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DOSSIER Razzismo e antisemitismo (parte prima)

Scienze sociali e spazio pubblico della diversità - 1/2
Dario Padovan
Fonte: Associazione culturale Altera


Gli individui si pongono in naturale

gerarchia. Gerarchia naturale tra le

"molecole" umane, per qualità,

tendenze, vocazioni e capacità;

e medesimamente, gerarchia

tra i gruppi per quelle stesse variabili.

Alfredo Niceforo, 1935

1. Razzismo e modernità

L'eterofobia, ossia l'atteggiamento ostile di un gruppo sociale nei confronti di altri gruppi sociali, preesisteva sia alle prime teorie "colte" delle razze, sia al termine "razzismo" che è poi divenuto il termine più comune per definire quegli atteggiamenti. Tuttavia, il razzismo e la sua categoria concettuale apparvero solo durante il periodo compreso tra le due guerre mondiali. Nel contesto maturo della società moderna, nel contesto fornito dal progetto di una società perfetta e dai tentativi di realizzarlo con sforzi pianificati e coerenti, il razzismo acquisì i suoi caratteri specifici. La categoria "razzismo" che ne interpretò la pratica, ebbe la capacità di unificare i suoi molteplici significati indicati da termini distinti, diventando contemporaneamente sia uno strumento di conoscenza legato alla costruzione di modelli descrittivi per le scienze sociali, sia uno strumento polemico nel campo dei grandi discorsi ideologici in conflitto.

Questa premessa avanza, ovviamente, l'ipotesi che il razzismo abbia origine nel quadro socio-storico della modernità e che si sia nutrito delle sue maggiori ambiguità: dell'ideologia nazionalista, in quanto mitica forma di identità e appartenenza etnica; del discorso sulle differenze, come implicita giustificazione delle disuguaglianze; della scienza della pianificazione sociale, in quanto strumento razionale per ordinare e migliorare la realtà sociale. La modernità si presenta quindi come un contraddittorio quadro costituito dalla combinazione di riferimenti alla ragione, al progresso, all'universalismo da un lato, e di riferimenti all'identità, all'esclusione, allo sterminio dall'altro [1]. Tale contrasto proprio della modernità si può esprimere nella classica dicotomia sociologica di società tradizionali e olistiche e società moderne e individualiste o di comunità (gemeinschaft) e società (gesellschaft). E' nello spazio di tensione, nel campo di frizione socio-culturale tra questi due modelli idealtipici di interpretazione della società che ha origine e si sviluppa il razzismo [2].

Secondo il dispositivo analitico che associa modernità e razzismo, quest'ultimo è il prodotto combinato di due logiche. Da un lato esso corrisponde a un principio di inferiorizzazione del gruppo razzizzato (racisé): esso è soprattutto inegualitario. Dall'altro, il razzismo corrisponde a una volontà di rigetto, di esclusione e, nel caso più estremo, di espulsione e distruzione: esso è allora a dominante differenzialista. In effetti le due modalità di manifestazione del razzismo non sono mai, nella pratica storica, nettamente separate. E' stata la loro continua associazione e sintesi, produttrici delle più differenti espressioni razziste, che ha fatto del razzismo un fenomeno duraturo e stabile [3].

Il razzismo non può quindi essere visto come un residuo premoderno della modernità, ma come uno dei possibili esiti del processo stesso di modernizzazione. In questa prospettiva, la "soluzione finale" messa in atto dal nazismo contro gli ebrei si presenta, sostiene Zygmunt Bauman, come un "raro, ma tuttavia significativo e affidabile, test delle possibilità occulte insite nella società moderna" [4]. L'Olocausto, ricorda ancora Bauman, "fu pensato e messo in atto nell'ambito della nostra società moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura" [5]. Il razzismo, sostiene Alain Touraine sottolineando gli aspetti distorsivi della società moderna, è una malattia sociale della modernità. La modernità "non accetta facilmente la differenza, e la trasforma in disuguaglianza. Essa distrugge i mestieri e le corporazioni e le sostituisce con un sistema di retribuzione gerarchizzato in livelli di qualificazione e di salari. Ma questo lavoro di integrazione ineguale non è mai interamente riuscito. La differenza non è interamente trasformata in disuguaglianza. Una parte viene trasformata in esclusione in nome del carattere inassimilabile di certi comportamenti culturali" [6].

La società moderna, dove ineguaglianza ed esclusione non sono quasi mai separate, è il luogo di apparizione del razzismo, conclude Touraine, richiamando così anche le tesi di Louis Dumont [7]. Essa distrugge i rapporti di gerarchia e distanza sociale tradizionali senza peraltro assicurare l'integrazione, beninteso fondata sull'ineguaglianza, di tutti in un quadro di valori e principi universali [8]. La società moderna si scopre così divisa tra una tensione all'inclusione subordinata [9] degli "alieni" e quella alla loro esclusione e negazione totale.

Fin dal suo emergere la modernità ha portato in grembo il germe dell'ambivalenza, del paradosso, della contraddizione, quella latente condizione che manifesta i suoi lati più oscuri quando si aprono le grandi trasformazioni, i radicali mutamenti. In quest'ottica, la società moderna ha sempre oscillato tra civiltà e crudeltà, benessere e schiavitù, creazione e distruzione, assimilazione e segregazione. Le ambiguità della società moderna vanno quindi assunte come quadro di riferimento del risorgente neorazzismo. Naturalmente è facile oggi criticare l'ingenuo ottimismo e la fiducia delle ipotesi moderniste. Quegli orientamenti erano convinti dell'intrinseca forza emancipatrice dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione. Assertori della modernità come Talcott Parsons ritenevano che il progresso sociale avrebbe minato il razzismo, l'etnicismo e il nazionalismo [10]: esso ha al contrario portato, quali conseguenze perverse, al rafforzamento delle separazioni e delle lealtà etnonazionali e alla diffusione di razzismi e conflitti etnici.

