Pescatori a secco, scafisti per forza
«Quando ho visto la bandiera del Senegal sono scoppiato in lacrime». Seduto all'ombra di una tettoia al porto di Mbour, 100 chilometri a sud di Dakar, Dauda ricorda con una punta d'amarezza il suo effimero soggiorno europeo. «Siamo partiti di notte su una piroga. Dopo otto giorni in mare, siamo arrivati alle Canarie. Eravamo stremati. Gli spagnoli ci hanno soccorso, messo in un centro, nutriti. Poi, passata una settimana, ci hanno indicato un aereo. "Salite. Vi portiamo a Madrid", ci hanno detto. Ma, dopo due ore, eravamo in Senegal». Dauda e i suoi compagni di viaggio sono stati tra i primi a sperimentare gli effetti dell'accordo di rimpatrio firmato tra i governi di Madrid e Dakar. I due paesi lo hanno siglato negli stessi giorni in cui loro erano in mare, a combattere contro le intemperie sperando di raggiungere le coste europee. Erano convinti di ripercorrere i passi già solcati nei mesi precedenti da migliaia di loro connazionali: il viaggio in piroga, l'arrivo alle Canarie, il transito nel centro e poi la libertà da clandestini sul continente. Si sono invece ritrovati al punto di partenza. E con un handicap in più: «Devo ancora ritrovare i 400mila franchi Cfa (circa 650 euro) che mi sono fatto prestare per il viaggio», racconta sconsolato Dauda.
L'uomo, un quarantenne robusto dallo sguardo vivace, si era imbarcato con altri 88 compagni. Erano tutti amici e conoscenti. Il loro era un viaggio auto-gestito: «Abbiamo messo insieme i soldi con cui abbiamo comprato la piroga e i due motori. Siamo partiti il 22 maggio scorso. Due settimane dopo, eravamo di nuovo qui». Accanto a lui, Abubakar e Abdullaye ascoltano in silenzio. Anche loro erano su quella barca di legno, anche loro si sono ritrovati sull'aereo volato verso sud con l'inganno. Non parlano francese, ma riescono comunque a esprimere il loro disappunto. «C'est pas juste», mormorano scuotendo la testa. Oggi, gli 89 viaggiatori sfortunati hanno costituito un'associazione, denominata «Retour travail dignité». Sperano di poter accedere ai fondi che la cooperazione spagnola ha promesso al Senegal in cambio dell'accordo di rimpatrio. Ma di questi soldi per il momento non c'è l'ombra. «Li ha usati Wade (il presidente, recentemente rieletto ndr) per finanziarsi la campagna elettorale», dichiara sicuro di sé Dauda.
«Barcellona o morte!»
A Mbour, l'Europa è sulla bocca di tutti. Da qui nei mesi scorsi sono partite decine di piroghe che, in cinque-sette giorni, hanno raggiunto con i loro carichi umani le coste delle isole Canarie spagnole, a più di 1500 chilometri di distanza. Non sempre, tuttavia, sono arrivate a destinazione: un numero imprecisato di imbarcazioni si è perso per strada, inghiottito dal mare con tutti i suoi passeggeri. Una prospettiva che non spaventa i candidati all'emigrazione: lo slogan «Barça o Barsar», «Barcellona o la morte» in lingua wolof, è diventato ormai un grido di battaglia tra i giovani senegalesi. Un grido che viene brandito come un guanto di sfida verso la Spagna e la sua politica di rafforzamento dei controlli per impedire gli sbarchi. Su questo fronte, Madrid è iper-attiva: prima ha esercitato pressioni sul Marocco per blindare le coste atlantiche e mediterranee del regno alauita. Poi, allorché i punti di partenza si sono spostati più a sud (in Mauritania, in Senegal, ora anche in Guinea Bissau e in Guinea Conakry), ha adottato un'altra tecnica: firma accordi con i paesi di partenza, chiede l'aiuto europeo per vigilare sulle coste (una pattuglia di aerei e navi coordinata da Frontex, l'agenzia per il controllo delle frontiere dell'Unione, è attiva in loco dall'estate scorsa), respinge i migranti arrivati per fermare l'ondata. Ma il richiamo è forte; i racconti di chi ce l'ha fatta rappresentano un'attrattiva irresistibile: secondo dati resi pubblici dal governo spagnolo l'anno scorso circa 30mila persone sono giunte via mare sulle coste delle Canarie.
