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Una donna del deserto

Maima

Dedicato a tutte le donne che combattono, insegnando la pace, per un Ideale. E agli uomini che credono in loro.
15 gennaio 2005
Paola Maccioni


Sahara

Tindouf, ultima città algerina nel Sahara, a circa duemila chilometri dalla capitale. Non uno dei miei sensi è preparato a quello che mi attende. La pista d’atterraggio si confonde con il resto del paesaggio, tutto rosso, colorato dal sole che brilla in un cielo immensamente azzurro: anche i colori hanno dimensioni spaziali, quaggiù. Gli aerei parcheggiati in pista sembrano giocattoli abbandonati nel deserto. Il rumore è sommerso dal silenzio: nessun edificio, nessuna pianta, nessuna montagna per fermare e restituire il rombo dei motori. Un soldato armato di mitra si avvicina e mi fa cenno di sbrigarmi. I miei compagni di viaggio si dirigono velocemente verso l’aerostazione; sono quasi tutti algerini o saharawi. Io sono diretta al campo profughi saharawi di Dajla.

L’Algeria ha ospitato, trent’anni fa, questo popolo in fuga dalla propria patria: il Sahara Occidentale, colonia spagnola, i cui confini sono stati sanciti dal trattato di Berlino del 1884. Nel 1973 viene fondato il Fronte Polisario: Fronte di Liberazione di Saghuia el Hamra e Rio de Oro. Il cui manifesto è quello di combattere fino all’indipendenza del popolo saharawi e al riconoscimento della sua sovranità sulla propria terra. Nel 1975 la Spagna si ritira dal Sahara Occidentale, cedendolo al Marocco e alla Mauritania, che lo invadono. Una parte della popolazione civile, per sfuggire al genocidio, si rifugia nel deserto algerino. Nello stesso anno, la commissione inviata dall’Onu riconosce il diritto del popolo saharawi all’autodeterminazione, condannando l’invasione. Nel 1976 viene proclamata la Repubblica Araba Saharawi Democratica sul territorio dell’ex Sahara Occidentale. Nel 1978 la Mauritania, a seguito di un golpe militare, rinunzia al conflitto e il Marocco invade anche la parte meridionale del Paese. Oggi, circa cinquecentomila persone vivono nell’Hammada, Sahara sud occidentale algerino. Buona parte del mondo ha dimenticato questo popolo che è aiutato dalle associazioni di volontariato internazionale. Faccio parte di una di queste e sono qui per lavorare alla scuola speciale per i bambini disabili.

Le formalità burocratiche alla dogana sono lunghe e noiose, come in ogni parte del mondo. Fuori dell’aeroporto mi attende la jeep che mi condurrà a Rabouni, la capitale in esilio. Saluto Abdullah e Omar che saranno i miei accompagnatori. Caricato lo zaino, andiamo verso l’orizzonte.

Rabouni non è una città: una serie di costruzioni bianche, basse, senza stile architettonico definito, distanti l’una dall’altra. La bandiera con le strisce orizzontali: nera, bianca, verde, il triangolo rosso e la mezzaluna con la stella rossa, svetta su ogni edificio. I Ministeri, il Governo, il palazzo presidenziale sono tutti qui. Due altissime torri: una è il serbatoio dell’acqua, l’altra un traliccio con le antenne per le comunicazioni. Non ci sono strade: i segni dei pneumatici indicano il percorso migliore. Il traffico è inesistente. Le jeep appartengono alla Stato, sono una ventina, guidate da uomini che conoscono il deserto come le loro tasche. Il rappresentante del Polisario mi accoglie al Protocollo. Mi ringrazia per la presenza: gli aiuti sono importanti. La presenza internazionale ancora di più.

Risalgo sulla jeep. Mi aspettano dalle quattro alle cinque ore di strada. Strada? Sono preoccupata. Come faremo a non perderci? Il paesaggio è tutto uguale. Cambiano solo i colori della sabbia. Dal bianco al nero ci sono proprio tutti. Il blu scuro del miraggio sembra l’oceano; il celeste perlato, un lago. Il verde mi fa pensare all’oasi e sospiro di sollievo: un punto di riferimento. Omar, l’autista, ride: laggiù non c’è nulla! Guardo la sabbia, cerco un segnale: niente. I segni dei pneumatici che speravo indicassero la direzione sono infiniti. Basta. Decido di rilassarmi e di guardare le rocce che ogni tanto vengono fuori dal nulla a formare un paesaggio lunare.