La disseminazione dei modelli sociali capitalisti, la crisi dei sistemi di protezione sociale, l'egemonia liberista, il declino del movimento operaio, costituiscono la filigrana delle attuali mobilitazioni razziste e razzialiste, il contesto nel quale riemerge il lato oscuro della civiltà moderna. La pressione a cui la società moderna sottopone i legami sociali, disgregandoli e ricomponendoli secondo logiche di darwinismo sociale, apre nuove tensioni nelle quali si profila il nuovo razzismo a dominante differenzialista. [11]


2. Diversità naturali e differenziazione sociale

L'interesse per la diversità naturale, umana e sociale fu sempre coltivato dai filosofi e dagli osservatori dei fenomeni sociali fin dai tempi più remoti. Il fatto che gli esseri viventi differissero l'uno dall'altro in molti generi e modi pose fin dal pensiero greco il problema della classificazione di quelle differenze e della loro continuità. La concezione dell'universo come una "grande catena dell'essere", composta da un gran numero di anelli disposti in ordine gerarchico, dalla più esigua fino alla più alta possibile forma dell'essere vivente, fu il risultato più saliente dell'esperienza della diversità. Per secoli il discorso sulle differenze, sui particolarismi, sulle "estraneità" naturali e culturali, alimentò una cosmologia razionale dove gli esseri erano distribuiti, per natura, lungo la scala gerarchica dell'esistenza [12], dalla quale derivarono modelli di organizzazione sociale sovente opppressivi e iniqui.

Solo con la rivoluzione francese e con l'artificio del "diritto naturale", il concetto di uguaglianza sostituì temporaneamente quello di diversità. Durante il periodo dei Lumi, le eterogeneità, le identità particolari, le differenze umane furono trattate con un entusiasmo che oscillava tra l'utopia politica e la curiosità esotica. I primi tentativi dell'antropologia illuminista di definire un metodo rigoroso di osservazione delle società "selvagge" erano ancora scevri di quell'etnocentrismo che connaturò l'antropologia positivista. Per gli etnologi passati al crivello della rivoluzione francese, i popoli selvaggi non erano estranei alla civiltà: essi rappresentavano gli stadi più bassi e primitivi del progresso civilizzatore, ma se ben indirizzati potevano raggiungerlo e gioirne. Questa antropologia, unificando scienza e filantropia, era ancora pervasa dall'egualitarismo umanitario della rivoluzione francese che induceva a ricercare un'identica natura e ragione umana; il concetto di razza e qualsivoglia nozione relativa a differenze ereditarie permanenti fra i gruppi della famiglia umana ancora non vi albergavano [13].

L'età dell'industrialismo e del colonialismo consegnò alla storia un nuovo quadro concettuale e politico, che metteva in tensione ideologie egualitarie e ideologie conservatrici. L'idea di civiltà, con tutto il suo arsenale di definizioni, indicatori, valori, iniziò ad essere usata per dar conto delle differenze razziali. Molti iniziarono a vedere nella civiltà la realizzazione peculiare di certe razze. Tale cambiamento può essere considerato come un aspetto della reazione conservatrice all'idea di uguaglianza da parte di gruppi la cui superiorità era stata messa in crisi; l'idea di razza sorse come ideologia difensiva quando lo schiavismo e il commercio degli schiavi cominciarono a essere seriamente attaccati.

La violenza della lotta di classe, i nazionalismi nascenti, la violenza colonizzatrice, la realtà irrecusabile di gruppi non integrabili nel nuovo ordine sociale, aprirono la strada all'ipostasi di una irriducibile differenza. Alle petizioni egualitarie provenienti dai movimenti sociali progressisti venne opposto un irrigidito e scientificamente elaborato concetto di differenza, organizzato sulla base di classificazioni naturaliste che rendevano le eterogeneità radicali e assolute. Come sostiene Colette Guillaumin, il discorso sulla razza e il determinismo essenzialista sorgevano dal confronto tra la diversità umana teorica e la diversità dei gruppi concreti che esplodeva nel secolo industriale. Due concezioni di questa diversità si contesero il campo della persuasione ideologica: l'evoluzionismo darwiniano sfidò l'evoluzionismo marxiano, la lotta biologica tra le razze sfidò la lotta economica tra le classi [14]. L'universo dei valori si irrigidiva e i rapporti tra i gruppi si pietrificavano.

La fondazione bio-antropo-sociologica che le scienze sociali positiviste diedero ai temi delle differenze e delle disuguaglianze fu sollecitata dallo sviluppo dei moderni stati industriali, coloniali, imperialisti. Il colonialismo europeo e bianco richiese la diffusione di una coppia di "inferme scienze", l'etnologia e l'antropologia, con la quale studiare i selvaggi e gli infedeli. Per lo studio del fronte interno, i giovani stati nazionalisti e industrialisti si affidarono alla sociologia e alla psicologia sociale. Da quel momento il destino delle scienze sociali e umane si annodò a quello degli stati e delle nazioni. Mentre la sociologia provava a spiegare la diversità presupponendo un processo di integrazione e differenziazione, di ordine e progresso come diceva Comte, immanente alle società, l'antropologia elaborava complessi metodi di misurazione delle diversità umane e sociali, cercandone la natura nella conformazione fisiologica e somatologica individuale e razziale. In funzione ausiliara, la biologia elaborava una spiegazione del differente sulla base di intuizioni evoluzioniste, ambientaliste, genetiche, mentre la geografia e lo stesso diritto fornirono giustificazioni conservatrici in difesa della naturalità e moralità della gerarchia sociale.

Sebbene con caratteri ambivalenti, l'opera di Auguste Comte contribuì alla costruzione di un discorso sociologico sulle differenze sociali. Egli non negava al "dogma della libertà illimitata di coscienza" che "proclamava l'uguaglianza delle intelligenze", avanzato dalla "metafisica rivoluzionaria", una certa positività; esso aveva contribuito alla fine della vecchia società aristocratica e teologica e "felicemente secondato lo sviluppo naturale della civiltà moderna, presiedendo allo scioglimento finale della vecchia classificazione sociale". Fino a quel momento era stato possibile lottare con successo contro le vecchie diseguaglianze solo in nome della completa uguaglianza politica. Ora che il principio di uguaglianza aveva avuto ragione di quelle disuguaglianze che, "nella loro inevitabile decadenza", erano diventate "radicalmente oppressive", esso doveva farsi da parte, per non minare alle fondamenta la riorganizzazione sociale diretta dalla scienza e dall'industria.

