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Seconda parte

I Rom: dal Kosovo al Casilino 900

Storia incredibile di alcune famiglie rom, imparentate tra loro, che dagli anni novanta in poi, quando il clima sociale e politico in Kosovo cominciava a farsi pesante, lasciarono le loro case per raggiungere l'Italia. Pensavano di essersi lasciati alle spalle l'inferno. Arrivarono, invece, al CASILINO 900
21 settembre 2009
Raffaele Coniglio

Casilino 900

Nella soleggiata giornata di fine agosto, all'interno del Casilino 900 vengo accolto da Feta. Così dice di chiamarsi un giovane poco più che ventenne che mi fa conoscere i suoi parenti e alcuni connazionali. Erano le cinque in punto del pomeriggio. Lo ricordo perfettamente perché guardai l'orologio nel momento esatto in cui mi disse che aveva degli impegni a partire dalle sei: doveva rendersi disponibile per aiutare i suoi a preparare la cena del Ramadan, il mese di digiuno iniziato da poco. I rom kosovari che vivono nel campo sono, a quanto sembra, di fede musulmana, anche se è altrettanto frequente trovare in Kosovo rom di fede ortodossa. In quella che era una regione serba i rom, infatti, erano abituati a vivere tra due fuochi - in mezzo all'aspro conflitto tra serbi ed albanesi - e, per la loro stessa sopravvivenza, avevano sempre cercato di adattarsi pur di non scontentare nessuno.

E' anche per questa ragione che parlano sia serbo che albanese, e sono di fede musulmana o ortodossa. Tutto ciò però non è bastato a risparmiarli dal conflitto degli anni '90. Rimanevano sempre rom schierati, consapevolmente o meno, con il nemico, albanese o serbo che fosse. E, per evitare l'odio nei loro confronti, molti di essi, come i parenti di Feta, sono dovuti scappare dal Kosovo, lasciare tutto ciò che avevano -casa, amici, famiglia, lavoro, progetti- nella speranza di trovare un posto in cui poter vivere in pace. Devo ringraziare proprio lui, Feta, o Farum, come poco prima mi aveva detto di chiamarsi, se riesco a superare i loro timori in questa mia giornata nel Campo, la paura e la diffidenza dei suoi abitanti verso tutto quello che viene dall'esterno. Feta era appena un bambino quando è giunto in Italia per la prima volta. A 11 anni è partito da Pristina con i genitori e i fratelli più grandi alla volta di Belgrado. Ricorda però poco di quel viaggio e cerca di ricostruirlo, tappa dopo tappa, con l'aiuto dei suoi genitori.

Da Belgrado, dopo una breve sosta da alcuni conoscenti, prendono un altro autobus per una nuova meta. "Non sapevamo quale sarebbe stato il nostro viaggio intermedio" interviene la mamma di Feta nel racconto del figlio, "sapevamo soltanto che volevamo venire in Italia". Così, dopo due settimane di pellegrinaggio "quasi clandestino" riescono a superare la frontiera italiana e a lasciarsi alle spalle la città di Trieste ed il Kosovo, che in quei mesi stava letteralmente bruciando di odio. Sono proprio i genitori di Feta che, rivivendo tutta la fatica del viaggio, doloroso dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto psicologico, ricordano date e luoghi, giorni e vie del loro lungo viaggio. Credo che quando un uomo si scontra con "l'assurdo" non può fare a meno di ricordare per filo e per segno ogni cosa di quella circostanza, persino l'odore del posto. E' proprio quello che fanno con me i coniugi Hamdi nel ricostruire la loro fuga. Mi parlano di una Pristina a me sconosciuta, dove ogni cosa sembra diversa dalla città che ricordo io. Le vie solo con il nome serbo non mi dicono nulla.

