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Un’altra storia è possibile

A scuola è necessario rivisitare la storia e riscriverla dal punto di vista della nonviolenza. Le principali scuole di storiografia in Italia non lo hanno fatto, ma ora è venuto il momento
10 luglio 2003

Nel libro “Con il mondo a scuola” (1) è citato il caso di un preside americano che all’inizio di ogni anno scolastico scriveva ai suoi insegnanti questa lettera: “Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini uccisi con veleno da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido - quindi - dell'educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l'aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani”.
Anche la storia rientra in questo discorso educativo: se non serve a rendere più umani gli studenti è meglio non studiarla. Se la storia deve essere un esercizio di assuefazione alle guerre, alla logica della violenza e della sopraffazione allora la storia è intossicazione mentale e diviene più che mai attuale il grido del Salvatore Quasimodo: “Dimenticate i padri” (2).
L’ovvietà della violenza e della sopraffazione – per fini cattivi o peggio ancora per fini “buoni” – è stata purtroppo per lo più accettata dalla storiografia di destra, di centro e di sinistra. Che fare di fronte a questo sconfortante panorama culturale e pedagogico?
Occorre onestamente prendere atto che lo studio della storia in ultima analisi non è servito a comprendere gli errori della storia stessa. Non ha prodotto in definitiva alcun beneficio. Se si pone su un grafico cartesiano il progresso del tempo (ascissa) e il numero di vittime (ordinata) provocate dalle guerre si noterà che il progresso del tempo (e della scolarizzazione) è correlato ad un innalzamento delle vittime (in particolare quelle civili): ciò significa che la scuola, la cultura, gli intellettuali hanno in definitiva per lo più fallito in quanto ad un progresso tecnico e culturale (l’alfabetizzazione e la scolarizzazione) ha parallelamente corrisposto un regresso umano. Questo fallimento non è da addebitare agli studenti o agli insegnanti, ma tocca il mestiere degli stessi storici, riguarda in particolare chi scrive i manuali. Se con il passare degli anni si riscontrasse nella cronaca storica un aumento percentuale degli incidenti degli aerei, gli ingegneri sarebbero sotto accusa e i manuali di meccanica andrebbero riscritti. Gli scienziati sarebbero portati a chiedersi: a che sono serviti gli studi e gli esperimenti fatti se l’esperienza pratica ci indica che più ricerchiamo e più gli aerei cadono? Oggi gli storici e i politici sono ormai abituati a registrare l’inutilità dell’esperienza storica come esperienza di apprendimento dagli errori; sono talmente abituati all’inutilità dello studio della storia da non porsi neppure la domanda del perché non derivi dalla memoria storica “come risultante finale” un insegnamento che migliori il futuro ed eviti agli uomini di ricascare negli stessi errori del passato. Persino il moscerino - documenta Piero Angela - è in grado di apprendere dall’esperienza e di non imboccare per la seconda volta il percorso che lo porta verso il veleno.
Ritorniamo allora alla domanda: che fare?
E’ venuto il momento di riscrivere la storia, di riconcepirla, di riconsiderare la memoria del passato non per fomentare questa o quella crociata di giustizia ma per comprendere un’altra storia è possibile. Il fallimento del marxismo sta proprio qui: ha pensato che un’altra storia fosse possibile promuovendo l’indignazione morale e proseguendo i propri fini di riscatto degli oppressi anche sul terreno dell’uso della violenza, riconvertendo la “malvagità” della violenza a fini “buoni”. Non diversa è la posizione delle guerre “umanitarie” del Pentagono, approvate anche da intellettuali che del marxismo oggi si sono “pentiti” ma che in ultima analisi non si sono mai ricreduti sul nodo cruciale di fondo: la necessità di usare mezzi “cattivi” per ottenere fini “buoni”. Secondo questa logica un mezzo che intende raggiungere fini buoni, anche se appare malvagio, si trasfigura nel suo opposto: diventa giusto. E malvagio diventa chi lo critica perché, opponendosi all’apparente malvagità si opporrebbe in realtà alla bontà dei fini auspicati, alla giustizia infinita che la malvagità (trasfigurata in bontà) promette. Per combattere il Diavolo occorre in tale logica allearsi con un Diavolo più potente e, se necessario, più crudele. Occorre quindi mettere da parte la bontà, l’umanità, il senso del rimorso e lo spirito del dubbio stesso: occorre in una parola mettere tra parentesi la coscienza. Non solo. Questa