Immigrati e stagionali, chi raccoglie i frutti dell’ipocrisia?
Le cifre, si sa, piacciono poco ma parlano chiaro: sono oltre 120mila gli stranieri che lavorano stagionalmente in Italia e ogni anno le richieste superano le quote d’ingresso stabilite.
Quasi tutti maschi, provenienti dall’Africa Sub Sahariana, ma anche dai Paesi dell’Est, soprattutto rumeni, lavorano nei campi (il 42% raccoglie frutta e verdura, il 32% pomodori, circa il 13% - i pochi a contratto a tempo indeterminato - sono allevatori) e rappresentano oggi le uniche braccia disponibili e la maggiore forza produttiva di quello che, non a caso, chiamiamo settore primario. Proprio mentre il Consiglio dei Ministri dimezza agli stranieri il tempo per ottenere la cittadinanza italiana, compiendo un passo decisivo verso la caldeggiata cancellazione della Bossi-Fini, sul fronte lavoro le tre principali organizzazioni professionali agricole, Coldiretti, Cia e Confagricoltura, hanno presentato al ministro Cesare Damiano un documento per promuovere la qualità dell’impiego dipendente in cui emerge l’esigenza di semplificazione e drastica accelerazione delle procedure per il rilascio delle autorizzazioni agli stagionali.
Ci sono due nodi essenziali da sciogliere: il primo, di natura politico-economica, riguarda il definitivo scollamento tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, proposto già dal ministro Ferrero, che per ora ha ottenuto il decreto flussi bis per l’assunzione di altri 350mila extracomunitari a settembre; il secondo, squisitamente sociale, riguarda le condizioni di vita, in tutte le stagioni, di questi lavoratori.
Così Liberazione è andata sul campo - di zucchine per essere precisi - per conoscere di persona chi raccoglie “i frutti dell’ipocrisia” (riferimento esplicito all’omonimo dossier di Medici Senza Frontiere del marzo 2005).
A Sabaudia e S. Felice Circeo, luoghi cari alle vacanze romane, c’è una folta e atipica comunità indiana: sono uomini tra i venticinque e i quarantacinque, vivono tutti (o quasi) nello stesso comprensorio, guadagnano in media quattro euro l’ora - ma i meno scaltri nelle trattative individuali non superano i tre euro e ottanta centesimi. Harwinder Singh è uno di loro e raccoglie susine a giugno, zucchine e melanzane a luglio, pomodori ad agosto. Sukjit Singh condivide con lui il nome e con tutti gli altri la provenienza, il Panjab indiano, le otto ore nei campi variabili in base all’abbondanza del raccolto o ai periodi dell’anno e l’affitto: trecentodieci euro al mese per quaranta metri quadrati più acqua, gas e luce da dividere in otto al civico 6 di via Sanio, in una zona di Terracina chiamata Borgo Hermada, un “ghetto”. Si respira aria d’isolamento tra i panni stesi fuori e le biciclette parcheggiate davanti alle porte di casa. Sono in Italia da cinque anni o più e chissà… potrebbero diventare tra poco cittadini a tutti gli effetti, ma parlano ancora male la nostra lingua. In presenza del datore di lavoro, che chiamano tutti - affettuosamente si intende - “padrone”, rispondono a monosillabi senza mai staccare lo sguardo dal loro referente che si affanna a farci anche da traduttore accentuando con ampi gesti le nostre domande. Sembra il gioco dei mimi. Decidiamo di tornare a trovarli da soli, e le cose cambiano. Qualche sorriso in più e qualche bugia in meno.
Ci fermiamo all’ingresso della loro abitazione. Sul monitor della tv c’è un film made in Bollywood noleggiato alla videoteca di fronte, accanto al supermercato indiano. Un calendario con il volto di Miss India e una mensola di scatolame al muro. Il tavolo per mangiare non c’è, ma basta un occhio alle altre due stanzette affollate di otto brandine unite tra loro per capire che non è quello il problema. Ci accompagna un ragazzo giovane dagli occhi vispi. Lo chiamano “il lungo” ed è quello che parla meglio e sorride di più. Ha frequentato un corso serale di italiano vicino Velletri. «Due volte a settimana per un’ora. Ma sono rimasto solo due mesi. Poi dovevo lavorare…» confessa un po’ imbarazzato.
Gli altri raccontano con la stessa intonazione della bicicletta che usano per andare al lavoro e delle propria famiglia rimasta a casa. Scopriamo che un volo economico (non Alitalia) andata e ritorno per l’India costa 650 euro, ma che tanto Singh non potrà tornare a conoscere sua figlia nata a giugno prima di dicembre perché è in attesa del rinnovo del premesso di soggiorno.
«Prima di venire in Italia come clandestino ho passato sei mesi in Germania ma non ho trovato lavoro. Qui invece nei campi il lavoro c’è, anche se non riesco a mandare soldi a casa», dice un uomo sui quaranta che per comodità si fa chiamare Max. Ha un contratto stagionale che scade a fine anno e il patentino per guidare il trattore. Il datore di lavoro vorrebbe metterlo in regola con contratto a tempo indeterminato ma l’iter vuole che torni in patria e sia poi richiamato in Italia previa approvazione del contratto da parte delle ambasciate di entrambi i paesi. A chi conviene?
Alla sede Cia di Latina ci aspetta un’altra sorpresa: gli indiani, la quasi totalità dei lavoratori della zona dell’Agro Pontino, non sono ancora considerati tra gli stranieri che possono essere assunti con contratto stagionale, ma solo a giorni lavorativi con un minimo di centocinquanta. «In questo periodo si raccolgono i kiwi, appena trenta giorni - spiega il presidente Luca Targa - ed è chiaro che un imprenditore agricolo, nell’impossibilità di stipulare contratti brevi, ricorra spesso all’illegalità rischiando per se stesso e per il lavoratore. Su questo punto in particolare e sull’abrogazione della Bossi-Fini in generale ci stiamo battendo, perché l’agricoltura è la nostra più grande risorsa e gli extracomunitari stagionali ne sono il motore trainante».
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