Il solo scopo del principio di uguaglianza era appunto quello di abbattere il vecchio ordine teologico. Qualunque ne fosse il principio, il nuovo ordine sociale positivo era inconciliabile con tale pretesa egualitaria. Il trionfo delle disuguaglianze sviluppate dalla civiltà moderna su quelle dello stato iniziale della società, egemoni fino a quel momento, era il fine necessario dello sviluppo sociale. Gli "uomini non sono né uguali fra di loro, né equivalenti, e non potrebbero perciò possedere nell'associazione diritti identici", sosteneva Comte, ad eccezione, ben inteso, del diritto fondamentale, comune a tutti, del libero sviluppo dell'attività personale, una volta convenientemente diretta. Lo sviluppo e l'evoluzione della società non poteva che incrementare le diversità presenti nella natura umana: "[...] il progresso continuo della civiltà, lungi dall'avvicinarsi ad una eguaglianza chimerica, tende, al contrario, per sua natura, a sviluppare estremamente queste differenze fondamentali, mentre attenua molto l'importanza delle differenze materiali, che dapprima le tenevano compresse. Questo dogma assoluto dell'eguaglianza prende dunque un carattere essenzialmente anarchico [...]" [15].

La differenziazione morale e intellettuale tra gli individui era quindi il prodotto ineluttabile dello sviluppo storico degli organismi sociali, forse addirittura il loro fine intrinseco e immanente. In Comte c'era una certa diffidenza verso l'esacerbata retorica delle differenze fisiche e biologiche, ritenendole insignificanti per la sociologia, molto più interessata a comprendere le conseguenze di natura sociale del processo di differenziazione della società stessa, piuttosto che la natura biologica delle differenze individuali e collettive. Infatti, egli chiariva, "le differenze intellettuali e morali sono certamente ben più pronunciate, fra i diversi organismi, delle semplici disuguaglianze fisiche, le quali preoccupano tanto la massa degli osservatori" [16]. Proprio perché tesa a eliminare le disparità sociali e individuali, la "chimera dell'eguaglianza" era tanto nociva al progresso sociale quanto il vecchio stato teologico e militare.

Su questi temi, Herbert Spencer era stranamente vicino a Comte, dal quale tuttavia se ne allontanava per il suo radicale darwinismo. Egli riteneva che l'eccesso di disuguaglianze favorisse regimi conservatori e militaristi; ma al contempo egli pensava che tanto l'evoluzione dell'organismo biologico quanto quella dell'organismo sociale fossero rette dalla legge della differenziazione delle strutture, delle funzioni e delle capacità individuali e collettive, dall'inevitabile e universale evoluzione dall'omogeno all'eterogeneo. Perciò, nel divenire sociale le differenze permanenti non potevano che aumentare e diffondersi sia tra gli organismi sociali sia tra gli individui che ne fanno parte, ponendo le basi per l'affermarsi di un'eterogeneità sociale funzionale alla divisione del lavoro e all'evoluzione della società. Nel sistema teorico spenceriano, le diversità individuali e collettive presenti nell'organismo sociale erano una conseguenza necessaria del processo di adattamento dell'organismo all'ambiente, che procedeva da uno stato di omogeneità instabile a uno di eterogeneità stabile. Le disuguaglianze acquistavano quindi un carattere di naturalità, necessità, certezza, fornendo una coerente argomentazione scientifica alle pratiche politiche ed economiche che iniziavano ad avvolgere il "sociale" [17].

Trasportato nel campo empirico, l'adattamento spenceriano avveniva per selezione naturale, mediante la lotta per l'esistenza, imprimendo un suggello di violenza ad ogni fenomeno di differenziazione, dissociazione, eterogeneizzazione. L'antagonismo universale presente nel mondo naturale si estendeva in questo modo ai gruppi sociali, ponendosi come il fattore agente delle formazioni politiche e sociali, e della storia. La sociologia di Spencer, nel suo crudo meccanicismo biologico e nell'esasperato darwinismo sociale, appariva come una vera "sociologia di guerra" [18].

Lo sforzo teorico attorno alle differenze condusse verso una convenzione, condivisa da tutti i cultori di quelle discipline, di matrice evoluzionistica ed organicista: senza diversità era impossibile l'evoluzione e lo sviluppo sociale. Meglio ancora, senza diversità di capacità, posizione sociale, interessi, conformazione biogenetica, età, sesso, era impossibile che la lotta per l'esistenza, la selezione sociale, l'adattamento, in fondo il progresso umano, avessero luogo.


3. Diversità e pensiero analogico

Le scienze naturali e biologiche spinsero a conseguenze estreme il significato teorico ed empirico delle diversità. L'editoriale del primo numero della rivista "Biometrika", fondata da Karl Pearson e Charles Davenport sotto gli auspici di Francis Galton, sosteneva che il punto di partenza della teoria dell'evoluzione di Darwin era l'esistenza di differenze tra i membri individuali di una razza o tra le specie. La prima condizione necessaria, si diceva, affinché un processo di selezione naturale si manifestasse nel contesto di una razza o di una specie era l'esistenza di differenze tra i suoi membri. Quindi, il primo passo per una ricerca sui possibili effetti del processo selettivo su qualsiasi carattere di una razza doveva consistere nella stima della frequenza con la quale gli individui esibivano un dato livello di anormalità rispetto a quello stesso carattere. L'unità su cui tale ricerca doveva basarsi non era l'individuo, ma la razza, oppure una popolazione statistica rappresentativa della razza [19].

Il motore del progresso, la costante con cui spiegare i fatti sociali era costituita dalle diversità delle nature e delle capacità individuali, spesso derivate da comuni caratteri razziologici, dalle quali, come disse anche Durkheim, scaturivano in una sequenza logica la competizione sociale e la divisione del lavoro [20].

Metafore e analogie biologiche, convalidando il determinismo sociale, iniziarono ad albergare stabilmente tra le scienze sociali, mentre le stesse scienze naturali presero a prestito dalle scienze sociali modelli per spiegare l'organizzazione del vivente. Ernest Haeckel sosteneva che l'organismo più evoluto è un'unità sociale organizzata, uno stato i cui cittadini sono cellule individuali. In tutti gli stati civili i cittadini sono, a un certo livello, indipendenti in quanto individui; ma essi condividono pure una mutua interdipendenza, poiché la crescente divisione sociale del lavoro li subordina alle leggi pubbliche. Allo stesso modo, sosteneva Haeckel, le cellule dei corpi vegetali e animali godono felicemente della loro indipendenza individuale solo fino a un certo punto; infatti, a seguito della divisione biologica del lavoro esse cadono in una condizione di mutua dipendenza nella quale sono subordinate al potere centrale della comunità.

