Kwame Anthony Appiah: «Adesso l'altro non è più straniero»
A chi appartengono l'arte e la cultura? Di cosa stiamo parlando quando evochiamo il patrimonio culturale di un determinato paese? Kwame Anthony Appiah è un uomo intelligente e da filosofo e storico della cultura sta costruendo da anni una riflessione intorno alle nozioni oggi così decisive di identità e appartenenza. Nel nostro paese il dibattito delle idee fa però notizia soprattutto quando sembra presentarsi come un paradosso o come una provocazione. Così questo docente di filosofia dell'Università americana di Princeton, nato a Londra e cresciuto tra il Ghana e la Gran Bretagna, è stato protagonista di una piccola querelle mediatica grazie a un'intervista che ha rilasciato recentemente a Panorama e nella quale è stato presentato come un sorta di difensore dei «furti d'arte» compiuti dai grandi musei americani ai danni dell'Italia o dei paesi africani. «Quando sento l'espressione "patrimonio culturale" italiano o eredità nazionale, immagino gli artisti etruschi e romani rivoltarsi nelle tombe, perché quegli artisti, quando creavano quelle opere, non si sentivano certo cittadini italiani» ha spiegato Appiah al settimanale, precisando come a suo giudizio le opere d'arte devono restare dove sono esposte, magari accanto a altri capolavori provenienti da mezzo mondo, o al massimo portate in «tour» nei paesi di provenienza. Non c'è invece nessun bisogno che «tornino a casa», anche perché bisognerebbe prima capire quale sia la loro casa.
Fin qui quello che in Italia è stato letto come un paradosso o una difesa d'ufficio delle grandi istituzioni museali statunitensi. Per Appiah la sfida va però molto più in là. L'esempio delle opere d'arte e dei loro viaggi intorno al mondo serve infatti al filosofo per illustrare una tesi che, nell'epoca in cui si affronta - spesso con crescente disagio stando almeno al dibattito si sicurezza, immigrazione e minoranze religiose - la questione della libera circolazione degli esseri umani sul pianeta, sostiene apertamente anche la necessità della libera circolazione delle culture.
Il cuore di questa proposta, che attraversa i suoi scritti di questi ultimi anni, In My Father's House (1992), Thinking It Through (2004) e The Ethics of Identity (2005), è ora contenuta in Cosmopolitismo. L'etica in un mondo di estranei , appena pubblicato da Laterza (pp. 202, euro 15,00) che Appiah presenta questa mattina a Carpi nell'ambito del Festival Filosofia Sapere 2007 in programma fino a domenica anche a Modena e Sassuolo.
«Il cosmopolitismo - spiega il filosofo di Princeton - comincia con ciò che è umano nella comunità umana». In altre parole, tornando alla querelle sulle opere d'arte, è facile «comprendere il desiderio di riportare a casa questi oggetti». Ciascuno costruisce una relazione particolare con ciò che riconosce come unico e originale e che ritiene appartenere al proprio spazio culturale. Solo che guardandosi intorno oggi ci si dovrebbe interrogare sul fatto che sia o meno questo l'orizzonte attraverso cui guardiamo al mondo. Non dovremmo piuttosto capire, si domanda Appiah, se «siamo in grado di rispondere emotivamente anche a opere d'arte che non sono nostre». E visto che la risposta affermativa a questo quesito è parte dell'esperienza di ciascuno di noi, diventa evidente come «in realtà, possiamo rispondere pienamente all'arte "nostra" solo se superiamo l'idea che sia nostra e cominciamo a rispondere all'arte in sé», valorizzando così il collegamento che si produce con ciò che osserviamo «non attraverso l'identità, ma malgrado la differenza». Questo senza contare che «gran parte di ciò che si desidera proteggere come "patrimonio culturale" risale a ben prima che fosse posto in essere il sistema degli Stati moderni, è opera di membri di società che non esistono più». Oggi, appartiene a tutti, non importa dove si trovi. E' così che «il discorso della "proprietà culturale" ha avuto sempre una connotazione imperialista, anche quando si volgeva contro l'imperialismo», conclude Appiah.
Il problema resta quello di identificare la casa verso la quale si vuole tornare o ci si vuole volgere alla ricerca di conferme in un'epoca dominata dall'incertezza e dalla rapidità delle trasformazioni. O anche soltanto di trovare l'indirizzo del luogo in cui l'incontro con "gli altri" può avvenire nel modo più confortevole e produttivo. Questo perché «il dialogo tra persone di paesi diversi può essere piacevole o carico di tensione, a seconda delle circostanze, ma è comunque inevitabile», taglia corto l'autore di Cosmopolitismo .
Spesso accumunato a Cornel West, il marxista afroamericano forse più noto a livello internazionale, Kwame Anthony Appiah si è occupato a lungo della cultura e della storia africana e delle sue tracce tra le comunità nere degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Prima di Princeton ha insegnato nelle università di Cambridge, Yale, Cornell, Duke e Harvard e le sue tesi attraversano il dibattito degli studi postcoloniali. Parla da filosofo, si schernisce dichiarando di non occuparsi di politica, ma lancia un sasso in grado di rompere molti vetri nel confronto sempre più stretto sui temi dell'identità che caratterizza l'Occidente. «Il cosmopolitismo di cui parlo - spiega - è un'avventura e un ideale: ma se non si ha rispetto per la diversità non ci si può aspettare che tutti diventino cosmopoliti. I doveri morali di chi vuole esercitare la propria legittima libertà di vivere in comunità con i suoi simili - tenere lontano il resto del mondo, come fanno gli Amish negli Stati Uniti - non sono affatto dissimili da quelli che abbiamo tutti noi: fare per gli altri ciò che la morale richiede. Tuttavia un mondo in cui le comunità siano nettamente separate le une dalle altre non sembra più essere una opzione seria, se mai lo è stata. La scelta della segregazione e dell'isolamento è stata sempre anomala, nella nostra specie perennemente in movimento. Il cosmopolitismo non è difficile; lo è invece il rifiutarlo».
Assuefatti alla logica dello scontro di civiltà, spesso assunto inconsciamente anche da chi dice di rifiutarlo a parole, siamo ormai abituati a pensare le culture in termini identitari, quasi dei blocchi di pietra che non si possono neppure scalfire dall'esterno e a rifugiarci nell'idea che esistano isole felici che si sottraggono alla globalizzazione. Insomma un orizzonte che fa paura quanto la minaccia che si vuole denunciare. E' a questa resa al delirio della guerra culturale, di ogni guerra culturale, che Appiah lancia la sua sfida: si torni al concetto filosofico dell'«uomo cittadino del mondo», all'ideale cosmopolita di un mondo in cui nessuno sia «straniero».
Un percorso che l'intellettuale africano e americano porta con sé fin dalla sua biografia: «Nell'ultimo messaggio che lasciò a me e alle mie sorelle, mio padre scriveva: "Ricordatevi che siete cittadini del mondo". Quando era un leader del movimento di indipendenza nella ex Costa d'Oro, mio padre non vide mai un conflitto tra parzialità locali e morale universale, tra il sentirsi parte del posto in cui si vive e parte di una comunità umana più ampia. Allevato da questo padre e da una madre inglese che ha mantenuto forti legami con la nostra famiglia in Inghilterra e ha messo profonde radici in Ghana, dove vive da cinquant'anni, ho sempre avuto un senso della famiglia multiplo, coincidente e sovrapponibile con il senso della tribù: niente avrebbe potuto sembrarmi più ovvio e normale».
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