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Recuperare la mia umanità

Un testo del militare condannato alla reclusione per non aver voluto partecipare alla guerra contro l'Iraq
23 marzo 2005
Camilo Mejía
Fui inviato in Iraq nell'aprile del 2003 e nell'ottobre tornai negli Stati Uniti con una licenza di due settimane. Tornare a casa mi diede l'opportunità di rimettere in ordine i miei pensieri ed ascoltare quello che la mia coscienza mi diceva. La gente m'interrogava circa le mie esperienze di guerra e rispondendo ne rivivevo tutti gli orrori: le sparatorie, le imboscate, la volta che vidi come trascinavano per le spalle un giovane iracheno in una pozzanghera del suo stesso sangue o quando il fuoco delle nostre mitragliatrici strappò la testa ad un innocente. La volta che presenziai al crollo emozionale di un soldato perché aveva ammazzato un bambino, o quando un anziano cadde in ginocchio e gridava, alzando le braccia al cielo, come domandando a Dio perché ci eravamo portati via il corpo senza vita di suo figlio.
Pensai alla sofferenza di un popolo la cui patria era in rovine e per giunta era sottoposto a nuove umiliazioni per gli edifici rasi al suolo, le retate ed i coprifuoco di un esercito d'occupazione.

Mi accorsi che nessuna delle ragioni che ci avevano fornito per stare in Iraq era vera. Non c'erano armi di distruzione di massa. Non c'erano legami tra Saddam Hussein ed Al Qaeda. Non aiutavamo il popolo iracheno e questo non ci voleva avere laggiù. Non preveniamo il terrorismo né rendiamo più sicuro il nostro paese. Non potei trovare una sola ragione per essere stato là, sparando contro la gente ed essendo a mia volta bersaglio.

Venire a casa mi fornì la chiarezza necessaria per vedere la linea di demarcazione tra il dovere militare e l'obbligo morale. Mi resi conto di essere parte di una guerra che mi sembrava immorale e criminale, una guerra d'aggressione, una guerra di dominazione imperiale. Mi resi conto che agire secondo i miei principi risultava incompatibile con la mia funzione nell'esercito, e conclusi che non potevo tornare in Iraq.

Deponendo la mia arma scelsi di riaffermarmi come essere umano. Non ho disertato dall'esercito né sono stato sleale con gli uomini e le donne dell'esercito. Non sono stato sleale con la patria. Solamente sono stato leale con i miei principi.

Quando mi consegnai, con tutte le mie paure ed miei dubbi, non lo feci unicamente per me. Lo feci per il popolo dell'Iraq, perfino per gli iracheni che mi avevano sparato: essi stavano solo dall'altro lato di un campo di battaglia, nel quale la guerra stessa è l'unico nemico. Lo feci per i bambini dell'Iraq che sono vittime delle mine e dell'uranio impoverito. Lo feci per le migliaia di civili sconosciuti che sono morti nella guerra. Il tempo della mia permanenza in prigione è un prezzo minimo, comparato con quello che iracheni e statunitensi hanno pagato con la loro vita. Un prezzo minimo comparato con quello che l'umanità ha pagato per la guerra.

Molti mi hanno chiamato codardo, altri mi definiscono eroe. Credo mi si possa trovare in un qualche punto nel mezzo. A chi mi ha chiamato eroe dico che non credo negli eroi, ma sì credo che persone ordinarie possano fare cose straordinarie.

A chi mi chiama codardo dico che si sbaglia e che, senza saperlo, ha anche ragione. Si sbagliano a credere che lasciai la guerra per paura che mi ammazzassero. Riconosco che avevo paura, però c'era anche il timore di ammazzare innocenti, di collocarmi nella posizione di dover ammazzare per sopravvivere, di perdere la mia anima nel cercare di salvare il mio corpo, di perdermi per mia figlia, per la gente che mi ama, per l'uomo che prima fui, l'uomo che voglio essere. Avevo paura di svegliarmi un mattino e rendermi conto che la mia umanità mi aveva abbandonato.