L'analogia formulata da Haeckel poteva andare ancora oltre. Il corpo animale, con la sua solida centralizzazione, poteva essere considerato una "monarchia di cellule", mentre il corpo vegetale, meno centralizzato, poteva essere concepito come una "repubblica di cellule". In questo modo egli rovesciava l'analogia avanzata dai sociologi. Interessante appare il fatto che uno zoologo e biologo come Haeckel usasse dei modelli politici e sociali per giustificare una certa organizzazione biologica del vivente. I sociologi, al contrario, usavano un punto di vista biologico per giustificare l'organizzazione sociale. Influenzato probabilmente dagli scritti di Walter Bagehot, apparsi sulle pagine della Fortnightly Review tra il 1868 e il 1872, Haeckel pensava di fondare un'anatomia comparativa delle piante e degli animali analoga alla scienza politica comparativa che a quel tempo si diffondeva con un certo successo. La necessità di recuperare il senso generale dell'evoluzione sociale per spiegare l'evoluzione biologica era una conseguenza delle difficoltà di avere a disposizione una storia naturale e genealogica dell'evoluzione delle specie viventi. Se il processo di sviluppo dell'organismo era visibile nel singolo caso, quello della specie mancava di molti dati e conoscenze. Al contrario, lo sviluppo della società era sotto gli occhi di tutti, sia in virtù dei dati storici accumulati, sia grazie ai rapidi mutamenti che segnavano la società. In sostanza, la storia della civiltà umana poteva spiegare la storia dell'evoluzione degli organismi policellulari: la filogenesi della società si trovava a dare un senso all'ontogenesi del più semplice organismo vivente [21].

Simile circolarità dei saperi non deve meravigliare poiché le scienze sociali positiviste aspiravano alla formazione di una scienza del vivente unica e unitaria, progetto giustificato dalla presupposta equivalenza sostanziale di società e natura. La continuità tra natura e società, da cui derivava la totalità del sistema che diviene, poneva la scienza positivista come indagine delle relazioni, dei rapporti di causa ed effetto, delle leggi che tengono insieme i fenomeni naturali e sociali. Questa continuità evolutiva tra prima e seconda natura, storicista in Comte e meccanicista in Spencer, aveva permesso ad alcuni, come ricordava Fausto Squillace, di proporre alla fine del secolo il termine "ecologia" come sinonimo del "barbarismo sociologia" [22].


4. I fondamenti biologici dell'ordine sociale

Durante il fascismo gli scienziati sociali non modificarono sostanzialmente i presupposti del discorso bio-sociologico sulle disuguaglianze. Anzi, essi lo estesero anche a quelle teorie, come quella di Pareto sulla circolazione delle aristocrazie, che volutamente si erano tenute alla larga da ogni biologismo. I saggi di Alfredo Niceforo presentano una certa omogeneità argomentativa sul tema delle diversità umane. Formatosi alla scuola antropologica di Giuseppe Sergi, Niceforo divenne ben presto un apprezzato statistico coinvolto in ricerche e studi di antropologia, demografia, psicologia e sociologia.

Per gli scienziati sociali le disuguaglianze tra gli uomini costituivano una regola, una legge, una costante della vita naturale e sociale, un fatto sociale. Per "fatto sociale" Alfredo Niceforo intendeva, in maniera analoga a Durkheim, il modo di essere e di agire di una società, la combinazione di struttura e azione sociale. Le differenze fra i due sociologi riguardavano le cause dei fatti sociali: in Durkheim esse erano di natura sociale, in Niceforo contemplavano l'azione dei fattori più diversi, compresi quelli fisici e biologici. Il "fatto sociale" era, in altre parole, la risultante di un complesso di altri fatti di natura diversa gli uni dagli altri, dovuti a cause geografiche, psicologiche, biologiche, sociali o, in altre parole, all'ambiente fisico, alla razza, al contesto sociale. La disuguaglianza tra gli uomini era precisamente un fatto sociale "in rapporto di covariazione con gli altri fatti di ordine fisico-geografico, biologico e sociale", un "residuo costante" dei fenomeni sociali di "cui si trova impronta e radice in ogni modo di essere e di divenire della Società" [23]. Le diversità individuabili tra gli esemplari umani erano, secondo Niceforo, di ordine fisico, fisiologico e costituzionale, psichico [24].

Le differenze da uomo a uomo, tanto del fisico quanto della morale, del corpo come dello spirito, dell'essere come dell'agire, erano talmente centrali per la vita delle società e per la distribuzione dei ruoli sociali da dover essere tradotte in precise misure. L'influenza che le congenite e naturali qualità fisiche e psichiche dei singoli esercitavano sulla struttura sociale delle disuguaglianze determinava la loro stessa qualità. Quel potere sociale appartenente agli individui, del capitale sociale di ciascuno si direbbe oggi, era in grado di mutare la loro posizione sociale, di cambiare il loro destino sociale. Solo le scienbze sociali erano in grado di misurarlo, di quantificarlo, di tradurlo in leggi e costanti.

Possedere il catalogo e la misura dei fatti costanti nella vita sociale significava possedere il segreto della previsione, potere guardare nel futuro. Simile necessità aveva iniziato a manifestarsi fin dalla metà del diciottesimo secolo tra gli enciclopedisti, ma la nascita delle scienze sociali rese la stima e la catalogazione delle differenze strumenti via via più impellenti per la conoscenza dei fenomeni sociali. L'antropologia e la psicologia sperimentale tradussero ogni personalità umana in misure e diagrammi. I caratteri fisici e fisiologici, la capacità vitale, la colorazione dell'iride, il modo di affaticarsi, la deambulazione, la voce e la scrittura, la sensibilità tattile divennero oggetto di misurazioni sempre più precise e scrupolose.

Lo studio quantitativo delle collettività viventi - umane, animali, vegetali - e dei caratteri somatici, anatomici, fisiologici, patologici e psichici individuali richiese la messa punta di particolari metodologie. La biometria e la biometrica rispondevano a simili necessità. Con biometria si indicava un insieme di tecniche di ricerca e di logiche interpretative applicate ai più diversi campi di indagine scientifica sui fenomeni quantitativi della vita. Si formarono quindi una biometria medica, botanica, genetica e così via. La biometrica era considerata una disciplina nettamente circoscritta dedita allo studio statistico dei problemi dell'eredità dei caratteri, della trasformazione delle specie e dell'evoluzione individuale e collettiva [25].

