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Quella geometria variabile della cittadinanza

Nell'apartheid europeo i nazionali sono elevati alla condizione superiore di «cittadini europei», mentre ai migranti sono negati i diritti. Un continente dai confini mobili e dove i diritti civili, politici e sociali sono uno spazio aperto al conflitto. «Europa di confine» di Enrica Rigo di cui anticipiamo stralci della presentazione che ne fa il filosofo francese
24 gennaio 2007
Etienne Balibar
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Fin dalle prime sezioni del suo libro (Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell'Unione allargata, Meltemi, pp. 240, euro 19.50), Enrica Rigo sostiene che l'assenza o il carattere frammentario degli elementi di costituzione formale sui cui si potrebbe fondare una Grundnorm europea, e che segnerebbero l'emergenza di un'autorità politica e di una fonte di diritto «superiore» agli ordini giuridici nazionali, nonché alle convenzioni che li legano, non significa in alcun modo che l'Europa non possegga (o non ancora) una figura istituzionale propria. Forse si tratta addirittura del contrario: una volta richiusa questa falsa finestra, si può vedere ciò che rende originale l'istituzione con cui abbiamo a che fare in Europa (...), e come si stabiliscono le sue relazioni con le istituzioni nazionali che ormai dipendono dall'Europa almeno quanto essa dipende da loro.
Costituzione materialePer questi motivi, bisogna innanzitutto fare ricorso sistematicamente alla categoria di «costituzione in senso materiale», che non designa tanto un sistema di principi giuridici incondizionati che precedono la legge, la divisione dei poteri e le loro modalità di attribuzione, quanto il risultato della loro evoluzione e del loro esercizio, codificando alcune pratiche politiche fondamentali e alcuni rapporti di forza. Tutte le istituzioni comunitarie e il gioco stesso delle istituzioni nazionali contribuiscono chiaramente a disegnare la «costituzione materiale» dell'Europa intesa in questo senso, e a regolarne i conflitti. Ma capita anche che certe decisioni legislative o politiche, tradotte in pratiche amministrative, rappresentino a questo proposito punti di svolta più fondamentali di altri. Per quanto riguarda i confini e la cittadinanza intesi come «status differenziale» stabilito sul territorio europeo, è chiaramente il caso degli accordi di Schengen, con le loro convenzioni di applicazione, e del trattato di Amsterdam che ha sancito il canone dei testi che definiscono i criteri di europeità.
(...) Ma questo primo riferimento è insufficiente, o piuttosto assume pieno significato solo quando vi si aggiunge una seconda considerazione: sto parlando del carattere essenzialmente transitorio della costruzione europea, sempre ancora «in sospeso» tra configurazioni che si succedono, e in corso di espansione al di là dei propri limiti esistenti. La grande forza dell'analisi di Enrica Rigo è qui quella di mostrare che, qualsiasi siano le circostanze storiche esterne (avanzata o arretramento dell'atlantismo, crollo dei regimi socialisti) o al contrario le speculazioni sempre ideologicamente non del tutto attendibili su ciò che costituirebbe, intrinsecamente, «l'identità europea», il processo di espansione mostra la natura stessa della costruzione istituzionale nella sua materialità. Istituzioni come il «sistema Schengen» sono esattamente funzionali al punto di vista del processo di espansione e ne dimostrano la necessità per l'Europa: per «proteggere i propri confini» l'Europa deve costantemente estendersi a nuove zone, a nuovi insiemi di paesi limitrofi, ma per estendersi deve anche continuamente proteggersi, incorporando vicini e «partner» nel proprio sistema di sicurezza.(...)
Questa analisi ci illustra che cosa significhi pensare alla cittadinanza come a una «macchina di differenziazione». Ma ci spiega anche i caratteri paradossali, di tipo spazio-temporale, che ormai riveste l'opposizione tra l'interno e l'esterno che definisce il confine. Se si vuole capire ciò che significa, per degli individui o dei gruppi umani, «essere esterni all'Europa», o «trovarsi respinti fuori dall'Europa», bisogna prendere in considerazione uno spazio vasto e in movimento, costituito da numerose pratiche la cui efficacia si estende sia verso il centro sia verso la periferia, poiché l'Europa racchiude «zone extraterritoriali» interne e «accordi di rimpatrio» stretti con paesi terzi, e proietta al di là di se stessa tutto un sistema di «confini virtuali». L'Europa, perciò, non appare tanto come un'entità geopolitica, che occupa una certa «parte di mondo», ma come una forza espansiva (sebbene limitata) e come una macchina (dall'efficacia discutibile, ma non trascurabile) all'opera nel flusso dei movimenti di popolazione e dei cambiamenti di status (...) a partire da un certo punto storico-geografico. Produttrice, in questo senso, di «mondializzazione» oltre che esposta alle sue vicissitudini. Cosa che ci porta a una seconda massa teorica: il problema dell'inclusione e dell'esclusione. (...)