Contrabbando a Las Palmas
«Qui non c'è nulla da fare. Spesso lavoriamo in perdita». Al porto di Mbour, Dauda e i suoi compagni fanno parte della lunga catena di intermediari e acquirenti che compone la filiera del pesce in Senegal. Comprano dai pescatori artigiani e rivendono a grandi commercianti a un prezzo maggiorato, sperando di ricavare un piccolo profitto. Nel grande piazzale che funge da centro di scambio e di raccolta l'attività ferve. Polpi, seppie, orate, cernie, sardine, saraghi. Casse piene passano di mano in mano. I pesci sono poi suddivisi in funzione della destinazione: le specie pregiate ai grossisti, che le metteranno sul primo volo in partenza per l'Europa o l'Estremo Oriente; quelle più povere, come le sardine, al mercato locale. Ma ormai il pesce scarseggia. E spesso i pescatori tornano a casa con un pugno di mosche: con quello che hanno trovato, a volte, non riescono neanche a rifarsi del costo del carburante consumato.
«L'Europa non può chiudere gli occhi di fronte a questa tragedia», tuona Gaoussou Gueye, presidente del Conseil interprofessionnel de la pêche artisanale au Sénégal (Conipas), gruppo di associazioni che difende i diritti dei pescatori artigianali. «Se oggi c'è meno pesce, è soprattutto per colpa dei paesi del Nord: sono le navi europee e asiatiche che vengono qui a sottrarre risorse ittiche nelle nostre coste, spesso in modo illegale, beneficiando dell'assenza di controlli. È inutile nascondersi dietro un dito: tutti sanno che i bracconieri del mare hanno stabilito un mercato a Las Palmas, sull'isola di Gran Canaria». Tra pescherecci illegali con bandiere di comodo, barche che pescano più di quanto sarebbero autorizzate e si avvicinano eccessivamente alla costa, tecniche distruttive (come le reti a strascico o la dinamite), i pescatori artigianali senegalesi sono nel pieno di una crisi nera. Su pressione delle associazioni di categoria l'anno scorso, complice anche il periodo elettorale, Dakar non ha rinnovato l'accordo di pesca siglato con l'Unione europea. «Abbiamo ottenuto questa vittoria. Ma il problema principale, in tutte le coste dell'Africa occidentale, è la pesca illegale. Non c'è controllo. L'Europa non può chiudere un occhio quando le sue barche ci rubano il pesce e lamentarsi poi quando i nostri ragazzi partono verso le isole Canarie. Tanto più che fra i due fenomeni esiste una correlazione diretta», conclude Gueye.
Al porto di Mbour la correlazione diretta è sotto gli occhi di tutti: le grosse piroghe che punteggiano il mare sono le stesse che si vedono arrivare sulle coste spagnole; le storie di pescatori sul lastrico che si sono riconvertiti in trasportatori di immigrati sono moneta corrente. «È normale: il proprietario di una barca può chiedere fino a 400mila franchi Cfa (circa 650 euro) per ogni passeggero. Se moltiplichi per 80 passeggeri ottieni più di 30 milioni di franchi. Tra il costo della piroga, la benzina, i due o tre motori, i giubbotti di salvataggio e i gps, il viaggio può costare in tutto 10 milioni. Il guadagno è enorme». Pierre-Louis sa di cosa parla. Lavora a cento metri dal grande spiazzo in cui viene venduto il pesce, nel cantiere di costruzione delle barche. Appoggiato all'interno della sua ultima creatura - una grande piroga di trenta metri, il cui scafo è intarsiato e arricchito di decorazioni colorate - snocciola calcoli e cifre. «I viaggi si organizzano alla luce del sole: non è possibile che la gendarmeria non si sia accorta che, l'anno scorso, la domanda di barche nuove sia aumentata del 200 per cento. E che, improvvisamente, i giubbotti di salvataggio erano diventati merce rara al porto». Grande business per chi ha un po' di capitale da investire, opportunità unica per pescatori indebitati fino al collo (che hanno potuto così coprire immediatamente i loro buchi di bilancio se la barca era di loro proprietà o viaggiare gratis come piloti se era di qualcun altro), la partenza verso le Canarie rappresenta l'ultimo sbocco per una popolazione che si dibatte tra indigenza e mancanza di prospettive.
Le illusioni di Madrid
Oggi a Mbour tutto tace. Da qualche tempo le partenze, e quindi gli sbarchi in Spagna, sono diminuiti. Madrid è convinta che la sua politica di arginamento, fatta di accordi di rimpatrio e di promesse di finanziamento per progetti di cooperazione, sia vincente. Ma Pierre-Louis è perentorio: «La Spagna non si faccia illusioni. Ora, semplicemente, non è stagione. Appena ricomincerà a piovere e il mare si placherà un po', la rotta sarà di nuovo praticabile e le partenze riprenderanno alla grande».
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