Accanto alle misurazioni si cercò di scoprire la legge che governava il modo di distribuirsi delle disuguaglianze. Si credette di vederla nella regolarità con cui gli uomini si ripartivano secondo una curva di tipo binomiale denominata anche "curva degli errori di Gauss", misurazione statistica avanzata in campo biometrico da Quételet. Pochissimi erano gli individui con caratteri eccezionalmente superiori o inferiori, mentre nel mezzo stavano, in folla, gli ugualmente distanti da quegli estremi. Niceforo sintetizzò questa regola sociologica nel seguente modo: "Dunque: differenze fisiche e psichiche tra gli uomini; minoranza di quelli che presentano le qualità richieste, in modo più incisivo; impossibilità del trionfo di tutti; fatalità del trionfo dei pochi, o eccezionali". Egli vi aggiunse tuttavia una postilla che efficacemente spostava le differenze dalle individualità alle società e alle razze:

"
Ma, si intenda bene: se il fatto dell'eccellere e del sovrastare di pochi, è fatto d'ordine generale e permanente, non si dimentichi che siffatti "eccezionali" (per questo o quel carattere, o per un dato complesso di caratteri) potranno costituire formazioni "scelte" or di primo, or di secondo, or - anche - di terzo ordine. Vale a dire, che i primissimi per congenite qualità, in una data Società o epoca, in una data razza, od altra formazione collettiva, possono benissimo star sotto, per misura, ai primissimi di altra Società, o epoca, o di altra razza. Ogni Società, epoca o razza, ha il suo Mosè, il suo Shakespeare o anche il suo Attila o il suo Leonida, ma quanto distanti tra loro da Società a Società, da epoca ad epoca, da razza a razza, sebbene possano tutti designarsi come i primi del proprio gruppo. In ogni modo, sempre il solco di divisione correrà tra questi primissimi - di primo o secondo ordine che sieno - e il resto del proprio gruppo. La Venere ottentotta è una Venere: ma quanto diversa dalla divina Afrodite, Venere dell'Olimpo, dai capelli d'oro! [26]".

Il sottile crinale che separava le differenze individuali da quelle razziali induceva un'indebita trasposizione delle modalità con le quali le diversità si manifestavano tra gli individui al contesto storico delle società e delle razze, dalle chiare influenze spenceriane. Il tentativo di definire una legge universale di ripartizione delle disugugalianze comportò un interrogativo sulla natura della "Natura": era forse il modo in cui le differenze venivano distribuite la manifestazione di volontà di una natura nobile e materna o di una natura arcigna e matrigna [27]? Il quesito non era nuovo, ma rilevava la portata ontologica degli interrogativi sul fondamento naturale delle differenze umane in quanto concetto attivo e campo operativo delle relazioni sociali tra individui.

Dalla costante delle disuguaglianze biologiche si traevano le costanti che formavano "il tenace tessuto della Storia e delle umane cose". Da quel presupposto derivava, secondo Niceforo, la legge della "permanenza degli inferiori e della permanenza del male, voluta dalla naturale legge di differenziazione biopsichica tra gli uomini". Regola che veniva trasferita dagli individui alle società, come ho già accennato, ritenute a ragione un "tessuto di individui". Dal principio spenceriano della differenziazione sociale, che rende gli uomini una massa di dissimili, si deduceva quello della "aggregazione dei simili e della segregazione dei dissimili" [28].

Nell'universo dei dissimili si potevano sempre identificare individui che si rassomigliavano più di altri. I simili tendevano a formare un gruppo, ad aggregarsi, mentre i dissimili si segregavano gli uni dagli altri. Un sistema di attrazione e repulsione - basato sui concetti di simiglianza, analogia, simpatia, identità - caratterizzava quindi le relazioni tra i gruppi sociali fondati sull'attrazione tra simili. Questo principio venne ricercato nello studio statistico dell'attrazione matrimoniale tra individui appartenenti a diversi gruppi sociali ed etnici il quale, tuttavia, non riuscì a spiegare in modo definitivo se nella scelta matrimoniale si attrraessero i simili o i dissimili [29].

L'istinto della sociabilità, radicato nell'io profondo ed egoisitico dell'individuo, spiegava sia l'aggregazione dei simili, sia l'estrema variabilità dei sentimenti collettivi che li tengono insieme e che li oppongono agli altri gruppi. I principi della nazionalità, della classe, della razza, dell'interesse, costituivano in diverse epoche storiche i motivi delle agglutinazioni, la legge che rende ""solidali" gli uomini, così naturalmente inclini a rendersi ostili ed ostilissimi gli uni verso gli altri", e di far loro sentire, o credere, l'utilità del procedere uniti".

Le disuguaglianze interindividuali e infrasociali erano tuttavia ritenute oltreché necessarie alla formazione di gerarchie sociali anche generatrici di contrasti e di conflitti. La tendenza da parte di ogni gruppo di "agglutinarsi" sulla base di principi concorrenti (nazione, classe, razza), di trattare gli altri gruppi come stranieri e di porsi in opposizione ad essi, era una di quelle costanti della vita sociale che generava i drammi della storia. Le teorie di Marx e di Engels sulla necessità della lotta di classe in quanto movente della storia, o quelle di Gumplowicz sulla lotta perpetua tra le razze, erano allo stesso tempo fonte di fascinazione e di timor panico. Il timore che ai contrasti e ai conflitti seguisse un "oscuro e tragico disordine" pilotava l'analisi all'individuazione di una forza più ampia, generale, comprensiva, in grado di domare gli interessi egoistici e particolari. Tanto più se si trattava di una società troppo eterogenea, essa era soggetta a continui disequilibri, a un antagonismo permanente tra le classi, le razze, le élite e gli individui. Non si avvedevano gli scienziati sociali come Niceforo che era proprio l'enfasi sulle differenze che creava un muro, una chiusura tra i differenti gruppi, che impediva anche solo l'idea che si passasse liberamente da una cultura all'altra, da una classe all'altra.