Omar decide di fare una sosta. Nel deserto il tempo non è scandito dall’orologio, ma da luoghi ben precisi. Scendiamo dalla jeep. Abdullah smuove la sabbia. Appaiono delle pietre nere: è carbone. Mi spiega che ogni viaggiatore si ferma lì, a preparare il tè, e utilizza quel carbone; prima di ripartire ricopre accuratamente i tizzoni che un altro troverà: non c’è legna nel deserto. Seduta per terra a gambe incrociate guardo i movimenti di Omar. Il tè è un rito senza tempo: il bricco blu sulla brace, i sei bicchierini di vetro disposti in semicerchio davanti a lui. Con movimenti rapidi e sicuri riempie il primo bicchiere e travasa il contenuto da uno all’altro; dall’alto verso il basso, senza rovesciarne una goccia. Omar racconta di sé e m’ipnotizza con la voce e con i gesti. Il primo tè è amaro come la vita. Passa da un bicchierino all’altro ancora dieci, venti volte, finché non torna dentro il bricco. La schiuma bianca sale in superficie mentre Abdullah serve il liquido verdastro. Beviamo a turno. È davvero amaro. I bicchieri tornano sulla sabbia mentre Omar mette un po’ di zucchero nel bricco. Ricomincia la danza del tè. La schiuma bianca è più densa e i racconti continuano. Il tempo passa portando con sé immagini di vita impossibile. Il secondo tè è dolce come l’amore. I bicchieri passano di mano in mano. Non commento mentre appoggio il mio, davanti ad Abdullah. “Se non lo senti dolce significa che non sei innamorata” mi dice sottovoce, mentre l’amico aggiunge dell’altro zucchero nel bricco. Omar parla e racconta del suo amore morto sotto i bombardamenti del 1975. Non una goccia è versata fuori dai bicchieri. Guardo le sue mani scure e gli occhi lucenti. Il tè ha il rumore di una cascatella argentina mentre passa da un bicchiere all’altro. La schiuma ora mi ricorda quella bianca e densa, fatta di bollicine compatte, che si forma ai bordi delle saline. Il terzo tè è soave come la morte. Bevo in silenzio. I tizzoni sono ricoperti accuratamente di sabbia, i bicchieri e il bricco riposti nella sacca. Il viaggio prosegue.

Le porte di Dajla

Arriviamo alle porte di Dajla: due colonne di pietre color deserto si stagliano nel cielo. Dietro, ancora il nulla; tutto intorno sabbia, roccia e azzurro. Finalmente, dopo qualche minuto, l’orizzonte è meno piatto: le tende del campo. Non ho voglia di pensare. Una donna avvolta nella melfa che lascia intravedere solo gli occhi mi viene incontro. Mi saluta mettendomi la mano destra sulla spalla e poi portandosela al cuore. La imito sorridendo e ci abbracciamo. I nostri saluti s’incrociano in aria. Il mio ciao e il suo salam ale cum. Spero che parli francese o inglese. Io capisco ma non parlo spagnolo e tremo al pensiero dell’arabo! La seguo nella tenda trascinandomi lo zaino. Imito i suoi gesti. Mi tolgo le scarpe prima di entrare e saluto con un timido salam ale cum la famiglia riunita. Quella mano, che ognuno si porta sul cuore prima di abbracciarmi, mi fa sentire benvenuta più di tante formule di saluto che conosco. Dice più di tante parole. Le donne sono avvolte nelle melfe colorate. Vedo solo gli occhi incorniciati dal kajal e le mani disegnate con mille arabeschi d’hennè o henna, come lo chiamano qui. Mi siedo accanto a loro e subito mi danno una coperta. C’è freddo, la sera, nel deserto. Gli uomini vanno via e le donne si scoprono il viso sorridente. Ora distinguo madri e figlie, giovani e anziane. Sopracciglia arcuate perfettamente disegnate, volti incorniciati da una banda di lisci capelli neri. Neanche davanti a me tolgono il velo che copre la testa. Maima è la padrona di casa. È lei il capo di questo gineceo che mi guarda stupito per la magrezza e i capelli corti: 'Ma che donna sarà mai?'. Non ho voglia di cenare, sono troppo stanca. Accetto alcuni datteri e un pezzo di pane. Mi distendo distrutta sul tappeto, domani comincio il mio lavoro alla scuola e voglio riposare. Maima e le altre vanno via: “Leila saida”. È la loro buonanotte.


