Lettera a La Repubblica
Il nostro amico Moussa è di origine algerina ma vive in Italia da 27 anni.
Da due giorni è rinchiuso nel ‘Centro di Permanenza Temporanea’ di Via Corelli in attesa di essere rispedito a forza in Algeria, paese nel quale non è tornato mai.
Moussa conosce molto bene Milano, anche la più sordida e difficile. La sua esperienza di vita nella nostra città, la sua umanità, ci sono state di grande utilità quando stavamo preparando le riprese del film Fame Chimica.
Alla base del provvedimento di espulsione c’è il fatto che Moussa e’ stato giudicato ‘socialmente pericoloso’ perché tre anni fa, dopo la denuncia di un suo conoscente italiano, è stato ritenuto colpevole di ‘tentata rapina’.
Alla fine di un anno di carcere (con pena ridotta per ‘buona condotta’), la magistratura ha confermato la sua presunta
pericolosità sociale.
Questo a partire da un teorema grottesco, che pretende che lui, non avendo più il permesso di soggiorno (e come potrebbe rinnovarlo, con
l’etichetta che gli è stata affibbiata?), per vivere non può fare altro che commettere nuovi reati.
Nel frattempo la persona che lo aveva denunciato gli si è riavvicinata e si è fatta perdonare il suo gesto, sproporzionato rispetto a quanto
accaduto davvero.
Ma questo non conta, ormai, e il provvedimento di espulsione resta irreversibile.
Dopo che è stata applicata, la legge non guarda i risvolti più veri di una vicenda e diventa una trappola nella quale si resta impigliati, specie se si risulta stranieri.
Implacabile, iniqua, inumana, questa legge ha il coraggio di cacciare un uomo di 50 anni che ha vissuto la maggior parte della sua vita in questo paese.
Da un anno a questa parte Moussa è legato sentimentalmente ad una donna che ha molto bisogno di lui. Ha un figlio italiano, che vive da qualche tempo in Francia, a cui tiene profondamente. Ha molti amici, molte persone che gli vogliono bene.
D’altronde la vita è un accumulo di storie, di affetti, di sentimenti.
E’ normale.
Ma tutto questo per la legge non conta e anche se Moussa la sua vita l’ha vissuta qui, presto sarà
spinto a salire su un aereo che lo porterà in un paese che è ‘il suo’ solo per le questure.
Moussa è un uomo intelligente e non ha avuto bisogno di studiare per avere uno sguardo straordinariamente aperto sulle cose e sul mondo. Un ‘filosofo’, si dice in giro, argomentato e profondo.
Ma è anche una persona che non si e’ adattata fino in fondo alle regole del gioco: un individualista orgoglioso e insofferente con tanti problemi (e chi non li ha), che ha conosciuto la depressione e se ne è fatto carico da solo, sperando sempre che arrivasse qualcuno per dirgli ‘riposati un poco, ora, e prendi fiato: adesso ci penso io’.
Sogno impossibile, è vero, che si infrange duramente sulle sbarre di Via Corelli e che misura un debito affettivo che forse risale a quando, all’età di 10 anni, la guerra d’Algeria lo strappò alla famiglia e lo costrinse ad arrangiarsi da solo. Moussa è un uomo con qualità e difetti.
Un giorno vagabondo e un giorno principe.
Non vogliamo protestare contro la sua espulsione pretendendo che sia diverso da come è.
Sarebbe riconoscere indirettamente un valore ad una legge che ci pare invece demagogica e ingiusta. No. Raccontiamo la vicenda di Moussa perché è simile a tante altre che si consumano in silenzio.
Non c’entra la persona, le cose buone e meno buone che ha.
C’entrano alcune norme della nostra società che non rispettano la dignità umana, trascurano i più elementari valori di convivenza e
uccidono ogni forma di solidarietà.
Ferito nell’orgoglio Moussa, il milanese Moussa, ci dice che se la sua Italia proprio non lo vuole almeno
lo mandi via al più presto, perché duri il meno possibile la sua reclusione nel disperante centro di Via Corelli.
Dove, oltretutto, si sente vecchio in mezzo ai giovani, straniero tra stranieri, triste, tradito e solo più che mai.
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