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Il padano-marocchino che dà lavoro ai migranti

La storia Abdellah è da 10 anni in Italia: tanti piccoli lavori, poi l'impegno sociale e l'avvio di una cooperativa. A lieto fine Dal Maghreb a Inzago, Milano. La parabola di un maghrebino padano
10 aprile 2007
Alessandro Braga
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Il suo vero nome è Abdellah, ma in paese tutti lo chiamano Aldo. Trentasette anni, occhi verdi, ficcanti, in un volto che, per i lineamenti che ha, ricorda più quello dei minatori siciliani che quello dei berberi del deserto. Mentre parliamo la piccola Sara, quasi due anni, continua a mettergli le mani in faccia, non sta ferma un momento. E' nata il 3 febbraio dello scorso anno. Nel nostro paese. Nazionalità italiana. Accanto la moglie Suad tace, e ascolta il marito che racconta i suoi quindici anni italiani. Un racconto «a spizzichi e bocconi», visto che non riesce a fare neppure pochi passi senza che qualcuno gli rivolga la parola: «Ehi Aldo, come stai?», «Ci vediamo al solito bar per l'aperitivo?», e via dicendo. Lo conoscono tutti. Lui risponde, saluta, sorride. Poi, quando si avvicina qualcuno che conosce meglio degli altri, gli chiede: «Alùra, tüt ben?». Come «alùra, tüt ben?». Un marocchino che parla dialetto milanese è raro quasi quanto un leghista intelligente. «L'ho imparato quasi subito, sennò come facevo a parlare con i vecchietti al bar?», sorride Aldo. Naturale, quasi ovvio. E' arrivato in Italia il 27 ottobre del 1991. La sua meta Inzago, un paese di 9 mila anime alla periferia orientale della provincia milanese, dove suo padre già lavorava da alcuni anni in un'azienda ortofrutticola. In mano solo un visto turistico. Il sogno, l'università, l'Isef. «Ma per iscriversi era necessario un visto per motivi di studio. Allora mi sono trovato di fronte a un bivio: tornare in Marocco, a El Jadida, sull'Atlantico, o andare a lavorare con mio padre». Inizia un periodo infernale: quattro anni a raccogliere verdura. Dieci, anche dodici ore al giorno, tutti i giorni, Natale e Capodanno compresi. La paga, 6 mila lire all'ora, poco più di tre euro. In nero, naturalmente. E, a fine giornata, un letto in uno spazio angusto, da dividere con altre dieci persone. «Ma è anche il periodo in cui ho trovato i miei amici veri, quelli che in futuro mi avrebbero aiutato - dice - la sera, dopo il lavoro, non mi ritiravo subito in stanza, andavo in paese, nei bar, e parlavo con la gente». Scopre che in paese esiste un centro sociale, dove si tengono anche lezioni di italiano per extracomunitari. Ci va, sebbene il suo italiano sia già buono e, a poco a poco, il centro diventa la sua seconda casa. Conosce persone, partecipa ai progetti che i volontari portano avanti, instaura rapporti di amicizia, anche d'amore. Nel 1995 approfitta della sanatoria, e ottiene il permesso di soggiorno. L'anno successivo, insieme ad altri colleghi, la decisione che gli cambia la vita: si licenzia e fa causa al datore di lavoro. «Volevamo lasciare quel posto perché era come essere ridotti in schiavitù. I più anziani lavoravano e tacevano, l'unico interesse che avevano era racimolare un po' di soldi da spedire alle famiglie in Marocco. Ma noi giovani soffrivamo quella situazione, eravamo integrati nel tessuto sociale del paese e capivamo che le cose non potevano funzionare così». Alla fine ottengono la vittoria ma, anche a causa di un avvocato che li pianta in asso a metà del procedimento, riescono a strappare ben poco dal punto di vista economico: 14 milioni di lire, da dividere in cinque. Gli altri se ne vanno dal paese, trovano altri lavori, uno è tornato in Marocco. Aldo no, sente che il suo paese ormai è Inzago. «Quando potrò mi candiderò alla carica di sindaco, e diventerò il primo marocchino a vestire la fascia tricolore», dice convinto. In quel periodo il problema principale è trovare un nuovo lavoro: va bene qualsiasi cosa, non si è mai fatto problemi, l'importante è lavorare. Un amico del centro sociale lo assume nella sua tintoria, tre mesi. Poi quattro mesi a costruire serramenti. Alla fine trova il lavoro giusto: per sei anni è litografo. Il lavoro gli piace, la sera esce con gli amici, si diverte. Ha anche le sue avventure amorose. Nel frattempo, dopo un periodo in cui viene ospitato a casa di alcuni conoscenti, trova casa. Un bilocale da dividere con Bush. Non il presidente statunitense ma Bushkim, detto Bush, un coetaneo albanese conosciuto al centro sociale. Questa strana convivenza prosegue per due anni, fino al 2000. Nell'estate di quell'anno torna in Marocco a trovare la famiglia e si sposa. Ma agli amici italiani non dice nulla per alcuni mesi. Poi, quando la moglie lo raggiunge, deve dirlo. Cambia casa, ma non smette il suo impegno sociale: nel 2004 entra a far parte della consulta del volontariato e diventa vicepresidente del consiglio comunale degli stranieri. Anche nel lavoro decide che è, ancora una volta, il tempo di cambiare: lascia la tipografia e si mette in proprio. Adesso gestisce una cooperativa che trova lavoro agli immigrati, è un piccolo imprenditore padano in salsa magrebina. E a febbraio 2005 nasce Sara, la sua prima figlia. Ora non ha occhi che per lei. «Per fortuna», sghignazzano gli amici.

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