Amaro come la vita

Sono qui da una settimana. L’acqua è razionata e mi lavo come un gatto. La sabbia ha reso i miei vestiti tutti dello stesso colore. Comincio ad apprezzare la melfa e l’elhem, il turbante con cui gli uomini si avvolgono. Anche loro lasciano scoperti solo gli occhi. La prima volta che indosso la melfa nessuno mi riconosce. Ho voluto fare una sorpresa alle mie amiche e Abdid, il fratello maggiore, mi ha insegnato a indossarla. Hasciannan, Horia, Scipla e Maima si complimentano. Per essere considerata bella da un Saharawi ora mi mancano solo qualche chilo in più e l’henna sui piedi e sulle mani. Acconsento alle ultime due proposte... per i chili in più c’è tempo!
È venerdì. È festa. La scuola è chiusa e io rimango in kaima. Distesa sul tappeto, avvolta dalle coperte acriliche multicolori, guardo Maima che prepara per il tè. Abbiamo avuto poco tempo per parlare di noi, in questi giorni. Fuori il vento soffia forte. È impossibile uscire. Sollevo il lembo della tenda che serve da porta: per un attimo non distinguo nulla. Poi intravedo i cammelli nel recinto a pochi metri dalla kaima. Guardo verso l’orizzonte: è incredibile, un popolo di sabbia si forma sotto i miei occhi! Il vento raccoglie la sabbia dal terreno, la plasma in figure che sembrano umane e che trascina per qualche metro; poi le lascia sgonfiare come palloncini e subito ne forma delle altre. Mi sembra di distinguere cammelli, capre, una carovana. Tutto sembra vero nell’istante in cui è creato. Il vento non ulula, ma porta con sé il grido di saluto delle donne. Sembra di ascoltare un grido di guerra. Lo producono movendo velocemente la lingua orizzontalmente e facendola sbattere ai lati interni della bocca; se ne intravede la punta tra le labbra. È un suono quasi animalesco. Abbasso la tenda e osservo Maima. Il bricco blu è sul braciere. I sei bicchierini sono disposti a semicerchio davanti a lei. Respiro l’incenso che le donne di casa preparano mescolando varie essenze fino ad ottenere una pasta che in piccole quantità mettono sulle braci. Oggi abbiamo tempo per noi. Le chiedo di parlarmi della sua vita. Si stringe nella melfa e copre il viso. Sa che la mia non è curiosità. La sua dolce parlata spagnola riempie lo spazio lasciato libero dal fumo dell’incenso. Il tè comincia la sua danza da un bicchiere all’altro. Maima racconta:

Maima

“Sono nata il 10 gennaio del 1971 a Dajla. La vera Dajla, una delle città più belle. Tanto, tanto bella. Con un grande porto. Si mangiava e si viveva bene. Non ero di una tribù ricca. I miei genitori, prima della mia nascita, erano beduini che vivevano nel deserto e viaggiavano continuamente. L’anno in cui sono nata c’è stata una grande siccità che ha fatto morire tutti gli animali e siamo diventati molto poveri. Non avevamo più nulla.