Gli individui avevano pure la facoltà di possedere simultaneamente numerosi sensi di identità e dissimiglianza, ravvisando il simile per razza, religione, lingua. Tuttavia, questi diversi sensi non si presentavano sulla scena dell'azione e della coscienza confusi e combinati, ma singolarmente o limitamente associati, così da occultare gli altri e più vari significati identitari. La prevalenza del segno razziale sugli altri, non poteva che incatenare il culturale al biologico, fissare e segregare i gruppi nella loro immutabile concretezza sociale, fornire un modello sociale gerarchico netto e cristallino che, nonostante la sua potenza ordinatrice, poteva pure acuire i rischi di conflitto e di violenza. Occorreva quindi intervenire per dominare, regolare e comporre i conflitti, per "contemperare gli interessi delle varie categorie e delle classi fra di loro, e di queste con l'interesse superiore" [30]. Occorreva anche che si lasciasse libero corso alla paretiana circolazione dei più adatti, alla "circolazione delle molecole sociali attraverso le classi", fenomeno che doveva tuttavia essere esperito in tutta la sua complessità, per evitare che la domanda di mobilità sociale, o più banalmente la richiesta di uguaglianza, comportasse rivoluzioni improvvise. "Ritardate la circolazione", sosteneva Niceforo, "e avrete la rivoluzione violenta; permettete la circolazione, e avrete, a un dato momento, la rivoluzione silenziosa" [31].

Qui nasceva la necessità di un potere sociale in grado contemporaneamente di filtrare la mobilità sociale, tenere separate le differenze bio-sociali, fornire un contesto simbolico di unità e coesione sociale. La società doveva marciare come un meccanismo/organismo ben regolato, governato razionalmente dallo stato, da una burocrazia efficiente e da una pletora di intellettuali disciplinati, dove il contrasto tra gli interessi veniva ricomposto in nome degli interessi superiori della razza, del popolo, della nazione. Il surplus di cooperazione sociale richiesto dalla crescente divisione sociale del lavoro doveva essere colmato agglutinando un corpo sociale biologicamente compatto e gerarchicamente suddiviso. [Aggiungi Durkheim sulla divisione anomica del lavoro].

Per Ludwig von Mises, sembrava, a prima vista, che la teoria della razza non contenesse nulla in contraddizione con la dottrina della divisione sociale del lavoro. Si può ammettere, egli sosteneva, "che le razze differiscano tra di loro per intelligenza e volontà e di conseguenza siano non ugualmente predisposte a formare la società, e che inoltre le razze migliori si distinguano appunto per la loro particolare attitudine a potenziare la cooperazione sociale. Questa ipotesi getta luce su vari aspetti dell'evoluzione sociale altrimenti non facilmente comprensibili. [...] Ci stiamo solo occupando di mostrare che la teoria della razza è facilmente compatibile con la nostra teoria della cooperazione sociale" [32].


5. Teorie delle razze e teorie del razzismo

Mentre in Europa le scienze sociali si occupavano di stabilire relazioni, gerarchie, mentalità e destini delle razze, negli Stati Uniti si concretizzava una profonda revisione scientifica di quei temi. Il passaggio da una "scienza delle razze" a una "scienza del razzismo", che prese corpo durante gli anni venti di questo secolo, permise di affrancare lo studio degli atteggiamenti razzisti dallo stereotipato e ambiguo dibattito sull'esistenza e sulla gerarchia delle razze. La separazione di razza e razzismo consentì agli scienziati sociali di indagare, in un modo per la prima volta quasi libero da pregiudizi, i meccanismi e le relazioni di inferiorizzazione e di esclusione di individui e gruppi.

Quello delle "race relations" fu un iniziale tentativo, peraltro ancora non sufficiente, degli scienziati sociali di liberarsi dalle costrizioni del determinismo che voleva il comportamento culturale influenzato fortemente dalla natura bio-razziale dei gruppi umani e degli individui che vi appartenevano [33]. Animata da Robert Ezra Park e da Emory Bogardus, la teoria delle "race relations" combinata al concetto di "social distance" cercò di focalizzare lo studio sulla natura e le dinamiche delle relazioni "inter-razziali", aprendo la riflessione sulle conseguenze per quelle relazioni dei differenti tipi di segni di identificazione gruppale: razziale, di classe, nazionale, religioso, e così via. Sebbene Park fosse influenzato dal darwinismo sociale, pure se ne discostava sostenendo che "l'individuo è portatore di una doppia eredità. Come membro di una razza, egli trasmette attraverso l'accoppiamento un'eredità biologica. Come membro di una società o di un gruppo sociale, egli trasmette attraverso la comunicazione un'eredità sociale" [34].

A metà degli anni trenta J. S. Huxley e A. C. Haddon avanzavano un'importante critica alle distorsioni delle teorie razziali, proponendo di sostituire al termine "race" quello di "ethnic group" [35], mentre Lloyd Warner presentava nel 1941 lo studio su Yankee's City, nel quale usava la categoria di "ethnic group" come una distinzione interna della razza [36]. Il modello di Lloyd Warner era a tre stadi: la nazione, le razze, i gruppi etnici. La "razza bianca", un pezzo della nazione americana, era presentata come una combinazione di differenti gruppi etnici: gli irlandesi-americani, gli italo-americani, i polacchi-americani, gli ebrei-americani; solo gli "yankee" o "Wasp" non erano considerati un gruppo etnico. La "razza nera", l'altro pezzo della nazione, era costituita da "nero-americani" e da una categoria indistinta indicata come "others". L'uso del termine "gruppo etnico" rendeva più aderente alla realtà la descrizione della composizione socio-culturale della nazione nordamericana. Tuttavia, includendo i gruppi etnici nella categoria di razza ed escludendo i "Wasp" né i confini tra bianchi e neri né le gerarchie tra i bianchi venivano minimamente disturbate.

Solo a ridosso della fine della seconda guerra gli antropologi e i sociologi iniziarono a riconoscere che i caratteri fisici usati per classificare "razzialmente" gli individui non avevano nessuna relazione causale con la socializzazione, con l'acquisizione culturale, con il comportamento individuale e collettivo. Secondo Robert Redfield, la presunta realtà biologica delle razze aveva significato solo in quanto fenomeno sociale, ossia fenomeno associato al valore sociale di un marchio, di un'etichetta usata per stigmatizzare certe differenze culturali. Le categorie razziali assumevano quindi una certa importanza per lo studioso solo come costruzione sociale di un pregiudizio, solo come comportamento sociale indipendente dall'esistenza delle razze stesse [37].

