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Diritti negati, diritti violati

La sospensione dell’esistenza nel Campo di Mineo

Storie Migranti pubblica un report sulle insostenibili condizioni di vita degli oltre 1,300 richiedenti asilo rinchiusi nel centro-campo di Mineo, nel cuore della Piana di Catania. Un'esperinza drammatica ma anche un'occasione per sperimentare strategie di resistenza al regime di sospensione dell'esistenza.
20 gennaio 2012

Inferno a cinque stelle. Prigione dorata. Lager di lusso. Un non luogo per annullare identità, annientare speranze, perpetuare dipendenze e sofferenze. Lo hanno descritto così gli attivisti dei diritti umani e alcuni giornalisti. Il prossimo mese di marzo, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) di Mineo, elaborazione neorazzista e segregazionista del governo Berlusconi-Maroni, supererà il primo anno di vita. Oltre cinquemila persone, cinquemila volti, cinquemila corpi, cinquemila vissuti di donne, uomini, bambine e bambini, hanno già attraversato i suoi cancelli. Diritti negati. Diritti violati. Per tutti loro, il CARA è solo il campo, il loro campo. Un’immagine riproduttrice di precarietà e sospensione delle esistenze. La peggiore esperienza di “accoglienza” della storia d’Italia.

Scelgono di parlare di “vite-da-campo” o “prison yard”, le ricercatrici Glenda Garelli e Martina Tazzioli, autrici del rapporto Esistenze sospese e resistenze al CARA di Mineo, appena pubblicato da “Storie Migranti”, il sito-archivio sulla migrazione coordinato da Federica Sossi, docente di Estetica all’Università degli studi di Bergamo. “Quello che Mineo ha prodotto è un regime al tempo stesso di sospensione e fissazione allo spazio”, scrivono Garelli e Tazzioli. “Un lavoro istituzionale e gestionale che blocca la vita delle persone nell’attesa e nell’isolamento: i tempi eterni di lavoro delle commissioni territoriali per valutare la domanda di protezione internazionale, l’isolamento geografico del mega-CARA, la scarsità di collegamenti con le cittadine limitrofe, l’assenza di programmi di seconda accoglienza e inserimento sociale, sono alcuni degli elementi che hanno organizzato la sospensione delle vite delle persone che vi sono passate o che tuttora vi abitano”.

Per le due ricercatrici di “Storie Migranti”, vanno però riconosciute e legittimate le “strategie di resistenza” al regime di sospensione dell’esistenza, messe in atto all’interno del campo siciliano. “Gli abitanti del CARA – scrivono - hanno improvvisato reti di sostegno e commerci informali, talvolta contestando frontalmente la gestione delle loro vite: blocchi stradali contro l’inerzia di questura e commissioni territoriali, internet caffè improvvisati per comunicare con l’esterno, reti di rivendita e smercio dei prodotti passati dalla gestione del CARA, controllo dei circuiti di distribuzione dei vestiti, ecc.”.

Quelle degli abitanti del campo di Mineo sono giornate scandite da pratiche di identificazione e registrazione. “Sono minimo sette le volte al giorno, in cui i migranti devono mostrare la carta di identificazione (per i tre pasti, in uscita e in entrata, per ricevere credito, per acquistare prodotti al bazar e, una volta al mese, per ricevere vestiti e il kit di prodotti per l’igiene personale e la casa), in un mix in cui le funzioni di accoglienza, monetarizzazione, e di controllo sfumano l’una nell’altra rafforzandosi a vicenda”.

“Storie Migranti” ricorda come dall’istituzione del CARA sino all’ottobre 2011, ai richiedenti asilo sia stato negato il “contributo per piccole spese personali” che la Protezione Civile istituisce come obbligatorio nel Piano nazionale per la gestione della cosiddetta “emergenza umanitaria Nord Africa”. Si è dovuto attendere l’arrivo del nuovo ente gestore (un’associazione temporanea di  consorzi di cooperative più una srl, capofila la siciliana “Sisifo” di LegaCoop) perché venisse introdotto un pocket money giornaliero del valore di 3,5 euro. Ma, sottolineano Glenda Garelli e Martina Tazzioli, “la somma non viene corrisposta in contante ma attraverso un credito caricato sulla carta di identificazione”. Il denaro virtuale può essere speso solo all’interno del bazar del CARA, collocato vicino alla mensa collettiva e all’ufficio dell’ente gestore. Uno spaccio aperto appena tre ore al giorno: per le donne dalle 10 alle 11,30 del mattino; per gli uomini dalle 3 alle 5,30. Possono sfruttare entrambe le fasce orarie solo le persone in possesso della “carta famiglia”.