Non ricordo quasi niente della mia infanzia, tranne un paio di bombardamenti. Avevo sei o sette anni, quando una bomba è caduta molto vicino alla mia kaima. Le schegge volavano dappertutto, una ha colpito mia madre, quasi vicino al cuore. Mamma mi ha presa in braccio e mi ha portato al sicuro. Mi ha coperto con il suo corpo ed è svenuta. Vedevo sangue ovunque. Anch’io ero piena di sangue: quello di mia madre. È stato orribile. Orribile. Questo è il primo, terribile, ricordo della guerra. Non capivo se mia madre fosse morta o svenuta. Ero molto piccola, piangevo e piangevo. Gridavo e nessuno mi sentiva. Ci hanno soccorso appena il bombardamento è cessato. Mia madre, ancora svenuta, perdeva molto sangue. Io non capivo più nulla.

Era la battaglia del 1978. La famosa battaglia dei Saharawi contro i Mauritani che ci avevano invaso da sud. La mia gente ne aspettava con ansia l’esito perché vi aveva riposto tutte le speranze di libertà. Nel 1975 il governo spagnolo aveva dato, con un accordo segreto, via libera all’ingresso del Marocco nel Sahara Occidentale, autorizzando così l’ingresso delle truppe. Dalla notte alla mattina da ex colonia spagnola siamo passati ad essere un Paese conquistato. Non abbiamo mai conosciuto la libertà. I soldati entravano nelle case e arrestavano tutti quelli che avevano bandiere o cassette con i canti nazionali. Tanti sono morti in carcere. Tanta gente decise di lasciare le case. La cosa più triste era sapere che si abbandonava tutto: case, macchine e tutto ciò che si possedeva. C’era anche gente ricca fra noi. Si andava nel deserto: verso la morte, pur di non rimanere sotto l’invasore. Tutti volevamo fare qualcosa per l’indipendenza. Non avevamo armi per difenderci e quando le truppe marocchine sono entrate in città, siamo fuggiti. La gente scappava con ogni mezzo; molti erano a piedi. Nessuno ebbe il tempo di portare via niente. Quando si formarono i primi accampamenti nel deserto, tanti morirono sotto le bombe al napal e al fosforo. Tanta gente innocente.

Nel 1978 esistevano già i primi campi profughi. Il Fronte di liberazione, il Polisario, aveva organizzato la resistenza nell’Hammada. Ogni wilaya aveva il nome della città da cui provenivano gli esuli. Per conservare la memoria della patria anche le posizioni geografiche sono state rispettate: la Dajla del deserto è la più meridionale, come la vera Dajla. La mia famiglia sapeva dalla radio che i Saharawi si stavano organizzando lì. Mia madre decise che ci saremo unite a loro. Non voleva vivere sotto un’altra dominazione. Mio padre e mio fratello maggiore erano stati imprigionati. Mia sorella più grande, sotto consiglio dei miei genitori, era scappata già nel 1975 in Mauritania.

Siamo andate verso sud fino a Meguera entrando in territorio mauritano. Da Noalibu siamo andate a Suerat e da lì di nuovo a nord, verso il deserto. Durante la fuga il nostro esercito ci proteggeva come poteva e distribuiva alimenti e conforto. Gli aerei marocchini mitragliavano le colonne di fuggitivi, per la maggior parte donne, vecchi e bambini. Tutti gli uomini erano al fronte. Il Polisario organizzò delle staffette di camion per portare in salvo più gente possibile. Migliaia sono morti nel deserto. Nel 1979 siamo arrivati qui, in territorio algerino. Questa regione si chiama Hammada, la terra senza vita. La peggiore maledizione che si possa scagliare contro qualcuno è augurargli di trovarsi senz’acqua nell’Hammada. Quando scendemmo dal camion la gente del campo ci accolse con grida come se fossimo dei re. Non eravamo nessuno: se non persone che si erano unite alla lotta di liberazione. Mentre scendevo dal camion un ufficiale del Polisario disse a mia madre: “Se vuoi tenerti tua figlia, rimarrà ignorante per sempre. Se invece l'affidi a noi, diventerà una donna con le palle.“ Mia madre rispose: “Ho fiducia nel Polisario.“
Maima mi porge il piccolo bicchiere: il tè è davvero amaro come la vita.


