Bauman: «I lavavetri? Scarti del sapere-informazione»
Modena - Il nostro mondo è saturo. E' saturo perché il nostro stile economico scarta di continuo individui e modi di vita passati che non sono più considerati conformi alle leggi della globalizzazione. Il progresso, insomma, produce scarti umani e, insieme, l'inquietudine sul come smaltire i rifiuti in eccesso. Proprio quanto accadeva agli abitanti di Leonia - una delle "Città invisibili" di Calvino - alle prese con montagne di spazzature. Questo, Zygmunt Bauman, sociologo e pensatore ospite del Festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove si parla di sapere, lo sosteneva in un libro pubblicato tre anni fa, Vite di scarto (Laterza, 176, euro 7,50). Un'analisi penetrante dell'attualità, anche uno scavo nel linguaggio dei media, su termini che compaiono d'abitudine sulle pagine dei giornali. Come gli "esuberi", parola che ha trasformato gli operai in prodotti di risulta che non potranno mai più essere richiamati in servizio. La loro destinazione è la discarica. Nel mucchio potremmo aggiungere anche i lavavetri, parola che ultimamente si è colorata di tinte fosche.
Avremmo una concezione astratta del sapere se non tenessimo conto del suo trasformarsi in ideologia, in un sapere portatore di un ordine e di un progetto sociale che produce scarti umani. Di questa esclusione abbiamo avuto un esempio nella recente campagna di allarmismo sociale e di repressione contro i lavavetri. Sono loro gli scarti del sapere?
E' una domanda abbastanza difficile. Nella modernità i problemi sono stati sempre considerati come una carenza di conoscenza. Il modo di affrontarli perciò era quello di acquisire maggiori informazioni per meglio comprendere la situazione particolare che di volta in volta si presentava.L'obiettivo era quello di raggiungere una conoscenza sufficiente. Cosa è cambiato oggi? Negli ultimi trent'anni la quantità di informazione è cresciuta a ritmi impressionanti, incalcolabili, inimmaginabili nell'epoca precedente.
Basta leggere, per rendersene conto, l'edizione del New York Times: al suo interno ci sono molte più informazioni e conoscenze di quanto una persona mediamente istruita possa padroneggiare e acquisire. Per citare Virilio, la grande minaccia che mette a rischio oggi l'umanità non è la guerra atomica, ma l'ipertrofia e la mole impressionante di informazione. Siamo letteralmente inondati. Basta digitare una parola su Google e immediatamente appaiono decine di migliaia di risposte. La domanda è: quanto sono di utilità alle nostre questioni? Il problema oggi non è l'assenza di conoscenza, bensì la difficoltà di muoverci in questo immenso cumulo di informazioni, molte delle quali sono spazzatura. Per il 99 per cento quella mole di informazione è ingannevole o, comunque, non fa al caso nostro, non ci aiuta a risolvere le nostre domande. Non abbiamo criteri per discernere e distinguere le informazioni che davvero riguardano i problemi più urgenti del mondo contemporaneo, quelle che sono importanti da quelle che non lo sono. Non ne abbiamo né il tempo né gli strumenti. Ecco perché rischiamo d'avere una visione caotica, appannata, sfocata. In questa situazione facilmente possono prendere piede campagne sulla sicurezza e allarmismi sociali - come quella sugli immigrati e i lavavetri - che funzionano come vere e proprie valvole di sfogo delle nostre inquietudini, della nostra insicurezza, del nostro disagio verso i problemi autentici. Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha detto che il nostro è un tipo di società in cui i problemi possono venire inventati oppure messi sotto silenzio. Non riusciremo mai a sapere del tutto ciò che è vero e ciò che non è vero.
Per sapere s'intende spesso una conoscenza neutra. Non rischiamo di restare prigionieri di posizioni idealistiche se non evidenziamo che dal sapere nascono anche le ideologie?
L'ideologia è stata sempre considerata una forma di conoscenza inferiore rispetto agli altri saperi, a partire da quello scientifico. Soprattutto la credenza è stata scartata, messa ai margini e considerata non degna di essere studiata. Eppure sono le credenze che influenzano e condizionano i nostri comportamenti.
C'è una forma di ideologia che fa da sfondo alla nostra società consumistica?
L'età moderna è stata caratterizzata dalla lotta contro le emozioni e le passioni. Sono state considerate l'esatto opposto della vita felice che doveva essere guidata invece dalla ragione, pianificata. Sartre diceva che abbiamo necessità di dotarci di un progetto di vita fin dalla nascita capace di costruire un senso della nostra esistenza. Ai giorni nostri ci rendiamo conto invece che c'è un ritorno al passato. Un ritorno al Romanticismo. Attraversiamo un periodo di riabilitazione delle passioni, delle emozioni. Non c'è più la necessità del calcolo razionale ma si lascia spazio ai desideri. Ovviamente ci fa piacere perché ricolloca la nostra esistenza nel mondo nella sua completezza e non solo più soltanto nella sua dimensione razionale. Gli aspetti più umani, i desideri e le passioni, prima venivano azzittiti e repressi nel conflitto con la ragione. Ma in questa riabilitazione hanno un peso anche interessi economici. Se pensiamo agli ultimi cento anni le necessità e i bisogni degli uomini sono notevolmente cresciuti. In passato si pensava che fosse possibile calcolare i bisogni delle persone: una volta che fossero stati soddisfatti si sarebbe raggiunto uno stato di autosufficienza della società. Una condizione permanente in cui non ci sarebbe stato bisogno d'altro. Quest'idea è fallita. E' subentrata la società consumistica, la società dei consumatori nella quale il motore principale è rappresentato proprio dalle necessità che si trasformano in desideri. Oggi c'è stato un passaggio ulteriore. Quando compriamo il desiderio non basta più, non è più sufficiente, c'è qualcosa di più che ci spinge ad acquistare: la volontà di qualcosa. Va distinta dal desiderio. Quando andiamo al supermercato per acquistare qualcosa di cui abbiamo necessità, per esempio del sapone, dobbiamo passare attraverso gli scaffali. E allora siamo attirati da altre cose cui non pensavamo, un paio di scarpe, un abito. Siamo presi dalla volontà di acquistare. Ma è uno stato temporaneo, transitorio. La vita ideale nella società consumistica dovrebbe essere una vita di shopping costante senza però mai concludere l'acquisto. Perché ciò che conta non è l'acquisto in sé e per sé, ma la volontà di acquistare. Le emozioni sono importanti ma non vanno trascurati gli aspetti negativi nella società dello shopping. Abbiamo pur sempre bisogno della guida della ragione anche se ci può apparire un po' grigia e monotona.
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