In verità al bazar c’è veramente poco da acquistare. Sigarette “Marlboro” a 4,9 euro a pacchetto, carte telefoniche “Telecom Welcome” per chiamate all’estero del valore di 5 euro, marche da bollo per documenti. “Il sistema del credito caricato sul tesserino di identificazione produce una vero e proprio circuito di economia informale”, spiegano le ricercatrici. “Sigarette e schede telefoniche vengono rivendute all’interno o all’esterno del CARA per produrre contante, con una conseguente diminuzione del valore reale del pocket money giornaliero. Le “Marlboro” vengono rivendute per un valore di 2,5-3 euro, con una perdita di 2,4-1,9 euro a pacchetto; le schede non producono mai più di 2 euro. Proprio queste ultime rappresentano motivo di frustrazione: la maggior parte dei richiedenti asilo a Mineo possiede un telefono cellulare con contratto “Wind”, mentre le carte “Welcome” funzionano da cellulare “Tim”, da telefono fisso, o da cabina telefonica (solo quattro telefoni pubblici nel CARA per più di 1.600 persone)”.

A concorrere al drammatico logoramento psicologico dei richiedenti asilo, la segregazione e l’isolamento del centro rispetto alla realtà urbana di Catania (distante oltre 40 Km) e al piccolo comune collinare di Mineo (a 11 km). Il bus che collegava gratuitamente il campo al paese, solo una volta al giorno, è stato sospeso per le vacanze natalizie e non è stato ancora ripreso. Agli “ospiti” non resta che un “paesaggio che immobilizza e svuota le esistenze”, “una prigione di arance che circonda il campo e in un certo modo rimarca la sua distanza da ogni altro luogo”, scrivono Garelli e Tazzioli. “Arance, arance e ancora arance, ti senti dentro una prigione di arance”, il lamento e l’angoscia di alcune donne intervistate.

Secondo i richiedenti asilo, gli alimenti distribuiti continuano ad essere di pessima qualità. “Molti raccontano di avvelenamenti da cibo (con ricoveri ospedalieri a Caltagirone) o di problemi all’apparato digestivo dovuti alla tipologia di dieta somministrata, agli ingredienti o alle precarie tecniche di conservazione del cibo. Si mangia tre volte al giorno, colazione dalle ore 7 alle 9, pranzo 12-14, cena 18-20. Sotto la gestione della Croce Rossa, i richiedenti asilo mangiavano sempre pasta e solo una volta la settimana un piatto a base di pollo. Ora il pollo viene servito il mercoledì e la domenica; oltre la pasta viene offerto anche il riso; continuano però a scarseggiare frutta e verdura fresche”. Per sopravvivere alle file estenuanti in mensa e alla routine alimentare, molte persone si sono organizzate con fornelli elettrici in casa e cucinano autonomamente. “Per quanto vietato dalle regole formali del centro di Mineo, non è difficile far entrare generi alimentari deperibili e anche vino”, scrivono le ricercatrici. “I richiedenti asilo denunciano altresì la scarsità dei prodotti per l’igiene personale. Le donne lamentano la parca fornitura di assorbenti igienici (una confezione da 12 assorbenti al mese), un problema che diventa critico anche perché molte intervistate raccontano di cicli prolungati, di 6-8 giorni. Gli uomini, d’altra parte, sottolineano che una sola lametta Bic usa e getta al mese non è sufficiente e alcuni chiedono anche creme idratanti”. Inutilmente.