L'abbandono dello studio delle razze a favore dell'analisi dei comportamenti e degli atteggiamenti di razzizzazione creò una significativa frattura con quelle scienze sociali che avevano, più o meno consapevolmente, fornito delle argomentazioni al razzismo. Per descrivere e ordinare i fenomeni sociali, le scienze sociali positiviste del diciannovesimo secolo attinsero con vigore alla categoria socio-biologica di razza, categoria che conquistò rapidamente una duratura egemonia. Le scienze di quel periodo fabbricarono quella nozione di "razza" che mancava per legittimare scientificamente e ideologicamente il razzismo. Prima di allora, il razzismo appariva come una pratica non teorizzata, situata in un sistema di giustificazione fondamentalmente diverso da quello messo a punto durante il secolo delle scienze positive. Le ideologie e le teorie razziali, provenienti da tutti i campi delle scienze naturali e umane, naturalizzarono le differenze sociali, combinando in un sistema sintetico alterità, rapporti sociali di potere, stigma biologico.

Le scienze della razza pretesero di spiegare la differenziazione sociale e la divisione del lavoro chiamando in causa le differenze fenotipiche e biologiche tra i singoli e i gruppi. Il razzismo delle origini si configurò quindi come una combinazione di ideologia, scienza e prassi che sosteneva l'ineluttabilità se non la necessità di un'organizzazione sociale ed economica di tipo gerarchico basata sul principio della differenza biologica dei gruppi "razziali". Differenza che implicava una posizione sociale di inferiorità o di esclusione che non poteva essere modificata dall'azione cosciente del gruppo "razziale" stesso: la razza e i caratteri socio-biologici ad essa associati portavano il segno inesorabile della permanenza [38].

Una significativa critica a simile punto di vista venne dall'opera matura di Max Weber. Nel 1910, nel contesto del "Primo incontro nazionale dei sociologi tedeschi" convocato per discutere "La nozione di razza e di società", Max Weber prendeva radicalmente posizione contro la presunzione delle scienze razziali dell'epoca di spiegare i fenomeni sociali. Obiettivo della sua critica era Alfred Ploetz, fondatore nel 1903 dell'Archiv für Rassen- und Gesellschaftbiologie e nel 1906 della Società internazionale di igiene razziale. Per Weber, sostenere che "il rigoglio della società dipende dal rigoglio della razza" era un'affermazione semplicemente di carattere mistico. Come egli perentoriamente chiariva: "che esista nei nostri giorni un solo fatto pertinente per la sociologia, un solo fatto preciso e concreto che possa ridurre una categoria qualunque di fatti sociologici, in modo chiaro e definitivo, a delle qualità innate o ereditarie che una data razza possiede, di modo che un'altra non le possiede affatto, io lo nego definitivamente nella maniera più formale, e continuerò a negarlo fino a che non mi si metta un tale fatto sotto gli occhi" [39].

Weber non si arrestava alla critica della teoria delle razze, ma entrava pure nel merito dei fenomeni del conflitto tra le razze e del razzismo, negando che la teoria delle razze potesse dare di quello una spiegazione credibile. Richiamando l'affermazione in base alla quale l'opposizione tra "bianchi" e "neri" americani riposa su degli "istinti razziali", ossia sul fatto che i "bianchi" non sopportano l'odore dei "neri", Weber notava che non esiste alcuna prova che le relazioni razziali negli Stati Uniti dipendessero da istinti innati ed ereditari. Più semplicemente, ricordava Weber, il fatto che i "neri" fossero usati nelle piantagioni non aveva niente a che vedere con gli istinti di razza dei "bianchi", bensì con l'antico disprezzo feudale per il lavoro e per un conseguente fattore di ordine sociale [40]. I sociologi più avveduti come Weber, Durkheim, Simmel, spiegarono quasi sempre "il sociale con il sociale", rifiutandosi di piegarsi ai determinismi somatici, fisiologici, genetici, che dominavano le scienze sociali coeve.

Note:

1Wieviorka M. (sous la direction), Racisme et modernité, La Découverte, Paris, 1993, p. 10.

2
Vedi Dumont L., Homo aequalis, Gallimard, Paris, 1977; Idem, Essais sur l'individualisme, Seuil, Paris, 1987; Wieviorka M., op. cit., p. 9; Taguieff P.-A., Les fins de l'antiracisme, Michalon, Paris, 1995, p. 43.

3
Wieviorka M., Racisme et modernité, cit., p. 11.

4
Bauman Z., Modernity and the Holocaust, Basil Blacwell, Oxford, 1989; tr. it. Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 30.

5
Ibidem, p. 11.

6
Touraine A., Le racisme aujourd'hui, in Wieviorka M., Racisme et modernité, cit., p. 27.

7
Per Louis Dumont, il razzismo si sviluppa negli Stati Uniti quando la schiavitù viene soppressa e viene a mancare la distanza che questa implicava. In sintesi, osserva Dumont, il razzismo nasce con lo sviluppo dell'egualitarismo e con lo sgretolamento delle società gerarchiche strutturate in caste. Cfr. L. Dumont, Homo Hierarchicus, Adelphi, Milano, 1960, pp. 422-424.

8
Touraine A., op. cit., p. 27

9
Cotesta V., Conflitti etnici, violenza sociale e identità collettiva, in "Dei delitti e delle pene", a. III, n. 1, 1993, p. 38.

10
Cfr. Parsons T., Why "Freedom Now", not Yesterday? e Full Citizenship for the Negro American?, entrambi in Clark K. and Parsons T. (edited by), The Negro American, Houghton Mifflin, Boston, 1966, pp. XIX-XXVIII e 709-754, tr. it. in Parsons T., Comunità societaria e pluralismo, Angeli, Milano, 1994, pp. 113-161 e 162-172.

11
Wieviorka M., op. cit., p. 17. Questa analisi è stata applicata alla situazione francese nel volume Wieviorka M. et alii, La France raciste, Seuil, Paris, 1992.

12
Cfr. Lovejoy A. O., The Great Chain of Being, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1936; tr. it. La grande catena dell'essere, Feltrinelli, Milano, 1966.

13
Cfr. Stocking G. W., French Anthropology in 1800, in "Isis", LV, 1964, pp. 134-150; ora in Race, Culture and Evolution, University of Chicago Press, Chicago, 1982; tr. it. L'antropologia francese nel 1800, in Razza, cultura e evoluzione, Il Saggiatore, Milano, 1985, pp. 54-85. L'antropologo di cui parla Stocking era Degérando.