Affermo, senza alcun orgoglio, che svolsi il mio incarico come soldato. Comandai un battaglione di fanteria in combattimento e non smettemmo mai di compiere la nostra missione. Ma chi mi chiama codardo, senza saperlo, ha anche ragione. Fui vigliacco non per aver lasciato la guerra, bensì per essere stato parte di essa all'inizio. Oppormi alla guerra e resisterle era il mio dovere morale, un dovere che mi chiamava a realizzare un'azione basata su principi. Invece del mio dovere morale come essere umano, optai per compiere il mio dovere di soldato. Tutto perché ebbi paura. Ero atterrito: non volevo affrontare il governo e l'esercito, temevo il castigo e l'umiliazione. Andai in guerra perché in quel momento ero un codardo, e per quel motivo chiedo perdono ai miei soldati, per non essere stato leader in ciò che avrei dovuto essere.

Chiedo anche perdono al popolo iracheno. Ad esso dico che deploro i coprifuoco, gli edifici rasi al suolo, le carneficine. Spero che trovino nei loro cuori il perdono per me.

Una delle ragioni per le quali non m'opposi alla guerra all'inizio, fu perché avevo paura di perdere la mia libertà. Oggi, seduto dietro le sbarre, mi rendo conto che esistono vari tipi di libertà, e che a dispetto del mio confinamento, continuo ad essere libero in molte forme importanti. A cosa serve la libertà se abbiamo paura di seguire i dettami della nostra coscienza? A cosa serve se non siamo capaci di vivere con le nostre azioni? Sono confinato in una prigione, ma mi sento più connesso che mai con tutta l'umanità. Dietro queste sbarre sono un uomo libero, perché ho ascoltato un potere superiore: la voce della mia coscienza.

Mentre ero confinato nell'isolamento totale, trovai un poema di un uomo che rifiutò e resistette il governo della Germania nazista. Per questo fu messo a morte. Si chiamava Alfred Hanshofer e scrisse questa poesia mentre aspettava l'esecuzione.

Colpa

Il peso della mia colpa di fronte alla legge
è leggero sulle mie spalle; cospirare
era mio dovere per e con il popolo:
al non essere tale sarei stato un criminale.

Sono colpevole, ma non nella forma che credono.
Avrei dovuto compiere il mio dovere prima, feci male;
avrei dovuto chiamare il male col suo nome,
ho vacillato troppo tempo nel condannarlo.

Adesso mi accuso col cuore:
ho tradito la mia coscienza per troppo tempo,
ho ingannato me stesso ed il mio prossimo.

Fin dal principio conoscevo la strada che il male seguiva,
la mia attenzione non fu abbastanza forte e chiara!
Oggi so di che cosa fui colpevole...

A coloro che ancora tacciono, a coloro che persistono nel tradire la propria coscienza, a coloro che non chiamano con chiarezza il male col suo nome, a noi che non facciamo ancora quanto basta per rifiutare e resistere, dico "fate un passo avanti", dico "liberate le vostre menti". Liberiamo collettivamente la nostra mente, inteneriamo il nostro cuore, confortiamo i feriti, deponiamo le armi, e riaffermiamoci come esseri umani ponendo fine alla guerra.

Camilo Mejía è figlio del leggendario compositore sandinista nicaraguense Carlos Mejía Godoy (vedere intervista in Masiosare: Camilo Mejía: "Teníamos orden de torturar a los prisioneros", 9/05/2004), ha trascorso più di sette anni nell'esercito ed otto mesi combattendo in Iraq. Durante una licenza militare ha richiesto lo status di obiettore di coscienza ed è stato dichiarato prigioniero di coscienza da Amnesty International. L'esercito statunitense lo ha condannato alla prigionia per essersi rifiutato di ritornare in guerra in Iraq. Lo scorso 15 febbraio è stato posto in libertà.

Note: Traduzione dall'inglese di Jorge Anaya
Traduzione dallo spagnolo a cura del Ccdp

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