Le scienze per la pace e la formazione al metodo nonviolento
Il tempo è maturo anche in Italia per la pubblicazione di una rivista scientifica di studi per la Pace.
Nel 1998 l'approvazione della legge n.230, che detta nuove norme in materia di obiezione di coscienza, ha aperto un varco importante verso la sperimentazione e l'istituzione di forme di "difesa civile, non armata e nonviolenta" (1).
Nell'anno accademico 2001-2002 l'attivazione presso l'Università di Pisa di un corso di laurea in Scienze per la Pace, e a Firenze di un corso per Operatori di Pace (2) offre l'opportunità per un lavoro sistematico di studio e formazione di personale capace nei compiti della trasformazione nonviolenta dei conflitti.
Il Movimento per la Pace ha di fronte a sé il compito di acquisire, così come aveva auspicato nel 1992 l'Agenda per la Pace di Boutros-Ghali (3), capacità funzionali alternative agli eserciti e agli armamenti nel compito della difesa, della gestione delle crisi internazionali e della costruzione della Pace.
In questa ottica abbiamo sentito impellente l'urgenza di uno strumento di formazione, dibattito e ricerca sul metodo nonviolento per risolvere-trasformare-trascendere i conflitti (4).
Alla prima pubblicazione in italiano di una rivista scientifica che faccia riferimento alla Nonviolenza e agli Studi per la pace arriviamo con un ritardo quasi cinquantennale rispetto all'Europa del Nord e agli Stati Uniti, che hanno avuto come battistrada studiosi della levatura di Kenneth Boulding, Anatol Rapoport, Gene Sharp, Johan Galtung. Ai loro studi e ai loro insegnamenti noi vorremo attingere a piene mani.
È bene, perciò, rivisitare le fasi dello sviluppo dei Peace Studies per ricongiungerci consapevolmente al percorso già compiuto.
Le origini e la storia dei Peace Studies.
Nella recente Encyclopedia of Violence, Peace & Conflict (1999), Carolyn M. Stephenson (5) ci offre una immagine il più possibile estensiva dei Peace Studies, definiti come "un campo interdisciplinare che abbraccia la ricerca sistematica e l'insegnamento riguardante le cause della guerra e le condizioni della Pace. Focalizza l'attenzione sulle cause che fanno crescere o decrescere la violenza, sulle condizioni associate a questi cambiamenti e sui processi per cui questi cambiamenti accadono." (6)
La storia dei Peace Studies è ricca e complessa a livello mondiale, strettamente intrecciata alle vicende più drammatiche del XX secolo. L'impulso a studiare le cause della guerra e a cercare i modi per scongiurarla ebbe origine dalle tragedie della prima e della seconda guerra mondiale. I primi precursori, spinti da forti istanze etiche e religiose (erano spesso quaccheri, tolstoiani, o comunque cristiani di gruppi minoritari strenuamente fedeli alla nonviolenza evangelica), si posero il problema di studiare la guerra per prevenirla, perché la guerra non è una maledizione divina, ma in quanto prodotto della storia umana può essere evitata.
I lavori di Lewis Richardson (1919 e successivi) (7), Pitirim Sorokin (1937) (8), Quincy Wright (1942) (9), vanno annoverati tra i primi seri tentativi di indagare con un rigoroso metodo scientifico le cause della guerra e della corsa agli armamenti.(10)
Contemporaneamente, sotto la spinta del movimento dei lavoratori e delle lotte dell'India contro il colonialismo, alcuni scienziati sociali cominciarono ad interrogarsi sulle tecniche di lotta e a studiare la nonviolenza in quanto meccanismo di cambiamento sociale. Tra i più significativi ricordiamo gli studi di Laidler (1913) sul boicottaggio come forma di lotta dei lavoratori (11), di Hiller (1928) sullo sciopero (12), di Crook (1931) sullo sciopero generale (13). Altri studiosi rivolsero la loro attenzione all'esame del satyagraha gandhiano. Clarence Marh Case (in seguito professore di sociologia alla State University of Iowa) quando era ancora studente all'Università del Wisconsin nell'estate precedente la I guerra mondiale, su suggerimento del prof. Edward A. Ross, si dedicò allo studio della Resistenza Passiva i cui risultati pubblicò nel volume Non-Violent Coercion (1923) (14).
Sempre negli Stati Uniti Richard Gregg (1885-1974) pubblicò The Power of Nonviolence (15) (1935) che diventò presto un classico per tutti i pacifisti nonviolenti con innumerevoli ristampe. Il suo concetto del "moral jiu-jitsu", che spiega l'effetto dell'azione nonviolenta sugli avversari, ha profondamente influenzato l'opera di Gene Sharp e Charles C. Walker. Più tardi nel 1937 Gregg pubblicò Training for Peace (16) in cui ritroviamo esposto con chiarezza il valore del metodo nonviolento che lega i mezzi ai fini.
Su questo tema una riflessione fondamentale venne da uno scrittore di successo come Aldous Huxley, con il suo libro Ends and Means (17) anch'esso del 1937, che affrontava dal punto di vista della filosofia morale il nesso inscindibile tra i fini e i mezzi, che è il cuore del pensiero nonviolento.
Ancora un giovane sociologo indiano, Krishnalal Shridharani (1911-1960), che aveva partecipato personalmente alla marcia del sale, analizzò nei dettagli il Satyagraha, pubblicando nel 1939: War Without Violence (18). L'approccio di Shridharani allo studio della nonviolenza come tecnica di azione sociale ebbe un'importante funzione pionieristica rispetto ai successivi più elaborati studi di Sharp e di Bondurant.
Sull'efficacia della lotta nonviolenta e sulla forza potenziale che il popolo unito può esprimere, Barthélemy de Ligt (19) (1883-1938), sociologo olandese pacifista e antimilitarista, pubblicò libri fondamentali come La Paix créatrice (20) in due volumi (1934) e Pour vaincre sans violence (21) (1935), che ebbe un buon successo di lettori e fu tradotto anche in inglese (22). Su temi consimili va, inoltre, segnalata l'uscita in Danimarca del libro di un tedesco e due danesi Kamp Uden Vaaben (Lotta senza Armi) (23).
De Ligt documentò la forza universale della nonviolenza, specialmente nella resistenza alla guerra. Preparò un "Plan of Campaign against All War and All Preparation for War", presentato alla conferenza internazionale della War Resisters International che si svolse a Welwyn (Inghilterra) nel luglio 1934. Allo scopo di promuovere la teoria e la pratica dell'azione nonviolenta fondò con sua moglie la Peace Academy, che tenne il suo primo meeting vicino Parigi nell'agosto 1938. La sua lezione inaugurale dedicata a "The Science of Peace", che non poté tenere a causa della grave malattia che lo stava portando alla morte (avvenuta a Nantes, il 3 settembre 1938), può essere considerata un testamento profetico che annuncia l'emergere dei Peace Studies.
Nonostante questa lunga e ricca storia dei precursori, gli storici sono, però, concordi nel fissare ai decenni successivi alla seconda guerra mondiale la nascita dei Peace Studies come disciplina riconoscibile con un suo statuto epistemologico, con la creazione di appositi istituti di ricerca e la pubblicazione di riviste specialistiche (24).
Il primo centro, il Peace Research Laboratory (tuttora attivo), fu fondato nel 1945 a St. Louis (Missouri), da Theodor F. Lentz, docente di pedagogia all'Università di Washington, sull'onda emotiva del bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki. Nelle intenzioni programmatiche del prof. Lentz leggiamo l'impegno a che i principi della scienza moderna siano applicati alla ricerca delle cause della guerra e delle condizioni necessarie alla pace (25).