Dolce come l’amore

Appoggio sul vassoio a tre gambe il mio bicchiere. Non so come chiedere a Maima di continuare a raccontare. Conosco la guerra dai libri e dalla mia esperienza del dopoguerra nei Balcani. Non voglio che la mia amica soffra al ricordo. La guardo mentre aggiunge lo zucchero all’acqua del bricco blu. Mi sorride con gli occhi e continua a parlare. La schiuma che si forma nei bicchieri quando il tè passa dall’uno all’altro è sempre più soffice.

“Quando sono arrivata al campo c’erano già le scuole. Il Polisario aveva ricreato la nostra struttura sociale. Avevo otto anni e non ero mai andata a scuola. M’inserirono nella prima classe della scuola “9 di giugno”, in un’altra wilaya. Ricordo che eravamo tanti bambini. Vivevamo tutti insieme ogni momento della giornata. Avevamo una sola coperta molto sottile. Avevamo un’ uniforme, ma non le scarpe. Mangiavamo, in dieci, un piatto di lenticchie: un piatto per dieci bambini, tutti i giorni. C’era molto freddo. Avevo circa nove anni, ma non ricordo tutto dettagliatamente. È stato un momento difficile della mia vita. Mi costa fatica ricostruire tutto quello che ho passato. Ero in ritardo con la scuola e per questo solo dalla terza classe sono potuta andare a casa. Mi ricordo che la prima volta che sono ritornata non sapevo dov’era casa mia. Sapevo solo che stava a Dajla. Tanti bambini erano nella mia situazione. Conoscevamo solo il nome della città da cui provenivamo. Il Polisario aveva pensato a questo e aveva riunito i profughi secondo il luogo di provenienza. L’esercito iniziò a cercare le nostre madri. I camion giravano per le wilaya e i soldati urlavano: “ Di chi è questo bambino?” Così siamo stati riconsegnati alle famiglie e abbiamo imparato dov’era la nostra nuova kaima. Nella scuola “9 di giugno”, non avevamo da mangiare, è vero, ma avevamo degli insegnanti che pensavano a noi come dei genitori. A scuola avevamo un bagno e i professori ci facevano lavare tutti i giorni. C’era chi faceva la pipì a letto e loro lavavano le coperte, senza sgridare. La vicinanza di queste persone, che credevano in ciò che facevano, è stata molto importante per la mia crescita. Mi ha insegnato ad amare la Causa direttamente con l’esempio. Nei tre anni passati nella scuola ho imparato a parlare bene lo spagnolo e l’arabo. I professori s’impegnavano perché non diventassimo fanatici: c’insegnavano la nostra religione, il Corano e le altre materie, ma tutte le loro forze erano indirizzate a educarci per poi essere utili al nostro popolo. Ci svegliavamo alle sei del mattino ed eravamo obbligati a fare colazione: dovevamo avere la forza per studiare. Andavamo a scuola. A mezzogiorno si pranzava e si tornava a lezione. Si cenava e dopo a ripassare. Questa era la nostra vita. Dura, pesante, ma i nostri professori dicevano che dovevamo farlo per la nostra gente. Dovevamo lottare e amare il nostro popolo: questo era il compito di noi bambini mentre i padri e i fratelli erano al fronte. Quei professori hanno fatto di noi uomini e donne che oggi servono il popolo. Ho imparato che la disciplina è importante e che bisogna saper obbedire prima di comandare. Nel 1982 Cuba offrì le prime 500 borse di studio ai giovani saharawi. I professori domandarono alle nostre madri il consenso per la partenza. Molte non lo diedero. Mia madre, grazie a Dio, acconsentì. Io ringrazio mia madre che mi ha permesso di studiare. Partimmo in novantanove ragazzi e un'educatrice. Il presidente M. Abdelaziz venne a salutarci e ci disse: “Sarete i nostri futuri dottori, ingegneri e maestri. Tutte le nostre speranze sono riposte in voi. Se volete, potete rifiutare e continuerete ad essere merda. Se accetterete, ve ne saremo grati.” Le sue parole ci hanno incoraggiato e caricato di responsabilità: tutti volevamo essere utili alla Patria.

