Cosa c'è nelle tasche degli immigrati?
Il 10 dicembre si sono svolte a Roma le elezioni per il rinnovo dei consiglieri aggiunti. Un evento che per il numero di migranti aventi diritto aveva e ha un indubbio significato politico anche per il futuro.
Ben 155 mila migranti avevano la possibilità di eleggere 4 consiglieri. Di questi appena l'11% si è presentato ai seggi (e mille schede sono risultate bianche o nulle). E' «stato un flop» hanno titolato i giornali, colpa del ruolo formale del Consigliere aggiunto (hanno risposto altri) e il tutto è stato rimandato, come fosse la soluzione di ogni problema, al futuro diritto di voto amministrativo dove si vedrà veramente la partecipazione dei migranti.
Con il governo della destra bisognava rispondere al razzismo delle leggi come la Bossi-Fini e a questo spesso si contrapponeva una visione sempre positiva della sinistra che vede il migrante consapevole della propria condizione, difensore dei suoi diritti, affratellato alle altre comunità e che come lui vivono la stessa condizione. Ma quando sarà il momento di guardare dentro le nostre di tasche, discutere di quello che succede a casa nostra, nel mondo dell'immigrazione senza fingimenti?
Se 137 mila migranti (89% degli aventi diritto) non sono andati a votare perché ritengono l'istituto del Consigliere aggiunto un istituto «inutile», significa che improvvisamente ci troviamo di fronte a una enorme massa fortemente politicizzata e cosciente fino al punto di operare un boicottaggio attivo. Ma di che parliamo?
Mentre noi discutiamo del diritto di voto amministrativo, un diritto sacrosanto e non più rinviabile, rischiamo di svegliarci amareggiati se non capiamo che le comunità di immigrati sono attraversate da una forte disaffezione alla partecipazione. Io sono fortemente convinta che la partecipazione è un processo che va costruito, che va vissuto in prima persona. Forme di distanza dalla politica, che a volte rasentano il qualunquismo si manifestano non solo nel non andare a votare. Vogliamo ragionare su questo?
Non pensate sia giunto il momento di dire e ragionare sul fatto che chi ha votato, nella sua stragrande maggioranza, lo ha fatto in base all'appartenenza nazionale? Non è il momento di interrogarsi su quanto è radicato il nazionalismo? Ma quali «fratelli e sorelle», siamo filippini, marocchini, cinesi, peruviani e molte volte ci guardiamo in cagnesco, non ci sopportiamo.
Faccio un altro esempio, i candidati immigrati sono stati presentati dalla maggior parte della stampa per i loro aspetti folcloristici. Ma chi sono, quali sono i loro programmi, espressione di quali realtà nessuno lo ha detto. E avremmo scoperto che molti, non tutti ma la maggioranza, sono persone che hanno fatto una campagna a base di balle pirotecniche, oppure promettendo modifiche a leggi di cui il comune neanche ha potere decisionale. Mi domando se questo tipo di candidato avvicina o allontana il desiderio di partecipare? E se le balle le spara Berlusconi sono criticabili se invece le raccontiamo noi non sono anch'esse germi di una politica infetta? E riflettere su questo non è utile alla comprensione di questo fenomeno? Aggiungo inoltre che per la prima volta c'è stata la corsa del candidato a farsi sponsorizzare da un partito. Ma questo modo di identificarsi con un partito aiutava la causa degli immigrati, è un fatto normale, giusto, naturale o era solo una reciproca strumentalizzazione in vista di futuri giochi politici?
Vogliamo abbandonare gli stereotipi che abbondano anche a sinistra per cui tutto quello che sa di immigrato è bello e giusto? Come modificare questa situazione è una domanda che riguarda tutti quanti, in primo luogo chi come me lavora nella propria comunità, ma anche chi in Italia si batte per una diverso rapporto con gli immigrati.
Sono solo piccoli pezzi di un ragionamento che forse ognuno preso in sé non spiega del tutto le ragioni di questo astensionismo, ma penso che sia un errore non discutere del risultato di queste elezioni. C'è bisogno di attenzione al nostro mondo ma attenzione critica e severa e a maggior ragione quando c'è qualcosa che non funziona.
* Presidente dell'associazione dei lavoratori filippini in Italia, Kampi
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