L'Unesco, iniziando un impegno encomiabile a favore della cultura della pace che prosegue tuttora, inseriva nei suoi programmi lo studio sistematico delle tensioni psicologiche e sociali legate ai conflitti. Alla seconda assemblea generale dell'Unesco che si tenne nel 1947 a Città del Messico fu dato vita al Tension Project col proposito di studiare le tensioni che causano le guerre. Uno dei primi frutti fu la pubblicazione dello studio collettivo Tensions that Cause Wars opera di otto tra i più rinomati scienziati sociali che durante il 1949 si raccolsero a Parigi attorno alla figura di Handley Cantril (26).
Negli Stati Uniti Arthur Gladstone e Herbert Kelman (27) pubblicarono una lettera sul numero di aprile 1951 di American Psycologogist, in cui auspicavano di valutare gli atteggiamenti e le decisioni di politica estera alla luce delle conoscenze psicologiche.
Raccolsero, così, intorno a sé un gruppo di studiosi interessati a ricercare alternative alla guerra per risolvere le controversie internazionali, prendendo il nome di Research Exchange on the Prevention of War che per qualche anno pubblicò regolarmente il "Bulletin of the Research Exchange on the Prevention of War". Si noti la scelta di appellarsi alla prevenzione della guerra, piuttosto che esplicitamente alla pace, allo scopo di evitare l'ostilità alimentata dall'ondata maccartista allora montante.
L'incontro negli anni `54-'55 tra Kelman e studiosi del valore di Kenneth Boulding, Anatol Rapoport e Stephen Richardson (28) portò alla fondazione nel 1956, presso l'Università del Michigan, del Center for Research on Conflict Resolution. A cura del Centro fu promossa nel '57 la pubblicazione della prima rivista tematica sulla pace : il Journal of Conflict Resolution : A Quarterly for Research Related to War and Peace. (29)
Una spinta all'impegno degli scienziati contro la guerra venne dal "Manifesto Russel-Einstein" del 1955, che fu sottoscritto in breve tempo da migliaia di scienziati di tutto il mondo. Il Manifesto fu la base per la nascita delle Pugwash Conferences on Science and World Affairs (30). Pur non essendo un'organizzazione che realizzava direttamente ricerche sulla pace, dal 1957, anno di nascita del movimento, sono stati ormai centinaia i simposi di Pugwash dedicati agli armamenti moderni e alle politiche per il disarmo, promuovendo una sensibilità e un interesse del mondo scientifico per queste tematiche.
Negli anni della guerra fredda i Peace Studies si svilupparono in contrapposizione alla "teoria realista" delle relazioni internazionali, che giustificava l'equilibrio del terrore e la minaccia nucleare della Mutua Assicurata Distruzione (MAD).
Rifiutando il detto latino, Si vis pacem para bellum, una giovane generazione di studiosi si faceva avanti propugnando un nuovo approccio per risolvere i conflitti tra i gruppi e le nazioni. Essi ingaggiarono, secondo l'espressione di Peter Wallentsteen, una battaglia con Machiavelli e la sua eredità, (31) svelando l'ideologia ingannevole sottesa alla teoria realistica delle relazioni internazionali. Wallentsteen enumera sei assunti di base da confutare:
1- La violenza è onnipresente e inevitabile.[…]
2- La violenza è strumentale al successo nella sfera del potere.[…]
3- In politica la violenza è la fonte decisiva di potere[…]
4- I conflitti sono risolti per mezzo del potere e della violenza. […]
5- Lo stato e il governo sono gli attori primari per importanza. […]
6- Lo stato è indipendente di fronte agli altri stati[…]. (32)
La sfida degli studiosi per la Pace si situava sul terreno della ricerca di una nuova razionalità.
Innanzitutto essi favorirono una diversa percezione del conflitto, che fino a quel momento veniva comunemente inteso come sinonimo di guerra e disordine (33).
Riprendendo alcune intuizioni di Georg Simmel (34), Coser enfatizzava la funzione integrativa del conflitto (35), scoprendo nel conflitto l'elemento relazionale fondamentale, la forma costitutiva della società.
Nello stesso tempo la Teoria dei giochi, famoso è il cosiddetto dilemma del prigioniero, nata in ambito economico, venne utilizzata da Schelling (36), Rapoport (37), Boulding (38), per valutare l'evoluzione dei rapporti tra Est e Ovest, e spiegare con il ricorso alle tecniche del "problem solving" che i conflitti non necessariamente sono del tipo a "somma zero", per cui le ragioni di una parte debbano affermarsi a danno dell'altra. L'uso della teoria dei giochi applicata ai conflitti internazionali, come ha riconosciuto Håkan Wiberg contribuì a chiarire alcuni concetti chiave come "razionalità", "equità", "utilità" (39), favorendo visioni capaci di illuminare i "decisori" politici rispetto alle scelte tra riarmo/disarmo, e ai comportamenti da mantenere nelle situazioni di crisi.
Rispetto alla visione arroccata degli stati-nazione emergeva un nuovo concetto di "sicurezza comune", che da Deutsch e altri (40) veniva argomentato facendo ricorso alle teorie sociologiche della scelta razionale (rational choise theory) e dello scambio di Homans.
L'irrazionalità della deterrenza veniva efficacemente contrastata anche dagli strateghi più avvertiti del pensiero militare come King-Hall (41) e Liddell Hart (42) che dimostrarono come le moderne armi di distruzione di massa avessero messo fuori gioco ogni reale e praticabile strategia di difesa dei territori e delle popolazioni. Bisognava cercare altre strade, e le loro riflessioni diedero un impulso allo studio di forme alternative, non armate, di difesa. Nel 1964 si svolse a Oxford la prima Civilian Defence Study Conference che riunì 25 specialisti tra psicologi, sociologi, storici, strateghi militari di differenti paesi per discutere la possibilità di applicare la resistenza nonviolenta al tema della difesa (43).
Negli anni cinquanta montò l'interesse a studiare in modo sistematico le campagne Satyagraha di Gandhi, producendo studi che sono rimasti insuperati nel loro genere. Joan Bondurant (44), il giovane Sharp (45), Arne Naess e il suo allievo Johan Galtung (46) ne indagarono le norme, il metodo e le tecniche, verificando come l'atteggiamento verso il conflitto è decisivo per avviare soluzioni creative e nonviolente. Il movimento per i diritti umani sviluppatosi negli Stati Uniti intorno alla figura di Martin Luther King ispirò lo nascita di numerosi laboratori, i cosiddetti Training programs, per la formazione al metodo nonviolento. L'attivazione di tali laboratori portò alla pubblicazione di numerosi manuali dedicati all'organizzazione dell'azione diretta nonviolenta (47).
Da questa panoramica ad ampio raggio sulla prima generazione dei Peace Studies appare in tutta evidenza che quella che si andava a costruire non era una "metateoria" sui conflitti e la pace. Piuttosto, come ha scritto Galtung, l'approccio era di farsi guidare dal problema (48) per utilizzare e rivisitare liberamente le diverse teorie esistenti, prendendo ciò che è utile prendere, senza preclusioni o pregiudizi, ma anche senza alcun giuramento di fedeltà a una scuola specifica. Interessante è, comunque, quanto scrive la Stephenson (49) a proposito delle differenze marcate dai Peace Studies rispetto ai precedenti corsi di scienze politiche. Innanzitutto i Peace Studies indagano le relazioni violenza-pace in tutti gli ambiti, dal locale al globale, dalla violenza individuale a quella dei gruppi e delle nazioni, mentre le relazioni internazionali limitavano l'interesse ai soli rapporti tra Stati.