Il report di “Storie Migranti” conferma poi quanto già denunciato dagli avvocati e dai giuristi delle associazioni di volontariato e antirazziste: l’estrema lentezza del lavoro delle Commissioni territoriali chiamate a valutare le richieste d’asilo. Ritardi che, l’estate e l’autunno scorso, hanno costretto i rifugiati a inscenare manifestazioni di protesta e bloccare le grandi arterie stradali che scorrono accanto al CARA. “La maggior parte delle persone con cui abbiamo parlato aveva sostenuto l’audizione per la richiesta di protezione internazionale, incontrando commissioni composte da un solo commissario e da un traduttore e trovandosi di fronte a continue interruzioni per pause sigaretta, telefonata o per andare in bagno che il commissario e il traduttore imponevano alle storie che i richiedenti tentavano di articolare”, scrivono le ricercatrici. “La scarsa attenzione riservata alla singolarità delle storie, funziona come chiave di volta del regime di scarto messo in atto dalle commissioni, che incuranti delle storie e dei vissuti di guerra, fanno in ultima analisi del Paese di nascita la discriminante principale della concessione di protezione internazionale”.

I richiedenti asilo lamentano la “scarsa professionalità della commissione” e il “non essere in linea con gli standard” di competenza richiesti dal loro ruolo. “Vengono fatte le domande sbagliate”, ripetono. I commissari insisterebbero solo sui motivi per cui le persone hanno abbandonato i paesi di origine, non solo ignorando il fenomeno delle migrazioni intra-africane ma anche rifiutando esplicitamente di sentire le ragioni per cui coloro che si trovava per lavoro in Libia hanno dovuto lasciare il paese”.

“L’attenzione della commissione tende a concentrarsi sulle date e a tralasciare il contenuto delle storie”, aggiungono Glenda Garelli e Tiziana Tazzioli. “Vengono commessi errori di trascrizione (in particolare rispetto ai nomi delle persone) che risultano incontestabili: quando i richiedenti asilo suggeriscono la giusta trascrizione del loro nome non vengono ascoltati. Una persona ha raccontato addirittura di dinieghi avvenuti perché il nome dato dalle persone sarebbe diverso da quello registrato a terminale”.

Richiedenti asilo e difensori dei diritti umani mettono profondamente in discussione anche la professionalità di certi traduttori. L’impressione generale è che “venga tradotta in italiano solo una minima parte di quello che i richiedenti raccontano, che alcuni traduttori siano razzisti e re-interpretino le storie delle persone, e che ci siano problemi di comprensione anche in inglese e francese (mancano mediatori per le lingue native). La sensazione degli intervistati è che il grande numero di dinieghi sia dovuto al fatto che le loro storie non sono state tradotte adeguatamente e/o ascoltate con attenzione”. E così migliaia di donne e uomini continuano ad essere detenuti nella prigione di arance, arance e solo arance. 

 

Inferno a cinque stelle. Prigione dorata. Lager di lusso. Un non luogo per annullare identità, annientare speranze, perpetuare dipendenze e sofferenze. Lo hanno descritto così gli attivisti dei diritti umani e alcuni giornalisti. Il prossimo mese di marzo, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) di Mineo, elaborazione neorazzista e segregazionista del governo Berlusconi-Maroni, supererà il primo anno di vita. Oltre cinquemila persone, cinquemila volti, cinquemila corpi, cinquemila vissuti di donne, uomini, bambine e bambini, hanno già attraversato i suoi cancelli. Diritti negati. Diritti violati. Per tutti loro, il CARA è solo il campo, il loro campo. Un’immagine riproduttrice di precarietà e sospensione delle esistenze. La peggiore esperienza di “accoglienza” della storia d’Italia.

Scelgono di parlare di “vite-da-campo” o “prison yard”, le ricercatrici Glenda Garelli e Martina Tazzioli, autrici del rapporto Esistenze sospese e resistenze al CARA di Mineo, appena pubblicato da “Storie Migranti”, il sito-archivio sulla migrazione coordinato da Federica Sossi, docente di Estetica all’Università degli studi di Bergamo. Quello che Mineo ha prodotto è un regime al tempo stesso di sospensione e fissazione allo spazio”, scrivono Garelli e Tazzioli. “Un lavoro istituzionale e gestionale che blocca la vita delle persone nell’attesa e nell’isolamento: i tempi eterni di lavoro delle commissioni territoriali per valutare la domanda di protezione internazionale, l’isolamento geografico del mega-CARA, la scarsità di collegamenti con le cittadine limitrofe, l’assenza di programmi di seconda accoglienza e inserimento sociale, sono alcuni degli elementi che hanno organizzato la sospensione delle vite delle persone che vi sono passate o che tuttora vi abitano”.