Abbiamo viaggiato da Orano a Cuba per quindici giorni, su una nave russa. Era il primo contatto con la vita moderna. Non sapevo aprire un rubinetto. Nella cabina c’era un grande specchio. Quando sono entrata ho pensato che ci fosse già qualcuno e sono scappata via: invece ero io, riflessa nello specchio. Non mi ero mai vista. Non avevo mai visto uno specchio. Alla mensa ci dissero di mangiare con le forchette, ma non sapevamo come usarle. Alcune signore russe ci insegnarono ad usare le posate. Un bambino mise il sale sul dolce. Sulla nave avevano organizzato degli spettacoli teatrali per intrattenerci. Non riuscivamo a stare seduti, non sapevamo cos’era un artista, uno spettacolo. Non conoscevamo niente. Arrivammo a Cuba, al porto del L’Avana, nell’ottobre del 1982. C’imbarcarono su un’altra nave e ci portarono all’Isola della Gioventù. E’ un’isola dove vivono solo studenti. Ci sono 65 scuole: i giovani vivevano e studiavano lì. Le scuole erano collegate da strade e tutto era circondato da aranceti e piantagioni di caffè. Noi stavamo nella scuola 49. Ho sostenuto un esame e sono stata inserita nella settima classe. Io ero felice e stavo bene, ma in tanti non hanno sopportato la nostalgia e sono tornati indietro. Non potevamo comunicare con la famiglia: non c’è telefono a Dajla del deserto. Quando ero triste pensavo che non ero l’unica in quella situazione. Ci davano i vestiti per la scuola e per il lavoro, alla fine della settimana abiti puliti. Avevamo tutto pagato e qualche pesos al mese per il gelato. Non avevo grandi problemi per il cibo, ma non mangiavo mai carne. Una sera c’era maiale e non ho cenato. La mattina dopo, a colazione, non mangiai perché ero in ritardo; a mezzogiorno un’altra volta maiale e non ho pranzato. Più tardi, dopo lo studio, quando mi alzai per chiedere il permesso di uscire fuori con gli altri, svenni. Mi portarono all’ospedale e le analisi rivelarono una forte anemia. Dissi che non mangiavo mai la carne, sono musulmana e non mangio maiale. I medici e i professori contattarono la mia famiglia. L’Imam rispose che nel Corano si dice: “La necessità è la madre dell’obbligo; se non c’è nient’altro, si può mangiare il maiale.” Per nove anni ho mangiato il porco, anche se con fatica. La mia vita scorreva tra studio, sport e ricordi. Non avevo contatti con i giovani cubani che avevano usi e costumi diversi dai nostri. Ero fiera di essere Saharawi. Approfittavo del tempo libero per imparare il più possibile, così come mi avevano insegnato i miei professori nel deserto. Dopo la scuola superiore chi aveva una buona media poteva fare l’università e scegliere il corso di studi; a chi aveva una media bassa era imposto un corso professionale. Un insegnante mi consigliò di studiare medicina. Mi sarebbe piaciuto, ma il ricordo del sangue mi terrorizzava. Così ho scelto ingegneria in telecomunicazioni ed elettronica. Tutti dicevano che era una laurea per uomini. Ma io ero, e sono convinta, che abbiamo lo stesso cervello, uomini e donne! Io e un’altra siamo le prime due donne saharawi laureate in questa disciplina.

Nel periodo dell’università, dal 1989 al 1995, ho ricevuto solo quattro lettere dalla mia famiglia. Per mantenere sempre vivo il ricordo della nostra terra e l’amore per la Causa, festeggiavamo tutte le nostre feste: il 10 di maggio, il 27 febbraio, il giorno dei Martiri. Ci riunivamo tra di noi e parlavamo della Causa, discutevamo su cosa avremo fatto al ritorno in patria, cercavamo di organizzarci così come facevano nei Campi. In tutte le manifestazioni sportive eravamo fieri di rappresentare i Saharawi. Il nostro amore era la Patria. All’università guadagnavo 60 pesos al mese: spendevo quei soldi per studiare lingue. Così, la sera, dopo le lezioni, due volte la settimana studiavo inglese e due francese. Dovevo approfittare al massimo dell’opportunità di studiare: questo l’avevo sempre ben presente nella mente. Adesso parlo spagnolo, inglese, francese, arabo e sto imparando l’italiano. Mi piacciono tanto le lingue: sono porte aperte sul mondo. Poi mi sono laureata ed è arrivato il momento di tornare.”

