando questa vergogna emergerà in tutto il suo schifo, la loro infamia sarà evidente».
Nel mezzo storie, testimonianze, riflessioni a tutto campo, su un mondo che lentamente comincia ad essere chiamato col proprio nome, quello dei centri di permanenza temporanea, le nuove istituzioni totali che avvolgono tutta l’Europa, e che si esportano come la democrazia nei paesi di frontiera. Luoghi in cui, in nome dei limiti che si impongono al migrare, si confondono reo e reato, lo stato di eccezione diviene la regola.

Marco Rovelli, cantante e autore della band “Les Anarchistes” compie un operazione preziosa su molti fronti. Parte da singole storie. I volti dei tanti e delle tante che hanno attraversato la costrizione dei “Lager italiani”, cessano di essere numero, dato statistico da Ministero e diventano fisionomie visibili, storie che si svolgono, voci che finalmente irrompono con la propria insita capacità eversiva. Si rompe quel meccanismo che abitua a considerare la reclusione degli “irregolari” come un male necessario, una scelta imposta dagli squilibri economici e demografici all’occidente ricco che deve salvarsi anche tramite queste barriere. Ogni riflessione di carattere generale, ogni valutazione, anche ideologica, tesa a giustificare l’esistenza di questi nuovi e subdoli campi di concentramento, sparisce nelle parole smozzicate di chi racconta. Non sono solo storie di soprusi subiti che gridano vendetta ma la denuncia di una condizione di subalternità imposta attraverso forme più o meno cruente che però si caratterizzano per limitare la libertà personale, la possibilità di definire un proprio destino futuro. Chi entra in un centro ne esce per il rimpatrio o per un foglio di via entro 60 giorni ma in realtà si ritrova con addosso un marchio che ne delimiterà ogni prospettiva di esistenza, lo condannerà alla clandestinità perpetua o al fallimento totale di un progetto di vita.

Le storie individuali e collettive che Rovelli ha raccolto, sono state finora confinate negli ambiti generosi ma ristretti di una minoranza che non ha accettato le logiche ipocrite del non sento, non vedo, non parlo. Nei movimenti italiani - più estesi che nel resto d’Europa - queste storie hanno già viaggiato, anche attraverso i pochi quotidiani e i pochi programmi radiotelevisivi che le hanno volute intercettare, ma non basta. Debbono divenire consapevolezza diffusa, sapere collettivo, debbono indurre alla disobbedienza a leggi vergognose. Oggi ci sono le condizioni politiche per rimediare alle nefandezze commesse, vanno costruite le condizioni culturali per cui si stabilisca un nesso fra queste realtà e il pensare comune. Il libro di Rovelli, come tanti altri testi sull’argomento, tesi di laurea, video auto prodotti, spettacoli teatrali, portano questi messaggi, queste storie fuori dai confini della politica, utilizzando linguaggi diversi da quelli della politica, per restituirli alla loro stringente politicità. Aprono uno squarcio fastidioso ma necessario e mostrano come a volte la nostra tanto decantata democrazia sia ridotta a pura formalità. Una democrazia che si esporta per dimostrare la superiorità della civiltà occidentale ma che poi al proprio interno coltiva e pratica gli esempi più abominevoli della negazione di se, dei suoi valori fondanti, delle sue peculiarità storiche.

Le voci dei Jamal, dei Montassar, Jihad, delle Ribka e Mihaela, ci ricordano, ci sbattono in faccia che il germe che ha partorito il nazismo non è mai morto, che il “cuore di tenebra” è parte integrante e strutturale dell’Europa, rimosso e mai sradicato, e batte ancora i suoi ritmi. Una storia pluricentenaria secondo cui una “vita occidentale” vale molto più che una delle tante “vite altre” che ormai popolano le città europee.

Colonialismo che resiste? Neo colonialismo applicato ai corpi oltre che ai territori? Non servono definizioni da manuale, serve operare delle scelte: continuare a far parte dell’esercito di coloro che ignorano, si assoggettano, giustificano, l’esistenza di un diritto speciale per i migranti, o realizzare una discontinuità culturale che trasformi la nostra società nelle sue interrelazioni socio - economiche, culturali, esistenziali? Non sono ammesse mezze misure ne percorsi contorti, non si media ne si contratta sui diritti. Rovelli offre uno strumento per guardare la realtà con occhi diversi, lo ha realizzato mediante un lavoro certosino, ha avuto la voglia di cercare, di ascoltare, di immettersi in quel sistema di relazioni composto da chi la sua scelta ha già avuto modo e tempo di farla, ha raccolto e sistematizzato un mondo condannato altrimenti al buio.

Che queste voci diventino un monito per chi governa, amministra, decide e vota, ma anche per chi torna in piazza deciso a far valere la forza della ragione. Non si potrà dire: “Io non sapevo”.

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