Mobilità a rischioQuello che, in modo intenzionalmente provocatorio, avevo chiamato l'apartheid europeo, vale a dire il fatto che, nel momento in cui eleva i nazionali dei paesi membri alla condizione superiore di «cittadini europei», la regola fondante dell'Unione abbassa i non-cittadini (in particolare i migranti residenti in modo stabile, se non permanente, ma non «naturalizzati») alla condizione inferiore non di stranieri nel senso classico, ma a residenti privi di diritti (in particolare, ma non solo, dei diritti politici).
Ora, Enrica Rigo spiazza completamente questo modo di presentare la «macchina di differenzizione» che (in ogni cittadinanza storica, così come dice lei) costituisce la cittadinanza europea. Passando da un punto di vista statico a un punto di vista dinamico, mettendo al centro dell'analisi non il semplice riconoscimento o la negazione dei diritti, l'inclusione o l'esclusione statutarie, ma le modalità differenziali di mobilità degli individui e dei gruppi che sono così opposti tra loro, l'autrice mostra che qui non abbiamo tanto a che fare con due situazioni incompatibili (cosa che connota l'uso corrente del termine «esclusione»), quanto con uno spettro di situazioni conflittuali e in movimento, che «sconfinano» in entrambi gli estremi.
Abbiamo così dei «semi-cittadini», residenti stabili titolari di diritti di circolazione quasi identici a quelli dei «cittadini» (e altri diritti analoghi), «integrati» nella vita sociale europea, ai quali, ispirandosi all'idea del vecchio «meteco», la scienza politica inglese, riprendendolo dalla Common Law, ha dato il nome di denizen (opposto a citizen). Ma abbiamo anche e soprattutto - provocazione per provocazione - i «cittadini illegali» che sono i migranti falsamente clandestini (la cui esistenza è in realtà perfettamente nota), in condizione permanente di ingresso e di uscita all'interno dei confini dell'Europa, che attualizzano la «virtualità» dei confini per il solo fatto di «passare» e «attraversare» il territorio sovranazionale.
Questa formula paradossale - il cittadino illegale -, forse ispirata dal titolo del celebre libro di Joan W. Scott sulle donne nella Rivoluzione francese («la cittadina paradossale»), viene giustificata da diverse considerazioni, che vanno tutte nella stessa direzione. C'è innanzitutto il fatto che la «legalità» e «l'illegalità» non sono in alcun modo situazioni incompatibili, caratteristiche di individui e gruppi eterogenei, ma sono piuttosto momenti successivi nel tempo, più o meno distanti tra loro, di un solo e unico percorso migratorio (la cui conclusione può essere la «naturalizzazione», l'integrazione, ma anche il respingimento o la morte).
La frontiera comune
I «cittadini illegali» appaiono così come portatori di rivendicazioni, contestatori dell'istituzione, che allo stesso tempo combattono per la propria cittadinanza futura. Ma c'è anche e soprattutto il fatto che la costruzione della frontiera comune europea (e la corrispondente «europeizzazione» delle frontiere nazionali) è stata accompagnata da una penalizzazione del «soggiorno illegale», che non è scevra da ogni sorta di difficoltà nella sua stessa messa in opera, ma il cui senso generale è chiaro: costituisce un riconoscimento negativo della cittadinanza, e sancisce una certa «appartenenza» essa stessa negativa.
Una lunga tradizione europea di filosofia del diritto spiega infatti che il fondamento della possibilità di punire gli individui risiede nel principio dell'appartenenza del delitto all'ordine giuridico e del criminale alla comunità dei suoi soggetti (che, in regime democratico, sono «cittadini»). tuttavia punire il migrante illegale, anche tramite un'espulsione concepita come una pena, significa già riconoscere la sua appartenenza alla comunità dei cittadini, in una forma certo limite e negativa, ma praticamente irreversibile e inevitabilmente evolutiva.

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