Riesco a capire il luogo dove vivevano prendendo come riferimento luoghi generali e piazze. Anche la Pristina che io presento è irriconoscibile ai loro occhi. In quel momento, mentre parlo dell'attuale capitale kosovara, la madre di Feta con rapido gesto tira fuori dal suo borsellino il biglietto dell'autobus che l'ha portata qui in Italia. Il biglietto integro e gelosamente custodito riporta, scritto in lingua serba: ore 11, 20 maggio 1999, Pristina. Come un fiume in piena, la signora Hamdi parla allora dei momenti impietosi vissuti alla Questura di via Genova a Roma. "Si, quella di via Genova, numero..." non lo ricorda la moglie di Ismail, ma tiene a precisare che proprio lì ha chiesto asilo politico per lei e i suoi figlioletti. E' da giugno del '99 che tutta la famiglia è rinchiusa, questo credo sia il verbo adatto, all'interno del Casilino 900. A detta della famiglia Hamdi poco o nulla è cambiato da allora. E' aumentato sicuramente il numero dei rom kosovari. Non sono cambiate per nulla invece le promesse di miglioramento che di volta in volta si sono rinnovate negli anni, e che puntualmente sono state disattese. Le paure e le incertezze, sebbene oggi più di ieri si parli di clima razzista e xenofobo, sono sempre le stesse. Il freddo rapporto con i vicini italiani, idem. I circa 40 rom arrivati al Casilino 900 alla fine degli anni novanta sono diventati oggi oltre 110. Parliamo quindi di almeno 50 bambini nati sul territorio italiano, e quindi, cittadini italiani a tutti gli effetti. Il numero dei bambini è, in effetti, impressionante e balza subito agli occhi.

Tra loro anche qualche adolescente che, pulito e ordinato, mi saluta con pieno accento romano di Roma. Riesco a scambiare qualche parola con i cugini di Feta che frequentano le scuole medie; uno di loro, il figlio di Resat Prekuplja, frequenta invece il secondo anno dell'istituto alberghiero. Sono giovani rispettosi e istruiti che frequentano regolarmente le scuole ed hanno amici italiani. Guardano lontano loro, ma sembrano ancora poche eccezioni, non sufficienti a colmare il gap venutosi a creare con la società italiana al tempo dei loro genitori. Sicuramente, però, sono una testimonianza da considerarsi significativa, che andrebbe sostenuta e rafforzata, perché questi ragazzi dimostrano chiaramente che con l'istruzione le loro condizioni possono migliorare. Forse, quello che dicevo nella prima parte, quando mi riferivo alla pulizia degli spazi in comune per poter vivere bene loro stessi ed i loro bambini, ha radici che iniziano proprio da lì, l'istruzione. Solo frequentando le scuole italiane i giovani rom hanno l'opportunità di imparare e confrontarsi con i loro coetanei, di superare finalmente quelle odiose barriere alzate dall'ottuso pregiudizio umano. Mentre rifletto su tutto ciò, Feta mi riporta con i piedi per terra, nella realtà che vive ogni giorno lui. Ventuno anni, sposato e con due figli, ha studiato con i salesiani e dopo la terza media ha deciso di trovare un lavoro. Si trova oggi impiegato con un'associazione italiana come intermediario della comunità rom. Ogni mattina, sul pulmino del comune, accompagna i bambini a scuola, si relaziona con gli insegnanti e informa i genitori di conseguenza. Ascolta, assorbe e riferisce. E' lui il primo a credere nell'importanza dell'istruzione, ma è altrettanto consapevole del difficile cammino che bisogna percorrere. I bambini rom frequentano la scuola abbastanza regolarmente, si trovano bene, ma la loro motivazione deve fare a pugni con tanti problemi. "Come puoi vedere", mi dice con fermezza e tristezza negli occhi, "nel campo non c'è elettricità, i servizi igienici e l'acqua non potabile si trovano solo fuori dalle case".

Questo significa che "d'inverno, quando fa buio presto, i bambini, pur volendo, non possono studiare né leggere come si deve". In quel periodo dell'anno, "quando fa molto freddo i nostri bambini non riescono a lavarsi giornalmente e quando vado a scuola a volte le maestre sottolineano che i bambini puzzano". Non fa giri di parole Feta, e con due frasi arriva al nocciolo del problema, che non può certo illustrare con facilità alle insegnanti, senza dubbio ignare, almeno in parte, delle condizioni di vita nel Casilino 900; lo presenta a me, che mi trovo, seppur momentaneamente, insieme a lui a condividere il suo inferno quotidiano. La questione sta qui.

Solo se c'è un'intenzione reale da parte delle istituzioni locali e nazionali ad affrontare, seriamente, la questione immigrazione e non in maniera grossolana per pura strumentalizzazione politica, l'integrazione delle varie comunità potrà alla fine essere percepita come carta vincente che arricchisce il panorama italiano, linfa vitale di una società invecchiata. Solo con politiche serie, dove al rigore e alla determinazione seguono i diritti e le opportunità, le varie comunità, siano esse di etnia rom, curda, marocchina, peruviana o cinese che si voglia, potranno acquisire lo spessore e il ruolo che giustamente si meritano dentro una società democratica ed aperta al mondo, che pretende di essere competitiva per avanzare nel terzo millennio.

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