Per le due ricercatrici di “Storie Migranti”, vanno però riconosciute e legittimate le “strategie di resistenza” al regime di sospensione dell’esistenza, messe in atto all’interno del campo siciliano. “Gli abitanti del CARA – scrivono - hanno improvvisato reti di sostegno e commerci informali, talvolta contestando frontalmente la gestione delle loro vite: blocchi stradali contro l’inerzia di questura e commissioni territoriali, internet caffè improvvisati per comunicare con l’esterno, reti di rivendita e smercio dei prodotti passati dalla gestione del CARA, controllo dei circuiti di distribuzione dei vestiti, ecc.”.

Quelle degli abitanti del campo di Mineo sono giornate scandite da pratiche di identificazione e registrazione. “Sono minimo sette le volte al giorno, in cui i migranti devono mostrare la carta di identificazione (per i tre pasti, in uscita e in entrata, per ricevere credito, per acquistare prodotti al bazar e, una volta al mese, per ricevere vestiti e il kit di prodotti per l’igiene personale e la casa), in un mix in cui le funzioni di accoglienza, monetarizzazione, e di controllo sfumano l’una nell’altra rafforzandosi a vicenda”.

“Storie Migranti” ricorda come dall’istituzione del CARA sino all’ottobre 2011, ai richiedenti asilo sia stato negato il “contributo per piccole spese personali” che la Protezione Civile istituisce come obbligatorio nel Piano nazionale per la gestione della cosiddetta “emergenza umanitaria Nord Africa”. Si è dovuto attendere l’arrivo del nuovo ente gestore (un’associazione temporanea di  consorzi di cooperative più una srl, capofila la siciliana “Sisifo” di LegaCoop) perché venisse introdotto un pocket money giornaliero del valore di 3,5 euro. Ma, sottolineano Glenda Garelli e Martina Tazzioli, “la somma non viene corrisposta in contante ma attraverso un credito caricato sulla carta di identificazione”. Il denaro virtuale può essere speso solo all’interno del bazar del CARA, collocato vicino alla mensa collettiva e all’ufficio dell’ente gestore. Uno spaccio aperto appena tre ore al giorno: per le donne dalle 10 alle 11,30 del mattino; per gli uomini dalle 3 alle 5,30. Possono sfruttare entrambe le fasce orarie solo le persone in possesso della “carta famiglia”.

In verità al bazar c’è veramente poco da acquistare. Sigarette “Marlboro” a 4,9 euro a pacchetto, carte telefoniche “Telecom Welcome” per chiamate all’estero del valore di 5 euro, marche da bollo per documenti. “Il sistema del credito caricato sul tesserino di identificazione produce una vero e proprio circuito di economia informale”, spiegano le ricercatrici. “Sigarette e schede telefoniche vengono rivendute all’interno o all’esterno del CARA per produrre contante, con una conseguente diminuzione del valore reale del pocket money giornaliero. Le “Marlboro” vengono rivendute per un valore di 2,5-3 euro, con una perdita di 2,4-1,9 euro a pacchetto; le schede non producono mai più di 2 euro. Proprio queste ultime rappresentano motivo di frustrazione: la maggior parte dei richiedenti asilo a Mineo possiede un telefono cellulare con contratto “Wind”, mentre le carte “Welcome” funzionano da cellulare “Tim”, da telefono fisso, o da cabina telefonica (solo quattro telefoni pubblici nel CARA per più di 1.600 persone)”.

A concorrere al drammatico logoramento psicologico dei richiedenti asilo, la segregazione e l’isolamento del centro rispetto alla realtà urbana di Catania (distante oltre 40 Km) e al piccolo comune collinare di Mineo (a 11 km). Il bus che collegava gratuitamente il campo al paese, solo una volta al giorno, è stato sospeso per le vacanze natalizie e non è stato ancora ripreso. Agli “ospiti” non resta che un “paesaggio che immobilizza e svuota le esistenze”, “una prigione di arance che circonda il campo e in un certo modo rimarca la sua distanza da ogni altro luogo”, scrivono Garelli e Tazzioli. “Arance, arance e ancora arance, ti senti dentro una prigione di arance”, il lamento e l’angoscia di alcune donne intervistate.