La scelta di un approccio olistico introduceva a una multidisciplinarità che mancava nella tradizione delle Relazioni Internazionali. I Peace Studies, infatti, integrano le scienze sociali e quelle umane con i metodi e le conoscenze delle scienze matematiche, fisiche e naturali. Le grandi questioni del mantenimento e della costruzione della Pace vanno ben oltre i confini delle relazioni tra Stati-nazione. Infatti un conflitto che ha le sue radici in situazioni di degrado ambientale o nella negazione dei bisogni umani fondamentali interpella, a più livelli, tutte le discipline, al punto che le scienze per la pace (definibili come "scienze applicate", orientate all'impegno ai valori, value_oriented) possono diventare il tema transdisciplinare per eccellenza. Per favorire una tale ricerca, facilitando i contatti e la cooperazione tra gli studiosi di tutto il mondo, nacque nel 1964 l'IPRA (International Peace Research Association) (50) che ebbe tra i padri fondatori John Burton (inglese) e Johan Galtung (norvegese). Sull'esempio delle Pugwash Conferences, l'IPRA convoca periodicamente, almeno ogni due anni, conferenze generali sui temi della Peace Research (51).
A fianco dell'IPRA va anche ricordata la Peace Research Society52 (più tardi denominata "Peace Science") concepita da Walter Izard e altri durante un incontro tenutosi in Svezia nel 1963, anch'essa con lo scopo di coordinare a livello internazionale il lavoro dei ricercatori per la pace.
Di quegli anni va ricordata anche la creazione di tutta una serie di istituti di ricerca. Nel 1959 fu fondato a Dundas (Canada) il Peace Research Institute per opera di Hannah e Alan Newcombe; in Gran Bretagna il Lancaster Peace Research Center (più tardi diventato Richardson Institute), a Oslo all'interno dell'Institute of Social Research prese corpo, per volere di Galtung, il primo nucleo di PRIO (Peace Research Institute, Oslo) che, inizialmente operando come una Section for Research on Conflict and Peace, diventò autonomo nel 1966. Sempre nel '66 vide la luce il SIPRI (Stockholm International Peace Institute), che è tuttora un centro leader per gli studi sugli armamenti e sul disarmo, pubblicando un annuario insostituibile su questi temi.
Intanto incombeva il '68 a segnare una maturazione del dibattito all'interno dei Peace Studies. Il movimento dei diritti civili di Martin Luther King, la lotta contro la guerra in Vietnam, la resistenza nonviolenta di Praga all'invasione sovietica, i sommovimenti anti-coloniali dall'Africa all'America Latina, scuotevano il campo dei Peace Studies, spostando la focale dalla "guerra fredda", tipico conflitto simmetrico tra Est e Ovest, ai cosiddetti "conflitti asimmetrici" tra il Nord e il Sud del mondo.
Grande è stato il dibattito ospitato sul Journal of Peace Research53 per ridefinire i fondamenti dei Peace Studies. Memorabile in particolare fu la polemica tra Kenneth Boulding54, che definiva la ricerca della pace secondo i modi tradizionali come impegno a prevenire la guerra (una visione chiamata "pace negativa"), e Johan Galtung55 che riteneva insufficiente una visione della pace come sola assenza di guerra e denunciava tutte quelle situazioni di violenza strutturale ( lo sfruttamento coloniale, le discriminazioni razziali, la disoccupazione di massa, la morte per inedia), che generano sofferenza e morte, anche senza dover arrivare a una guerra dichiarata. Riconoscendo il mancato appagamento dei bisogni umani fondamentali come causa principale dei conflitti "intrattabili", "ostinati", merito di Galtung fu di aver avviato una riflessione critica sui modelli di sviluppo, prefigurando una modellistica per uno sviluppo umano alternativo capace di associare la pace e la giustizia (la cosiddetta "pace positiva").
Con la sua prospettiva "rivoluzionaria", che denunciava le ingiustizie e spingeva alla trasformazione strutturale, Galtung replicava anche alle critiche che venivano dalla cultura marxista, basti leggere quelle espresse da Herman Schmid56, che sostanzialmente paventavano un approdo conservatore dei Peace Studies, in quanto funzionali, in nome della pace e della soluzione nonviolenta dei conflitti, al mantenimento dello statu quo. Come ribadiva anch Adam Curle (1975), nella sua lezione inaugurale del corso di Peace Studies presso l'Università di Bradford (UK): Lo studio della Pace non è lo studio della pacificazione, della soppressione del dissenso, del mantenimento dello statu quo57. Che la nonviolenza fosse trasformante e rivoluzionaria veniva dimostrato non solo dalla storia, ma anche dalle analisi accurate di quei sociologi, da George Lakey58 a Gene Sharp59, da Louis Kriesberg60 a Paul Wehr61, che si cimentavano in quegli anni a studiare scientificamente i meccanismi della trasformazione nonviolenta dei conflitti.
Negli anni settanta si realizzava anche l'istituzionalizzazione dell'insegnamento dei Peace Studies nelle Università. La prima cattedra fu istituita nel 1971 a Colgate (Stati Uniti), la prima in Europa a Bradford (UK) nel 1973. Nello stesso tempo, significativamente, alcune organizzazioni accademiche e professionali, come l'International Studies Association (USA) e la American Sociological Association, si dotarono di sezioni dedicate ai Peace Studies.
Gli anni ottanta segnarono l'inizio di un terzo ciclo, in sintonia con lo sviluppo in Occidente di forti movimenti per il disarmo e col risveglio nei paesi dell'Est-Europeo della protesta sociale e dell'azione in difesa dei diritti civili. L'agenda dei ricercatori della pace si andava ad arricchire dei concetti di sicurezza comune, nuovo ordine mondiale, transarmo, difesa non offensiva, dissuasione o difesa su basi civili62. I movimenti ecologisti imposero una critica del modello di sviluppo dominante e la scelta di nuovi parametri per definire lo sviluppo sostenibile. I movimenti femministi partendo dalla critica ai modelli culturali maschili legati alla violenza e alla guerra, svilupparono progetti di genere rivolti all'educazione alla pace63.
Grande enfasi veniva posta sul ruolo della terza parte nella mediazione dei conflitti. Nascevano programmi sulla mediazione in molte università (tra le principali ricordiamo: George Mason, Michigan, Minnesota, Colorado, Syracuse). La letteratura sull'ar-gomento diventava, in breve tempo, sterminata64. John Burton e Edward E. Aznar, teo-rici del diritto internazionale impegnati a cercare nuove metodologie per il lavoro della diplomazia in situazioni di conflitto, promuovevano i "problem-solving workshop" laboratori attivi di comunicazione tra rappresentanti delle parti coinvolte in conflitti internazionali con la presenza di terze parti nella funzione di facilitazione e mediazione.
Infine, in alcuni paesi i governi si facevano diretti promotori della costituzione di centri di ricerca sulla pace. Ciò avveniva in Costarica col patrocinio dell'ONU (1983), Austria (1983), Canada (1984), Australia (1984), USA (1984). Questo processo di accelerazione istituzionale dei Peace Studies determinò un vasto dibattito sull'autonomia dei ricercatori dalle politiche dei governi.
Intanto la fine della guerra fredda apriva la quarta fase nella storia degli studi per la pace. I ricercatori per la Pace erano stati quelli meno colti di sorpresa dal precipitare degli eventi che avevano portato alla dissoluzione dell'impero sovietico. Non si annunciava "la fine della Storia", ma bisognava attrezzarsi perché le società potessero finalmente godere dei "dividendi" della pace. Intanto, l'osservatorio sulle guerre dell'Università di Uppsala65 andava a rilevare, rispetto al declino della tensione tra le grandi potenze mondiali e delle guerre tra stati, il persistere e in alcuni casi l'accentuarsi dei conflitti armati interni in Asia e Africa, e il ritorno della guerra in Europa, conseguenza della crisi dei Balcani e della disgregazione dell'URSS.
Alla nuova situazione cercava di rispondere l'Agenda per la pace66 di Boutros-Ghali del 1992, prevedendo un'azione di "confidence building", un'opera di diplomazia preventiva, un'azione di peace-making, peace-keeping e post conflict peace-building. Si affacciava per la prima volta nelle più alte organizzazioni internazionali l'ipotesi di un'azione civile di prevenzione e interposizione non armata nei conflitti, da affidare a corpi non militari di caschi bianchi67. Prendeva corpo il progetto Transcend delle Nazioni Unite accogliendo la prospettiva di Galtung di costruire la pace con mezzi di pace.