14
Guillaumin C., L'idéologie raciste, Mouton, Paris, 1972, p. 28. Cfr. anche Arendt H., The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace & World, New York, 1951; tr. it. Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano, 1996, p. 222.

15
Comte A., Cours de philosophie positive, 1830-1842; tr. it. Corso di filosofia positiva, a cura di F. Ferrarotti, vol. I, Lezioni XLVI-LIV, Utet, Torino, 1967, pp. 76-77.

16
Ibidem.

17
Cfr. Spencer H., Principles of Sociology, 1877; tr. it. di Antonio Salandra, Principi di sociologia, Utet-Biblioteca dell'economista, Torino, 1881, 2 voll., vol. I, pp. 336-338; vol. II, pp. 42-56. La traduzione dei volumi di Spencer era preceduta da un saggio introduttivo di Gerolamo Boccardo, La sociologia nella storia, nella scienza, nella religione e nel cosmo, pp. III-CXIX.

18
Per questa acuta osservazione vedi il filosofo neokantiano Troilo E., Il darwinismo sociale, la sociologia di Comte e di Spencer e la guerra, in "Rivista italiana di sociologia", luglio-dicembre 1917, pp. 430-453, cit. p. 440. Sul socialdarwinismo di Spencer vedi Wiltshire D., The social and political thought of Herbert Spencer, Oxford University Press, Oxford, 1978.

19
Cfr. Editorial, in "Biometrika", vol. I, n. 1, ottobre 1901, p. 1.

20
Cfr. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, cit., pp. 270 e 303.

21
Schäffle A., Bau und Leben des socialen Körpers (Structure and Life of Social Bodies), 1874, ed. it., Struttura e vita dei corpi sociali, Utet, Torino, 1881. Cfr. anche Haeckel E., Essais de psychologie cellulaire, Librairie Germer Baillière, Paris, 1880.

22
Squillace F., Dizionario di sociologia, Sandron, Milano-Palermo, Napoli, 1911, voce "Ecologia p. 154, voce "Sociologia" p. 446. Cfr. anche Toscano A. M., Divenire, dover essere. Lessico della sociologia positivista, Angeli, Milano, 1990, pp. 26-27. Il primo a proporre di sostituire il vocabolo sociologia con quello di ecologia era stato in realtà lo storico e sociologo Raoul De La Grasserie.

23
Niceforo A., Frammenti di una introduzione allo studio della sociologia. I fatti costanti della vita sociale, in "Rivista di psicologia", a. XXXI, n. 2, 1935, pp. 81-103, citazione a p. 93. Si trattava di un saggio che riproponeva con numerose variazioni il corso di lezioni tenuto da Niceforo alla Sorbona nell'anno accademico 1918-19 dal titolo Introduction à l'étude de la vie sociale. Sugli stessi temi si veda anche Niceforo A., Lezioni di Demografia, Rondinella, Napoli, 1924, pp. 245-308.

24
Cfr. anche Niceforo A., Schematiche linee di una sociologia generale in cinquanta paragrafi, in "Rivista italiana di Economia, Demografia e Statistica", nn. 3-4, 1957; ora in Niceforo A., Sociologia e altri scritti, Giuffrè, Milano, 1959, pp. 1-53.

25
Cfr. Boldrini M., Biometrica. Problemi della vita delle specie e degli individui, Cedam, Padova, 1927, pp. 8-9.

26
Niceforo A., Attrazione, repulsione e circolazione nella vita sociale. Psicologia e sociologia (Continuazione e fine), in "Rivista di psicologia", a. XXXI, n. 5, 1935, pp. 223-246, cit. p. 225 (corsivi miei).

27
Niceforo A., Frammenti di una introduzione allo studio della sociologia. I fatti costanti della vita sociale, cit., pp. 96-99.

28
Niceforo A., Attrazione, repulsione e circolazione nella vita sociale. Psicologia e sociologia, in "Rivista di psicologia", a. XXXI, n. 4, 1935, pp. 191-207, in particolare pp. 190-192.

29
Ibidem., p. 201.

30
Carta del lavoro, art. XIII, cit. in Niceforo A., idem, p. 206.

31
Niceforo A., Attrazione, repulsione e circolazione nella vita sociale. Psicologia e sociologia (Continuazione e fine), cit., p. 226 (corsivo mio).

32
Von Mises L., Socialism. An Economic and Sociological Analysis, Liberty Fund, Indianapolis, 1922; tr. it., Socialismo. Analisi e conomica e sociologica, Rusconi, Milano, 1990, p. 363.

33
La teoria delle "race relations" è stata rifondata, a partire dalla fine degli anni sessanta, da studiosi di estrazione marxista come John Rex, Race Relations in Sociological Theory, Routledge & Keagan Paul, London, 1970 e Michael Banton, Race Relations, Tavistock, London, 1967. La prospettiva delle Òrace relationsÓ è stata criticata in quanto ha legittimato l'idea che i rapporti tra le razze possano essere regolati dalla loro incorporazione nei processi di formazione delle regole di convivenza, mantenendo pertanto intatto il valore euristico, più spesso ideologico e reificante, del termine ÒrazzaÓ. Cfr. Miles R., Racism after "race relations", Routledge, London & New York, 1993, pp. 5-6.

34
Park E. R. and Burgess E. W., Introduction to the Science of Sociology, University of Chicago Press, Chicago, 1921, p. 140.

35
Huxley J. S. and Haddon A. C., We Europeans: A Survey of "Racial"Problems, Cape, London, 1935, cit. in Banton M., Racial and ethnic competition, Cambridge University Press, Cambridge, 1983, p. 64.

36
Warner W. L. and Lunt S. P., The Social Life of a Modern Community, Yale University Press, New Haven, 1941.

37
Redfield R., What Do We Know About Race, in "The Scientific Monthly", a. LVII, september, 1943, pp. 193-195, ora in Thompson T. E. and Hughes C. E., Race. Individual and Collective Behavior, Free Press, Glencoe, Illinois, 1958, pp. 66-71.

38
Guillaumin C., L'Idéologie raciste. Genèse et language actuel, Mouton, Paris-La Haye, 1972, p. 77.

39
Weber M., Gesammelte Aufsätze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tübingen, 1924, pp. 456-462, cit. in Guillaumin C. e Poliakov L., Max Weber et les théories bio-raciales du XXe siècle, in "Cahiers Internationaux de Sociologie", a. XXI, n. 56, janvier-juin 1974, pp. 115-126.

40
Ibidem.

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