logica cozza con l’attitudine scientifica al dubbio oltre con gli scrupoli umanitari che agitano la coscienza di ogni uomo dotato di onestà intellettuale. Questa logica presa in esame fa tacere il dubbio e quindi la stessa essenza del metodo scientifico, espressa da Cartesio nel Discorso sul metodo (dubbio metodico) e da Galileo sulla lotta agli aristotelici che prescindevano dalla verifica sperimentale. L’intima essenza dello spirito sperimentale e della metodologia scientifica viene meno eludendo la necessità di scrivere la storia nella nonviolenza e considerando come unica realtà degna di studio la storia della violenza. Così procedendo la storia della violenza la si accetta come indubbiamente efficace, e tanto basta a costruire un nuovo aristotelismo che prescinde dalla verifica. Accettando l’intrinseca necessità e utilità della violenza alla fine il dibattito si sposta solo se l’efficacia della violenza sia stata messa al servizio di scopi positivi (come per la sconfitta del nazismo nella seconda guerra mondiale) o per scopi negativi (ad esempio la violenza dei nazisti verso gli ebrei).
In buona sostanza questo impianto storico e storiografico per giustificare la sua bontà esperienziale richiede un atto di fede: la fede nella violenza per scopi umanitari. E’ un metodo storico che non richiede un processo di verifica: la verifica per controllare se è documentabile storicamente sempre e comunque che con mezzi cattivi si raggiungano effettivamente risultati buoni. Si consenta di usare questo schematismo un po’ manicheo nella terminologia (“buoni”, “cattivi”, “malvagi”) ma è meglio essere provocatoriamente schematici piuttosto che poco chiari o vagamente allusivi. E per chiarezza massima non è superfluo ricordare quanto sosteneva Gandhi, ossia che i mezzi stanno al fine come i semi al frutto e che da semi cattivi non nascono frutti buoni: è il rovesciamento del Machiavelli su cui Gramsci scrisse alcuni suoi Quaderni e sui quali si sono formati in buona parte gli intellettuali di sinistra di oggi.
Il realismo gramsciano e leninista che portò all’accettazione dei mezzi della borghesia - persino il taylorismo della catena di montaggio o poi oltre dell’energia nucleare - ha fatto scuola ad un’intera generazione di intellettuali che oggi è “pentita” in quanto “sconfitta”; essa ha ritenuto conveniente non tanto studiare le ragioni della sconfitta quanto issarsi sul carro dei vincitori con la stessa cassetta di attrezzi intellettuali fatta di realismo finalizzato all’efficacia, al successo e alla vittoria. Una cultura orientata alla vittoria in tempi rapidi deve essere efficace e per essere efficace deve essere realista e deve scendere a patti anche con mezzi che ripugnano alla coscienza. Quegli intellettuali che ieri non si facevano commuovere dai rapporti di Amnesty International sull’Urss oggi non battono ciglio sui rapporti di Amnesty International sulle “guerre umanitarie”. E’ la vita, è la realtà, dicono: la realtà effettuale va compresa, accettata e usata per i nostri fini come una legge scientifica, non giudicata come la vorrebbe la nostra coscienza. La guerra, la violenza e la sopraffazione sono realtà effettuale su cui indagare come la forza di gravità o la legge di Ohm e da cui trarre vantaggio per fini che convengano all’umanità. Questo è il pensiero unico che sostanzialmente unificò in passato la cultura storiografica e che ancora oggi unifica tutti gli storici che non vogliano passare per eretici o visionari.
Nella storia è prevalso il principio di economia per il quale un problema ritenuto irrisolvibile non è un problema; ritenendo impossibile cambiare la storia con la nonviolenza, molti storici hanno ignorato il problema, non se lo sono neppure posto in termini di ricerca. Ecco perché oggi dobbiamo riscrivere i libri di storia (3). Se non lo fanno gli storici cominciamo noi insegnanti con i nostri studenti, come fece don Lorenzo Milani con i suoi.
Non è inutile, per concludere, che si ripetano sempre a scuola - troppo spesso distratti dalla burocrazia della programmazione didattica - le parole di quel preside americano con cui abbiamo iniziato: “Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani”.

Alessandro Marescotti
Docente di Italiano e Storia

(1) Maria Teresa Tarallo, “Con il mondo a scuola”, edizioni Multimage (per informazioni turquet@dada.it )
(2) Salvatore Quasimodo, “Uomo del mio tempo”
(3) Una bozza di riscrittura, dal titolo “Per una storia della nonviolenza e dei diritti umani”, è contenuta nel sito di PeaceLink all’indirizzo http://www.peacelink.it/pace2000

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