Secondo i richiedenti asilo, gli alimenti distribuiti continuano ad essere di pessima qualità. “Molti raccontano di avvelenamenti da cibo (con ricoveri ospedalieri a Caltagirone) o di problemi all’apparato digestivo dovuti alla tipologia di dieta somministrata, agli ingredienti o alle precarie tecniche di conservazione del cibo. Si mangia tre volte al giorno, colazione dalle ore 7 alle 9, pranzo 12-14, cena 18-20. Sotto la gestione della Croce Rossa, i richiedenti asilo mangiavano sempre pasta e solo una volta la settimana un piatto a base di pollo. Ora il pollo viene servito il mercoledì e la domenica; oltre la pasta viene offerto anche il riso; continuano però a scarseggiare frutta e verdura fresche”. Per sopravvivere alle file estenuanti in mensa e alla routine alimentare, molte persone si sono organizzate con fornelli elettrici in casa e cucinano autonomamente. “Per quanto vietato dalle regole formali del centro di Mineo, non è difficile far entrare generi alimentari deperibili e anche vino”, scrivono le ricercatrici. “I richiedenti asilo denunciano altresì la scarsità dei prodotti per l’igiene personale. Le donne lamentano la parca fornitura di assorbenti igienici (una confezione da 12 assorbenti al mese), un problema che diventa critico anche perché molte intervistate raccontano di cicli prolungati, di 6-8 giorni. Gli uomini, d’altra parte, sottolineano che una sola lametta Bic usa e getta al mese non è sufficiente e alcuni chiedono anche creme idratanti”. Inutilmente.

Il report di “Storie Migranti” conferma poi quanto già denunciato dagli avvocati e dai giuristi delle associazioni di volontariato e antirazziste: l’estrema lentezza del lavoro delle Commissioni territoriali chiamate a valutare le richieste d’asilo. Ritardi che, l’estate e l’autunno scorso, hanno costretto i rifugiati a inscenare manifestazioni di protesta e bloccare le grandi arterie stradali che scorrono accanto al CARA. “La maggior parte delle persone con cui abbiamo parlato aveva sostenuto l’audizione per la richiesta di protezione internazionale, incontrando commissioni composte da un solo commissario e da un traduttore e trovandosi di fronte a continue interruzioni per pause sigaretta, telefonata o per andare in bagno che il commissario e il traduttore imponevano alle storie che i richiedenti tentavano di articolare”, scrivono le ricercatrici. “La scarsa attenzione riservata alla singolarità delle storie, funziona come chiave di volta del regime di scarto messo in atto dalle commissioni, che incuranti delle storie e dei vissuti di guerra, fanno in ultima analisi del Paese di nascita la discriminante principale della concessione di protezione internazionale”.

I richiedenti asilo lamentano la “scarsa professionalità della commissione” e il “non essere in linea con gli standard” di competenza richiesti dal loro ruolo. “Vengono fatte le domande sbagliate”, ripetono. I commissari insisterebbero solo sui motivi per cui le persone hanno abbandonato i paesi di origine, non solo ignorando il fenomeno delle migrazioni intra-africane ma anche rifiutando esplicitamente di sentire le ragioni per cui coloro che si trovava per lavoro in Libia hanno dovuto lasciare il paese”.

“L’attenzione della commissione tende a concentrarsi sulle date e a tralasciare il contenuto delle storie”, aggiungono Glenda Garelli e Tiziana Tazzioli. “Vengono commessi errori di trascrizione (in particolare rispetto ai nomi delle persone) che risultano incontestabili: quando i richiedenti asilo suggeriscono la giusta trascrizione del loro nome non vengono ascoltati. Una persona ha raccontato addirittura di dinieghi avvenuti perché il nome dato dalle persone sarebbe diverso da quello registrato a terminale”.

Richiedenti asilo e difensori dei diritti umani mettono profondamente in discussione anche la professionalità di certi traduttori. L’impressione generale è che “venga tradotta in italiano solo una minima parte di quello che i richiedenti raccontano, che alcuni traduttori siano razzisti e re-interpretino le storie delle persone, e che ci siano problemi di comprensione anche in inglese e francese (mancano mediatori per le lingue native). La sensazione degli intervistati è che il grande numero di dinieghi sia dovuto al fatto che le loro storie non sono state tradotte adeguatamente e/o ascoltate con attenzione”. E così migliaia di donne e uomini continuano ad essere detenuti nella prigione di arance, arance e solo arance.

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