Al livello della ricerca si andavano a studiare le richieste di "identità" che portavano al risorgere dei nazionalismi e ai conflitti etnici, si cercava di spiegare le cause del collasso degli stati deboli dell'Africa68, le correlazioni tra violenza e sviluppo69, i conflitti generati dal degrado ambientale70 mentre si affinava la teoria sulla gestione dei conflitti, trattando in particolare quelli più ostinati e di lunga durata, dichiarati "irrisolvibili", ma che possono essere "trasformati", scendendo nella scala della violenza.71
Lo studio del ciclo delle lotte e delle rivoluzioni nonviolente più recenti, succedutesi nell'ultimo ventennio del secolo in America Latina, Iran, Filippine, paesi dell'Est Europa, Sud-Africa, ha dato impulso a una nuova abbondante letteratura sul metodo nonviolento di lotta per la giustizia e per la liberazione dei popoli72.
L'Italia e gli studi per la Pace.
Di fronte all'indubbio successo dei Peace Studies a livello mondiale, riconoscibile dalla diffusione dei centri di ricerca, dal moltiplicarsi dei curricula universitari73, dalla circolazione di innumerevoli pubblicazioni e riviste specialistiche74, dall'accoglimento della nonviolenza in programmi specifici dell'Onu e dell'Unesco, in Italia il riconoscimento accademico di questo ambito di ricerca multidisciplinare è avvenuto solo di recente, con l'istituzione dei nuovi corsi di laurea in Scienze per la Pace.
Sono trascorsi più di trenta anni da quando in Italia il prof. Giuliano Pontara75 auspicava un'apertura dell'Università ai Peace Studies, che durante gli anni sessanta avevano acquisito nel Nord Europa e negli Stati Uniti una riconosciuta e non effimera dignità accademica.
Il sogno di Pontara, che allora fu accolto dall'incomprensione e dalla indifferenza generale, sembra oggi avverarsi negli atenei italiani con la riforma dei corsi di Laurea, che per la classe 35 prevede le "scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e la pace". In verità i curricula ministeriali sembrano ancorati alla visione tradizionale delle Relazioni Internazionali, ma gli spazi concessi dall'autonomia universitaria hanno permesso, agli atenei di Pisa e Firenze, l'inserimento di approcci nuovi e tematiche fortemente innovative, improntate a quella inter-disciplinarità che caratterizza i Peace Studies.
Il corso di laurea in Scienze per la Pace, attivato dall'Università di Pisa, si caratterizza fortemente per la sua multidisciplinarità, in quanto fortemente voluto dal CISP (Centro Interdipartimentale di Scienze per la Pace) che raggruppa docenti di matematica, informatica, chimica, biologia, diritto ed economia, … che hanno sentito l'esigenza di ricongiungere le proprie conoscenze a un impegno etico.
Alla definizione ampia della Stephenson, riportata all'inizio, ci sembra preferibile quella data da Pontara nel lontano 1969, che conserva tuttora una indubitabile validità epistemologica per la sua tipicità:
Una ricerca scientifica è classificabile come ricerca sulla pace se, e soltanto se :
essa verte sulle possibilità e modalità della realizzazione di una pace fondata su strumenti non-violenti di risoluzione dei conflitti
è intrapresa allo scopo di fornire alle attività pratiche volte a realizzare la pace sulla base di tali strumenti un corpo di conoscenze scientifiche il più vasto e sicuro possibile.76
L'Italia è un paese "strano". È il paese che ha dato i natali ugualmente a Francesco d'Assisi e a Machiavelli, al santo della nonviolenza e al massimo teorico della Ragion di Stato. Terra di frontiera, pur avendo vissuto durante il XX secolo situazioni storiche drammatiche dal punto di vista della violenza, ha offerto allo stesso tempo una fioritura di profeti e maestri della nonviolenza che non ha eguali nel mondo occidentale. Durante il fascismo ebbe i due primi europei che riconobbero e accolsero il satyagraha gandhiano: Aldo Capitini e Lanza del Vasto. Più tardi, in epoca democratica, la disseminazione nonviolenta ha portato ulteriori frutti copiosi, soprattutto nel campo religioso, attraverso la parola e l'opera di straordinari educatori come don Milani, don Mazzolari, don Zeno, Giorgio La Pira, padre Turoldo, padre Balducci, Danilo Dolci, don Tonino Bello. Sarà forse vero quanto soleva ripetere Sant'Agostino d'Ippona: che di fronte a un grande male la "provvidenza" suscita sempre il contrappeso di un grande bene.
Il lavoro portato avanti dai fautori italiani della nonviolenza, nato da istanze di rinnovamento religioso, vissuto spesso in una condizione di estrema solitudine, ha avuto, però, per tutti, una profonda consapevolezza politica e una forte valenza progettuale, che non sempre ha trovato un eguale riscontro sul versante politico e istituzionale. La nonviolenza, cioè, non veniva intesa come generico quietismo, al di là e al di sopra di ogni conflitto, ma andava a cercare la radice dei problemi, delle insufficienze, delle tante ingiustizie, assumendo su di sé il compito di affrontare il conflitto e di trasformarlo, cioè di praticare la strada della "tramutazione" della realtà strutturale che genera morte e violenza, innanzitutto attraverso la propria testimonianza e la propria sofferenza. È la pratica gandhiana del Satyagraha, il metodo nonviolento di affrontare i conflitti in modo creativo e costruttivo, che attraverso la promozione di progetti partecipati dal basso con la gente, nella condivisione con gli ultimi, genera una pace giusta e feconda.
Pur da una situazione di emarginazione rispetto alle grandi istituzioni della politica e della religione, la prospettiva progettuale dei fautori italiani della nonviolenza non ha avuto nulla del superficiale spontaneismo o del fatuo ribellismo, ma ha avuto un orizzonte culturale e politico molto ampio, un rigore etico fortissimo (erano dei disobbedienti, in realtà estremamente obbedienti ai dettati di una legge superiore), un proposito di trasformazioni profonde e radicali che si proiettano inevitabilmente nel lungo periodo e che, perciò, appaiono tuttora di estrema attualità. Vale, perciò, la pena di richiamare i punti chiave del loro impegno. Si ricordino: il progetto di Capitini per istituire una rete diffusa di C.O.S. (Centri di Orientamento Sociale) in ogni parte d'Italia per l'esercizio del potere di tutti (il passaggio dalla democrazia all'Omnicrazia); il lavoro di don Milani per una scuola del popolo che formasse le coscienze all'esercizio delle virtù civiche (e cristiane) della solidarietà e della lotta per la giustizia; la fondazione da parte di don Zeno e di Lanza del Vasto di nuclei di nuova vita comunitaria; l'attività di Danilo Dolci in Sicilia per un modello di sviluppo organico e comunitario, relazionale e comunicativo, capace di sconfiggere la violenza mafiosa; la diplomazia popolare del sindaco di Firenze Giorgio La Pira nel promuovere una politica di disarmo e di pace tra Est ed Ovest; l'impegno di Balducci a favore del riconoscimento dell'obiezione di coscienza al servizio militare; le sollecitazioni della Chiesa conciliare per una condanna senza appello della guerra e delle armi di distruzione di massa; l'interposizione nonviolenta nel conflitto dei Balcani guidata da don Tonino Bello e dai Beati i Costruttori di pace; la mediazione efficace della Comunità di San Egidio in numerosi conflitti internazionali, come in Mozambico, classificati come "intrattabili".
Nonostante tutto questo enorme lavoro di rivoluzione culturale realizzato nella società da tali maestri della nonviolenza, la loro azione per lungo tempo è stata ignorata o emarginata dalle grandi istituzioni culturali.
Gli studi per la pace, perciò, sono rimasti per lungo tempo in Italia patrimonio esclusivo di piccoli gruppi o singoli studiosi77, marginali rispetto al grande mondo accademico, legati per lo più ai movimenti nonviolenti per la Pace, che solo oggi sembrano poter emergere dalle "catacombe", grazie all'istituzione dei primi corsi di laurea indirizzati alle Scienze per la Pace.
Gli studi per la pace sono stati guardati a lungo con sospetto nelle Università italiane, in quanto giudicati privi degli attributi della scientificità e ascritti di diritto all'area del pensiero utopico, dove la parola utopia viene usata in senso dispregiativo come pura fantasticheria di un futuro armonioso e irreale. Il tempo è ora maturo per rimuovere tali pregiudizi. Il fatto di esplicitare negli studi per la Pace un orientamento di valore, infatti, non pregiudica l'obiettività e la validità scientifica delle loro metodologie. Infatti, spesso, dietro le dichiarazioni di neutralità e di obiettività asettica, si nasconde, in realtà, un pesante retroterra ideologico che giustifica come naturale nelle relazioni internazionali la minaccia della violenza e il ricorso a sistemi di potere coercitivo. Il cambiamento di paradigma portato dagli studi per la Pace sposta finalmente il baricentro dall'accettazione della violenza alle tecniche nonviolente di soluzione/trasformazione dei conflitti. Pur riconoscendo gli inevitabili vincoli delle condizioni storiche e ambientali, va rifiutato ogni determinismo: di fronte all'uomo, essere pensante, si presentano sempre alternative diverse che dipendono dalla sua volontà e dalle sue scelte politiche. Qui entrano in gioco il peso della cultura e dei valori, in un intreccio dialettico coi dati, che vanno sempre valutati all'unisono nel governo delle società.
Johan Galtung nella sua magistrale opera di scienziato sociale ha ampiamente superato questo tipo di perplessità e ha delineato con chiarezza i caratteri del paradigma scientifico degli studi per la Pace, facendo ricorso all'efficace immagine della prassi medica nei termini della triade diagnosi-prognosi-terapia78. Alla fase dello studio e della conoscenza, alla raccolta obiettiva dei dati (diagnosi), segue la valutazione critica dei dati raccolti con il ricorso alla teoria (prognosi ) e, infine , si colloca la ricerca e l'attivazione di una cura appropriata alla malattia, di cui la violenza è la manifestazione sintomatica (terapia).
La distinzione tra violenza diretta e violenza strutturale, l'indagine sulle radici profonde della violenza culturale, i nessi tra conflitto e sviluppo, tra sicurezza e disarmo, il discorso sulle alternative tra modelli di sviluppo diversi, il legame inscindibile tra pace e giustizia, la distinzione tra pace positiva e pace negativa, l'approfondimento teorico del metodo gandhiano per trascendere i conflitti, sono le tante acquisizioni di un percorso intellettuale e scientifico da cui non si può prescindere.
Bisogna ora raccogliere e rilanciare i "nuclei forti" dell'impegno nonviolento, con la consapevolezza che anche in Italia si annuncia il passaggio a una fase ulteriore rispetto al lavoro realizzato nei decenni scorsi. I precursori hanno dissodato il terreno, ora si tratta di mettere a dimora le giovani piante.
Con una espressione, dai possibili e facili travisamenti, si può parlare di una prossima fase di "istituzionalizzazione" della nonviolenza. È bene, perciò, chiarire subito che cosa si vuole intendere. L'istituzionalizzazione non deve essere considerata come ingabbiamento nelle strutture dominanti (questo sarebbe il travisamento totale e il tradimento del messaggio nonviolento), e neppure, in senso weberiano, come lento processo di burocratizzazione, compromissione statalistica e, quindi, perdita della tensione carismatica, dell'originario slancio creativo dei fondatori. Qui l'accezione va spiegata ricorrendo ai teorici del funzionalismo sociologico (Parsons e soprattutto Merton), come "capacità" degli attori sociali di attivare strumenti funzionali alternativi alla violenza e alla guerra. Si tratta cioè di sviluppare un processo che gli anglosassoni chiamano, con un termine denso di significato, che non ha un equivalente in italiano, people empowerment. Si tratta cioè di creare spazi nuovi, istituzionalizzati, per l'esercizio del potere di tutti, secondo il sogno omnicratico di Capitini. Bisogna riappropriarsi del potere che spetta a ciascuno e a tutti, di acquisire ed esercitare il potere, e non delegarlo ad organismi esterni che ci espropriano del potere decisionale per dominare le nostre vite. A una analisi attenta, e non superficiale, è questa la direzione in cui si muovevano già i "battistrada" del metodo nonviolento. Sembravano dei sognatori, isolati e sconfitti, ma a ben guardare il panorama politico e culturale della società italiana degli ultimi decenni, mentre tutt'intorno avanzavano processi galoppanti di degrado e di corruzione politica, è dal loro lavoro che venivano le acquisizioni più importanti nel campo della civiltà della Pace (si pensi alle recenti leggi _ di assoluta avanguardia a livello mondiale _ sull'obiezione di coscienza, sul volontariato, sul servizio civile, e alla riforma universitaria che introduce nelle Università il corso di laurea in scienze della Pace).
Per spiegare il processo di istituzionalizzazione della nonviolenza possono essere riprese utilmente alcune intuizione teoriche del funzionalismo. Robert K. Merton, all'interno della sua analisi funzionale della macchina politica, spiegava il fallimento dei periodici, fallaci, tentativi di riforma politica, formulando il suo teorema fondamentale:
qualsiasi tentativo per eliminare una struttura sociale esistente, senza fornire altre strutture che possono adempiere le funzioni precedentemente adempiute dalla organizzazione abolita, è destinato al fallimento.79
Il teorema funzionalistico di Merton si addice in maniera esemplare alle illusioni di tanti pacifisti e antimilitaristi di abolire ipso facto gli istituti della guerra e dell'esercito. Secondo l'invito di Gene Sharp: "If war is to be removed, a substitute means of struggle is needed _ on psycological, sociological and political grounds."80 Inoltre, la distinzione tra funzione manifesta e latente81 è essenziale per capire i bisogni di sicurezza e di difesa soddisfatti dalla istituzione militare, ed è dal demistificare questi bisogni che bisogna partire per offrire alternative funzionali efficaci che possano incontrare il consenso delle persone. Scrive Merton:
Cercare un mutamento sociale, senza il dovuto riconoscimento delle funzioni manifeste e latenti adempiute dalla organizzazione sociale che subisce il mutamento, è cadere in soluzioni utopistiche, piuttosto che impegnarsi in una concreta attività sociale.82
La distinzione tra funzioni manifeste e latenti ha, quindi, una utilità non soltanto teorica, ma anche estremamente pratica. Nell'azione sociale appare evidente l'esigenza di non confondere struttura e funzione, strumento e compito, istituzione e impiego. Sharp nota come tale consapevolezza manchi del tutto ai movimenti per la pace che, infatti, accettano di identificare la struttura (il sistema militare e la guerra) con le funzioni di deterrenza e difesa, facendo così un grande favore ai militari che possono così presentarsi all'opinione pubblica come gli unici in grado di venire incontro ai bisogni fondamentali di sicurezza della maggior parte delle persone. È un grave errore considerare come sinonimi la difesa effettiva e la potenza armata degli eserciti:
La semplice distinzione tra struttura e funzione, o tra strumento e compito, applicata alla guerra e alla difesa può liberarci dall'assiomatica presunzione di identificare la difesa con il sistema militare. La distinzione tra difesa e sistema militare ci mette in grado di chiedere se ci possano essere strumenti alternativi di difesa che non siano militari _ una questione che per la maggior parte delle persone è inconcepibile.83
A proposito del postulato dell'indispensabilità, accettato dai sociologi funzionalisti, Merton richiama l'ambiguità presente, per esempio, nel pensiero di Malinowsky84, perché non è affatto chiaro se egli affermi l'indispensabiltà della funzione oppure dell'elemento (costume, oggetto, idea, opinione) che adempie la funzione, oppure la necessità di entrambi85. In realtà per Merton il postulato della indispensabilità contiene due elementi connessi, ma distinti. Da una parte ci sono certe funzioni vitali, indispensabili, che se non fossero adempiute, porterebbero al collasso della società, ma contemporaneamente è necessario riconoscere che esistono alternative funzionali, o equivalenti funzionali, o sostituti funzionali:
strutture sociali (e forme culturali) diverse hanno adempiuto, sotto condizioni da esaminarsi, funzioni necessarie per la sopravvivenza dei gruppi. Procedendo oltre, dobbiamo esporre un teorema fondamentale dell'analisi funzionale: proprio come lo stesso elemento può avere molteplici funzioni, così la stessa funzione può essere variamente adempiuta da diversi elementi. Le necessità funzionali sono qui considerate come permissive, piuttosto che determinanti, di specifiche strutture sociali. O, in altre parole, c'è un certo grado di variazione nelle strutture che adempiono la funzione in questione. […].86
Lewis Coser arriva a una stessa conclusione, quando scrive:
Nel conflitto realistico esistono alternative funzionali quanto ai mezzi. […] si offrono sempre possibilità di scelta tra varie forme di contese, scelte che anch'esse dipendono dalla valutazione della loro idoneità strumentale.87
Tra i diversi teorici del funzionalismo88 c'è, quindi, una convergenza sostanziale nel ritenere che una data funzione può essere adempiuta da differenzi strutture. Perciò se gli eserciti, si dice, sono uno strumento per scoraggiare o resistere alle aggressioni internazionali, ogni proposito di abolire la guerra si deve misurare con la possibilità di organizzare, istituzionalizzare una alternativa funzionale agli eserciti.
Già William James, nel saggio "The Moral Equivalent of War"89 scritto agli inizi del XX secolo, aveva riconosciuto il bisogno di una alternativa psicologica alle guerre, in grado di appagare in modo incruento i bisogni psicologici sottesi all'esercizio delle virtù militari. Più tardi, nel 1928, Walter Lippman, un autore oggi poco conosciuto, scriveva in "The Political Equivalent of War"90, che l'obiettivo è di inventare e organizzare altri modi per risolvere i problemi che finora sono stati decisi con la guerra.91
Da questa premessa teorica fondamentale deve prendere l'avvio tutto il lavoro di ricerca per definire strumenti nonviolenti funzionali alla difesa della società e capaci di soddisfare i bisogni latenti di sicurezza della popolazione, proponendo l'organizzazione della difesa popolare nonviolenta che, rispetto alla incapacità difensiva delle moderne armi di sterminio di massa, rappresenta una alternativa efficace al sistema militare nel perseguire gli obiettivi della difesa e della sicurezza delle popolazioni civili e dei loro territori. La difesa su basi civili, (altrimenti chiamata difesa sociale, o difesa popolare nonviolenta) è uno di quei percorsi di istituzionalizzazione della nonviolenza che trova il suo possibile varco nella sperimentazione, organizzazione e formazione prevista dalla recente legge italiana sull'obiezione di coscienza. Qui entra in gioco il ruolo di ricerca e di formazione che dovrà essere svolto dall'Università con i suoi corsi di Scienze per la Pace.
Toh Swee-Hin e Virginia Floresca-Cawagas, due studiose dell'Università di Alberta in Canada, in un recente saggio su "Institutionalization of Nonviolence"92 ci forniscono i segnavia di un tale percorso (the signposts for institutionalization) che dovrebbero costituire il programma dei Peace Studies per la generazione del duemila. A questo proposito le due studiose esaminano ai vari livelli (micro, meso, macro) e nei differenti contesti (locale, nazionale, internazionale e globale) le iniziative che vanno nella giusta direzione. A livello macro vengono passate in rassegna:
le iniziative esemplari di diplomazia popolare, di peacekeeping e peacebuilding di numerose ONG come International Alert, Peace Brigades, Fellowship of Reconciliation, Project Ploughshares; i programmi di riconversione dell'industria bellica e della ricerca scientifica a scopi militari;
i progetti di cooperazione allo sviluppo alternativo, avviato in tanti paesi del Sud del mondo, uno sviluppo che sia secondo l'acronimo di PEACE : Partecipato, Equo, Appropriato (nei valori e nelle tecnologie), Criticamente consapevole, Ecologicamente sostenibile;
le attività delle agenzie per la difesa dei diritti umani;
le attività delle agenzie culturali come l'Unesco o delle Chiese e delle Religioni mondiali impegnate a promuovere una cultura della solidarietà e della trasformazione nonviolenta dei conflitti;
infine, ma non ultime per importanza, le iniziative delle innumerevoli associazioni mondiali impegnate nella salvaguardia della natura e del futuro del pianeta Terra.
L'istituzionalizzazione della nonviolenza viene interpretata come un processo che rafforza il potere di tutti (empower citizens) ovvero favorisce il progredire dalla democrazia verso l'Omnicrazia, secondo il neologismo coniato in Italia da Capitini. È una trasformazione che richiede un nuovo paradigma scientifico che porti a :
una visione olistica dei problemi;
una presa di coscienza dal basso attraverso nuovi modelli culturali ed educativi;
una nuova solidarietà trasversale tra gruppi e movimenti del Nord e del Sud del mondo;
una profonda riforma religiosa che attinga alle fonti dell'antica saggezza dei fondatori delle grandi religioni mondiali.
Una istituzionalizzazione sostenibile della nonviolenza esplora tutti gli spazi potenziali di educazione e trasformazione, cercando legami tra strategie formali, non-formali e informali, memori che il costruire un mondo pacificato non può cominciare e finire in un solo segmento di vita. Similmente, si deve costantemente legare il personale con il sociale, e l'interiore con le manifestazioni esteriori della nonviolenza.93 Un tale cambiamento del paradigma scientifico porterebbe con sé un profonda rivoluzione culturale, perché favorisce una percezione diversa del mondo e in particolare introduce a un approccio diverso nei confronti del conflitto.
Bisogna vincere quella sorta di atavico senso di paura e di impotenza verso il fenomeno della guerra, che può essere raccontata nella letteratura o registrata dalla storia, ma che in realtà si ritiene continui a sfuggire al dominio razionale dell'uomo al pari dei cataclismi naturali. È possibile sospettare anche che, nella terra di Machiavelli, la guerra sia tuttora considerata, più o meno inconsciamente, di pertinenza esclusiva del Principe, esclusa quindi da un indagine che ne spieghi le motivazioni, le dinamiche, le implicazioni sociali. Del resto la stessa sociologia, che pure dovrebbe essere interessata a studiare i fenomeni più eclatanti per il destino delle società, ha, come hanno scritto Martin Shaw e Lester R. Kurtz "bypassed" la grande questione.94 Così anche nei pochi e rari casi di sociologi interessati è prevalso sempre il filone di ricerca della sociologia militare95, piuttosto che quello della sociologia della pace, forse anche per la maggiore disponibilità di fondi che le istituzioni militari possono tuttora generosamente elargire.
Il metodo nonviolento
Il nostro tentativo di dar vita a una rivista in italiano di studi per la Pace vede la luce in un contesto mondiale che ci sollecita con ancora maggiore energia a cercare alternative alla guerra, a intraprendere un cammino di ricerca e di formazione al metodo nonviolento. Satyagraha, il nome scelto per la rivista, esprime immediatamente il richiamo al metodo sperimentale, creativo e costruttivo della nonviolenza gandhiana: Satya è l'essere, la verità; implica amore, Agraha significa fermezza, ed è sinonimo di forza, indica perciò il potere generato da Verità e Amore.
Nel sottotitolo della testata la nonviolenza viene definita come metodo sperimentale di una nuova scienza dei conflitti. Il riferimento al metodo indica, secondo l'etimologia del vocabolo greco méthodos, la `via' (hodós) che conduce oltre (metá) il conflitto, che lo trascende. Il metodo è più di una semplice tecnica o di un insieme di tecniche da applicare nella protesta politica.96 Ha scritto Aldo Capitini:
Questa idea di un metodo per la nonviolenza è importante, perché presenta l'aspetto di un insieme che comprenda atteggiamenti vari dell'uno o dell'altro; e presenta anche la necessità di una certa disciplina, di un certo ordine nella messa in pratica delle tecniche della nonviolenza, che sono i modi nei quali essa possa essere attuata, tenendo conto delle situazioni, dei problemi, degli scopi relativi a determinate circostanze.97
Il metodo non è prescrittivo, non è un ricettario di formule e di dogmi, ma ha uno stile aperto al massimo della creatività, in quanto accoglie e perfeziona sempre i suoi modi, ed è sperimentale perché saggia le circostanze determinate di una situazione.98 Il metodo nonviolento si caratterizza per il suo valutare i mezzi coincidenti coi fini, in quanto, secondo la felice espressione di Shridharani, considera i mezzi come the end in process and the ideal in the making.99 Dewey100 ha svelato, nella sua trattazione della logica, come sia un errore considerare i fini come fissati all'inizio dell'impresa, perché in realtà essi sono solo intenzioni ("ends-in-view"), cioè rientrano nella categoria delle ipotesi, e in quanto ipotesi si formano e vengono messi alla prova in stretta correlazione con le condizioni esistenziali, cioè con i mezzi. Partendo da questo discorso Bondurant101 fa un passo ulteriore e conclude che i mezzi vanno considerati più che strumentali rispetto a un fine prestabilito, perché sono essi stessi creativi, costruttivi dei fini. Come ha insegnato Gandhi:
Si dice che "i mezzi in fin dei conti sono mezzi." Io vorrei dire "i mezzi in fin dei conti sono tutto." Quali i mezzi, tale il fine. Il creatore infatti ci ha dato autorità (e anche questa molto limitata) sui mezzi, non sul fine… Il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra il mezzo e il fine vi è appunto la stessa inviolabile relazione che vi è tra il seme e l'albero.102
Ha scritto Capitini, rigettando la machiavellica dicotomia tra mezzi e fini:
Nella grossa questione del rapporto tra il mezzo e il fine, la nonviolenza porta il suo contributo in quanto indica che il fine dell'amore non può realizzarsi che attraverso l'amore, il fine dell'onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile "Se vuoi la pace, prepara la guerra" ma attraverso un'altra legge: "Durante la pace, prepara la pace."103
A nessuno è dato di dirsi detentore di verità, non c'è una verità da imporre, ma c'è una ricerca comune della verità, non ci sono vincitori e vinti, lo scopo non è trionfare sull'avversario, ma persuaderlo, scoprire insieme la verità:
La parola Satya (Verità) è derivata da Sat, che significa ciò che è. E nulla è o esiste in realtà eccetto che la Verità. Questa è la ragione per cui Sat o Verità è forse il nome più importante di Dio. Infatti è più corretto dire che la Verità è Dio, piuttosto che Dio è la Verità. Per me la Verità è Dio, e non c'è una via migliore per trovare la verità che quella della nonviolenza.104
Joan Bondurant105 ha riassunto in tre gli elementi fondanti del satyagraha gandhiano: la verità (satya), la nonviolenza (ahimsa), la propria sofferenza (tapasya). Tra questi tre elementi c'è una circolarità che li unisce in una relazione dialettica. Verità e Nonviolenza sono come due facce della stessa medaglia. Alla verità ci si avvicina solo attraverso la nonviolenza, cioè preferendo soffrire noi stessi, piuttosto che far soffrire il nostro avversario. E attraverso la propria sofferenza si testimonia la sincerità della posizione sostenuta, aprendo inaspettatamente ponti di dialogo e di comunicazione. Tutti gli errori della scienza occidentale nascono dalla cecità nel non volere accettare il valore della sofferenza, nel non riconoscere la forza trasformante dell'amore.
Quando J. Bondurant, la grande studiosa del Satyagraha, si recò in India nel 1946, Gandhi in un breve colloquio personale le disse:
Ma il Satyagraha non è un soggetto di ricerca _ voi dovete farne esperienza, usarlo, vivere in esso.106
--------------------------------------------------------------------------------
1 Cfr. l'art. 8 della legge n. 230 dell'8 luglio 1998, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.163 del 15 luglio 1998.
2 Come fa notare Pierluigi Consorti, che ha svolto una indagine tra le Università che hanno attivato un corso di laurea della classe 35, i corsi di Pisa e di Firenze appaiono gli unici ad essere orientati verso la tematiche dei Peace Studies. Cfr Pierluigi Consorti, Nuovi studi per la Pace e servizio civile, relazione alla giornata di studio su "Riconoscimenti e incentivi nel nuovo servizio civile" (Roma, Caritas italiana, 10 -gennaio -2002).
3 Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Peace, 31 january 1992, Second Edition, New York, United Nations, 1995.
4 Trascendere è il termine preferito da Galtung in quanto i conflitti non possono essere "risolti", ma trasformati in modo nonviolento, "andando oltre". Cfr. Johan Galtung, La trasformazione nonviolenta dei conflitti. Il Metodo Transcend, Torino, EGA, 2000.
5 Carolyn M. Stephenson è docente all'University of Hawai' i at Manoa ed è una delle principali animatrici dell'IPRA (International Peace Research Association).
6 Carolyn M. Stephenson, Peace Studies, Overview, in Lester Kurtz (Editor-in-Chief), Encyclopedia of Violence; Peace & Conflict, vol. 2, San Diego, California, Academic Press, 1999, p. 809.
7 Lewis Fry Richardson, The Mathematical Psychology of War, Oxford, Hunt, 1919. Altri scritti di Richardson tra le due guerre mondiali sono stati raccolti e pubblicati dopo la sua morte: Arms and Insecurity: A Mathematical Study of the Causes of War, Chicago, Quadrante, 1960; Statistics of Deadly Quarrels, Chicago, Quadrante, 1960.
8 Pitirim Sorokin, Social and Cultural Dynamics, vol. III, New York, Bedminster Press, 1937.
9 Quincy Wright, A Study of War, Chicago, Illinois, University of Chicago Press, 1942.
10 La tradizione degli studi statistici sulle cause delle guerre continua tuttora presso l'Università del Michigan, dove David Singer dirige il progetto Correlates of War, che indaga i fattori correlati alla frequenza e alla gravità delle guerre. Cfr. Small Melvin & J. David Singer, Resort to Arms: International and Civil Wars, 1816-1980, Beverly Hills, CA, Sage, 1982.
11 Harry Laidler, Boycotts and the Labor Struggle: Economic and Legal Aspects, New York, John Lane, 1913.
12 E. T. Hiller, The Strike : A Study in Collective Action, Chicago, University of Chicago Press, 1928.
13 Wilfred H. Crook, The General Strike : A Study of Labor's Tragic Weapon in Theory and Practice, Chapel Hill NC, University of North Carolina Press, 1931.
14 Clarence Marh Case, Non-Violent Coercion. A Study in Methods of Social Pressure, London, George Allen & Unwin, 1923.
15 Richard Gregg, The Power of Nonviolence, 1a ed., Philadelphia, Lippincott, 1935; second revised edition New York, Nyack, Fellowship Publications, 1959 and London, James Clarke & Co, 1960.
16 Richard Gregg, Training for Peace, Philadelphia, Lippincott, 1937, in seguito incluso come supplemento alla seconda edizione di The Power of Nonviolence.
17 Aldous Huxley, Ends and Means, London, Chatto & Windus, 1937.
18 Krishnalal Shridharani, War Without Violence: A Study of Gandhi's Method and its Accomplishment, first ed New York, Harcourt, Brace and Company, 1939; new ed.1960
19 Un ottima biografia intellettuale è quella di Peter van den Dungen, Herman Noordegraaf and Win Robben, Bart de Ligt (1883-1938): Peace Activist and Peace Researcher, Boxtel, Netherlands, Bart de Ligt Fund; Zwolle, Netherlands, Foundation for Information on Active Nonviolence, 1990.
20 Barthélemy de Ligt, La Paix créatrice, Paris. Librairie Rivière, 1934.
21 Barthélemy de Ligt, Pour vaincre sans violence, Paris, Mignolet et Storz, 1935.
22 Barthélemy de Ligt, The Conquest of Violence : An Esssay on War and Revolution, London, Routledge,1937 (New edition: London , Pluto,1989 and Winchester, MA, Unwin Hyman, 1989).
23 Karl Ehrlich, Niels Lindberg and Gammelgaard Jacobsen, Kamp Uden Vaaben: Ikke-vold som Kampmiddel mod Krig og Undertrykkelse ( Lotta senza armi: la nonviolenza come mezzo di lotta contro la guerra e l'oppressione), Copenhagen: Lewin & Munksgaard, Ejnar Munksgaard, 1937.
24 Cfr. Carolyn M. Stephenson , The evolution of Peace Studies, in Daniel C. Thomas and Michael T. Klare, Peace and World Order Studies. A Curriculum Guide. Fifth Edition, San Francisco, Boulder, Westview Press, 1989, pp. 9-19.
25 Theodor F. Lentz, Towards a Science of Peace, New York, Bookman Associates, 1955.
A Parigi sempre nel 1945 per opera del sociologo Gaston Bouthoul vedeva la luce l'Istitut Francais de Polémologie, ma la sua visione della pace come risultato dell'equilibrio dei poteri tra stati e il suo approccio bio-demografico alla guerra, considerata come fattore che aiuta a tenere a freno i bollori dei giovani e ristabilisce l'equilibrio tra risorse disponibili e crescita della popolazione, appaiono banali e poco utili. Cfr. Gaston Bouthoul , Le guerre , (ed. or. Paris, Payot, 1951) , Milano, Longanesi, 1982.
26 Handley Cantril (ed.), Tensions that Cause Wars, Urbana, University of Illinois Press, 1950. Gli otto studiosi di cui il volume pubblica i differenti interventi sono: Gordon W. Alport, Gilberto Freyre, Georges Gurvitch, Max Horkheimer, Arne Naess, John Rickman, Harry Stack Sullivan, Alexander Szalai.
27 Cfr. Herbert C. Kelman , Reflections on the History and Status of Peace Research, in "Conflict Management and Peace Science", Spring, 1981, vol.5, pp.95-110.
28 È il figlio di Lewis Richardson, il grande precursore dell'analisi matematica dei conflitti.
29 La nuova rivista raccolse l'eredità del "Bulletin of the Research Exchange on the Prevention of War" che così cessò le pubblicazioni.
30 Pugwash è il nome del villaggio della Nova Scotia, luogo natale dell'industriale Cyrus Eaton che finanziò l'iniziativa e dove si svolse la prima conferenza.
31 Peter Wallentsteen, Peace Research. Achievements and Challenges. Boulder & London, Westview Press, 1988, p.7.
32 Ivi, p.11.
33 Parsons, ad esempio, parlava del conflitto in termini di patologia e devianza. Cfr Talcott Parsons, Il Sistema sociale, (ed. or. 1951), Milano; Comunità, 1981, pp.259-334.
34 Cfr. Georg Simmel, Sociologie, Berlin, Duncker & Humblot, 1908, ed. it. Sociologia, Milano, Comunità, 1989.
35 Lewis Coser, The Functions of Social Conflict, New York, Free Press, 1956, ed. it. Le funzioni del conflitto sociale, Milano, Feltrinelli, 1967.
36 Thomas C. Schelling, The Strategy of Conflict, Cambridge, Massachusetts, 1960.
37 Anatol Rapoport, Games, Fights, and Debates, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1961.
38 Kenneth Boulding, Conflict and Defense : A General Theory, New York, Harper & Brothers, 1962.
39 Håkan Wiberg, What is the Use of conflict Theory?, in Peter Wallentsteen, Peace Research. Achievements and Challenges. Boulder & London, Westview Press, 1988, p. 111.
40 Karl W. Deutsch, et al., Political Community and the North Atlantic Area : International Organization in the Light of Historical Experience, Princeton, Princeton University Press, 1957.
41 Cfr. Stephen King-Hall, Defence in the Nuclear Age , London , Victor Gollancz, 1958.
42 Basil Henry Liddell Hart, Deterrent or Defence, London, Stevens and Sons, 1960.
43 Le relazioni del convegno sono state pubblicate in T. K. Mahadevan, Adam Roberts, Gene Sharp, Civilian Defense: An Introduction , New Delhi, Gandhi Peace Foundation, 1967. Tra i principali interventi troviamo quelli di April Carter, Theodor Ebert, Jerome D. Frank, George Lakey, B.H.Liddell Hart, Arne Naess, Adam Roberts, Gene Sharp.
44 Joan V.Bondurant, Conquest of Violence. The Gandhian Philosophy of Conflict, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1958, new revised edition, 1988.
45 Gene Sharp, Gandhi Wields the Weapons of Moral Power, Ahmedabad, Navajivan Publishing , 1960.
46 Johan Galtung & Arne Naess, Gandhi Politiske Etikk, Oslo, Tanum, 1955. Lo studio dell'opera di Gandhi è stata successivamente sviluppata dai due autori in Arne Naess. Gandhi and Group Conflict, Oslo, Universitetsforlaget, 1974, e in Johan Galtung, Gandhi Oggi, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1987.
47 Ricordiamo tra i più diffusi : Charles C. Walker, Organizing for Nonviolent Direct Action, Cheney, Pennsylvania, stampato in proprio dall'autore, 1961. Martin Oppenheimer & George Lakey, A Manual for Direct Action, ( 1a ed. 1964 stampato a cura del Friends Peace Committee), 2a ed. Chicago, Quadrangle, 1965.
48 Cfr. Johan Galtung, The Next Twenty-five Years of Peace Research: Tasks and Prospects, in Peter Wallentsteen, Peace Research. Achievements and Challenges. Boulder & London, Westview Press, 1988, p.251.
49 Cfr. Carolyn M. Stephenson, Peace Studies, Overview, in Lester Kurtz (Editor-in-Chief), Encyclopedia of Violence; Peace & Conflict, vol. 2, San Diego, California, Academic Press, 1999, p. 810.
50 L'idea di dar vita a una associazione come l'IPRA si sviluppò all'interno della conferenza organizzata a Clarens Svizzera dal " Quaker International Conferences and Seminars" (16-20 agosto 1963).
51 La prossima Conferenza generale, la 19a, si svolgerà a Seul dal 1 al 5 luglio 2002, sul tema "Globalization, Governance, and Social Justice: New Challenges for Peace Research". L'IPRA pubblica i Proceeding di tali incontri.
52 A differenza dell'IPRA, rivendica "l'apoliticità" della ricerca.
53 Rivista fondata nel 1964 da Johan Galtung, è diventata ben presto leader a livello internazionale degli studi per la pace.
54 Kenneth Boulding, Twelve Friendly quarrels With Johan Galtung, in "Journal of Peace Research", vol.XIV, no.1, 1977, pp.75-86.
55 Johan Galtung, Violence, Peace and Peace Research,, in "Journal of Peace Research", vol.VI, no. 3, a.1969, pp. 167-191, poi in Johan Galtung, Peace: Research, