La formazione negata per i lavoratori delle tre D
La formazione dei lavoratori immigrati nel nostro paese è un vero e proprio buco nero. Ciò non deve meravigliare se consideriamo che anche quella rivolta ai lavoratori italiani è tra le più basse d'Europa. Un sistema di educazione degli adulti da noi non è mai esistito, né sembra che, concretamente, l'esigenza di istruire tutti per tutta la vita sia una priorità per governo, partiti, sindacati. Eppure nel Dna del movimento operaio di tutto il mondo l'attenzione verso la necessità di alzare i livelli di istruzione e la cultura delle classi subalterne è stata sempre presente. Non solo perché l'istruzione e il conseguimento di titoli di studio medio-alti permette ai lavoratori quella mobilità sociale ascendente che il sistema castale del capitalismo (italiano e non solo) blocca e boicotta, ma anche perché gran parte del movimento operaio di matrice socialista e comunista ha sempre considerato l'istruzione come un bene in sé, momento di crescita umana e professionale, di socializzazione, di emancipazione in vista dell'acquisizione di diritti forti di cittadinanza.
Tutto ciò vale anche per i lavoratori immigrati, i quali, sia detto per inciso, posseggono livelli di istruzione superiori agli italiani (solo un dato dal Dossier Caritas Immigrazione 2005: i laureati tra gli stranieri sono il 12,1% mentre tra gli italiani sono il 7,5%, i diplomati il 27,8 contro il 25,9). Di questa realtà ignorata e negata nel nostro paese si occupa il volume curato da Sergio Bonetti e Massimiliano Fiorucci, Uomini senza qualità. La formazione dei lavoratori immigrati dalla negazione al riconoscimento (Guerini e Associati, pp. 191, euro 18,50).
Il titolo è volutamente provocatorio e si riferisce al fatto che gli immigrati, assai spesso, vengono considerati «cittadini di seconda classe» perché occupano il segmento più basso del mercato del lavoro italiano e sembrano costretti a dovervi rimanere ancorati per una serie di ragioni: la mancanza di riconoscimento dei titoli di studio, della formazione pregressa e della precedente esperienza professionale; le difficoltà nell'accesso alle attività formative; la ridotta qualità della formazione rivolta alla popolazione immigrata. Si tratta di questioni su cui ragiona Massimiliano Fiorucci, docente all'università Roma Tre, nel saggio che apre il libro: «Gli immigrati abbandonano molto spesso le poche attività di formazione cui prendono parte perché impossibilitati a frequentare quei corsi che si svolgono in orari incompatibili con le loro esigenze lavorative. Molti di loro sono costretti a lavorare per tutta la giornata e risiedono in località periferiche lontane dai centri in cui si svolgono i corsi. La frequenza di un corso richiederebbe l'abbandono del proprio lavoro e ciò produrrebbe almeno due conseguenze nefaste: l'impossibilità di mantenersi, l'impossibilità di rimanere in Italia dove vige una legislazione che vincola indissolubilmente il permesso di soggiorno al contratto di lavoro. Agli immigrati è negata in radice la possibilità di migliorare o incrementare le proprie competenze professionali. La questione del riconoscimento dei titoli di studio e della formazione pregressa è altrettanto importante. (...) Trascurare completamente la formazione pregressa degli immigrati oltre a svalutare il potenziale di arricchimento economico e culturale del paese di destinazione, che non "utilizza" le competenze dell'immigrato, contribuisce a "svalutare" anche le persone stesse, che si vedono costrette a occupare posizioni lavorative più basse rispetto alle loro effettive capacità».
Posizioni lavorative, come non manca di sottolineare in un altro saggio Sergio Bonetti, fatte di lavori poveri e poco qualificati, il lavori delle tre D ( dirty, dangerous, demanding: sporchi, pericolosi, gravosi): «nell'evoluzione verso la cosiddetta "società della conoscenza" e il mondo post-industriale, il lavoro industriale esiste ancora e ha bisogno anche di quote consistenti di manodopera, non necessariamente qualificata e tanto meno troppo istruita».
Lo schiacciamento verso il basso del lavoro degli immigrati unito alla «flessibilità selvaggia» è documentato anche nel saggio di Oliviero Forti, ricercatore della Caritas, relativo al rapporto tra immigrazione e mercato del lavoro in Italia. Concludono il volume i saggi di Tommaso Cumbo sui servizi per l'inserimento professionale dei lavoratori immigrati e di Marco Catarci sulla formazione e l'inserimento lavorativo dei rifugiati in Italia.
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