Maima mi porge sorridendo il mio tè: è dolce come l’amore.


Soave come la morte

La kaima

La piccola Hamazale entra nella tenda seguita dai cuginetti.
“S’kif fala?” le domando: “Come stai?”
“Le bess, ambd’ullah!” risponde compita: "Bene, grazie a Dio”.
Anche gli altri ragazzini non sono da meno in cortesia. Il mio dialetto assanya non mi consente di lanciarmi nei grandi giri di parole che i Saharawi fanno per salutarsi. Alcuni momenti non sono sicura che ascoltino le risposte l’uno dell’altro!

“Salam ale cum” mi sussurrano timidi: “Buongiorno!”
“Ale cum salam” rispondo sorridendo: “Buongiorno a voi!”
“S’kif kaima?” domandano: “Come stanno a casa?” Sono nel panico. Non posso interrompere così i saluti.
“Le bess! S’kif fuma?” dico, mentre guardo disperata Maima, che ride. È l’ultima frase di convenevoli che conosco: “Bene! Come sta la mamma?”
La mia amica ha detto qualcosa che non capisco, ma che sortisce i suoi effetti. I piccoli si ritengono soddisfatti della nostra conversazione e delle caramelle che ho distribuito per farmi perdonare della scarsa loquacità e si siedono in silenzio vicino a noi.

Il the nel deserto

Maima aggiunge ancora zucchero nel bricco blu. Mentre parlava, ha continuato a travasare il tè da un bicchiere all’altro: dall’alto in basso; con movimenti decisi e veloci, perché la schiuma si addensi in minuscole bollicine. Spero che riprenda il suo racconto e che i bambini non la disturbino, ma evidentemente sono abituati e si accoccolano sotto le coperte, attenti, con gli occhi sgranati.

“Non lasciavo nessun amore, nessun affetto lì. Il mio unico amore era la Causa. Ma prima di partire ho pianto per tre giorni a Cuba. Siamo tornati in sette. Siamo arrivati all’aeroporto di Madrid. Avevamo la coincidenza per Algeri dopo ventiquattro ore, ma non ci hanno fatto uscire dall’aerostazione perché non avevamo un passaporto valido: i Saharawi non esistono per la comunità internazionale. Non avevamo soldi per comprarci da mangiare e abbiamo bevuto l’acqua dei rubinetti dei bagni.

Finalmente siamo arrivati a Tindouf. Era agosto. Appena scesa dall’aereo ho pensato di essere in un forno. Poi ho creduto che il caldo venisse dai motori dall’aereo. Non riconoscevo nulla intorno a me. Cercavo il verde e vedevo solo il rosso del deserto. A Rabouni, il Presidente ci ha accolto come eroi: tanti bei discorsi e una grande festa. Mi hanno concesso un mese di vacanza, a casa. Poi sarei dovuta tornare e lavorare per il popolo. Alla kaima non riconoscevo più la mia famiglia. Tutto mi sembrava strano. Non sopportavo la sabbia, gli odori. Non ero abituata al cibo. Il secondo giorno mi venne un forte attacco di diarrea perché l’acqua era terribile. Non sapevo indossare la melfa, non sapevo fare il tè, non sopportavo la terra nei vestiti. Non riuscivo a dormire sul tappeto. Non c’era luce elettrica e acqua corrente. La gente che incontravo per strada mi riconosceva subito per come indossavo la melfa: “Ecco quella che viene da Cuba!” Quando c’incontravamo tra studenti facevamo discorsi che qui non sono considerati normali: si parlava di sesso, di contraccettivi; di feste, di musica e balli. Puoi capire com’è stata dura per me? Ora sono rientrata nella mia dimensione e tutta la mia vita, qui, mi sembra normale! La sabbia, nei piedi o nelle orecchie, non m’ infastidisce più.

Dopo un mese sono tornata a Rabouni, di nuovo lontana da casa. Ho iniziato a lavorare nella MINURSO, la missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale. Facevo tutto, tranne l’ingegnere! Ero delusa, ma sapevo che chi vive e muore nei campi del deserto per la Causa è un martire. Un eroe. Con altri ingegneri abbiamo creato la prima Associazione saharawi di telecomunicazioni e abbiamo creato la prima pagina web dagli accampamenti.
Alcuni anni fa mi hanno dato l’opportunità di accompagnare un gruppo di bambini saharawi alle Canarie. Ho accettato e in quei due mesi ho conosciuto alcuni professori dell’Università che mi hanno proposto un dottorato di ricerca in tecnologia delle comunicazioni avanzate. Ero felice. Un’associazione spagnola mi ha fatto avere una borsa di studio. Appena tornata a Rabouni ho richiesto urgentemente il visto e sono partita. Andavo all’università con il mio velo. Avevo otto colleghi, ero l’unica donna. I professori mi stimavano molto. Dopo tre mesi è venuta la polizia: dovevo lasciare il paese immediatamente perché avevo un visto da turista e non per motivi di studio. I professori e l’associazione umanitaria hanno fatto di tutto per aiutarmi, ma non c’è stato niente da fare. Ho chiesto di nuovo il visto, ma me l'hanno rifiutato a causa della precedente espulsione. Ho perso il dottorato, la borsa di studio e tutta la mia carriera. Sono tornata a Dajla.

Sono entrata a far parte dell’Unione delle donne saharawi. Ho detto loro che non mi sarei rassegnata a stare ferma ad aspettare. Con due computer ho creato la prima aula d’informatica. Facevo lezione a due gruppi di donne, a turno, sei giorni alla settimana. Tutte riponevano le loro speranze in me. I due computer erano vecchissimi, ma per loro era un mondo nuovo. Le guardavo mentre si entusiasmavano davanti agli schermi, alla modernità. Sapevo usare pochi programmi, ma erano sufficienti perché mi considerassero una professoressa! Visto il successo e l’impossibilità di accontentare tutte le richieste per partecipare ai corsi, l’Unione delle donne saharawi decise di costruire la scuola e mi nominò direttrice.

Mi sono sposata e ho avuto una bambina, Hamazale. La seconda figlia è morta prima di nascere, per il troppo caldo. Oggi sono qui. Parlo a mia figlia e ai miei nipoti. Parlo ai giovani che sono nati qui e non hanno il ricordo della Patria. Il dovere di chi ha scelto l’esilio, di chi ha visto i propri padri, fratelli, mariti e amici morire per la libertà del proprio popolo è tenere viva la memoria. Costruire il ricordo. Creare la speranza di tornare, un giorno, nella nostra terra. La terra che è dei Saharawi. La nazione, la Repubblica Araba Saharawi Democratica, che gli Stati africani hanno riconosciuto, ma che le nazioni che contano ignorano. L’Onu ha emanato già sei risoluzioni per il referendum sul diritto all’autodeterminazione. Aspettiamo. Sono trent’anni che aspettiamo! Siamo un piccolo popolo e nessuno ci conosce. La nostra storia non fa notizia. Noi siamo musulmani, siamo contro ogni forma di violenza e d’integralismo. Ai nostri figli insegniamo la Pace e a lottare con lo studio e il lavoro per ottenerla e mantenerla.”

Mi porge l’ultimo bicchierino. Il terzo tè è dolce. Dolcissimo.

Il Vecchio, che ieri abbiamo accompagnato al Cimitero degli Eroi, e che ha chiuso gli occhi con l’amaro sapore dell’attesa sulle labbra, l’avrebbe trovato soave come la morte?

Poggio il bicchiere sul tappeto. Maima si scopre il viso. Ci guardiamo. Anche la morte può essere soave.

Fuori il sole è una palla di fuoco che incendia il cielo. Il vento continua i suoi giochi con la sabbia. Il grido delle donne è più forte, ma questa volta mi sembra un pianto.

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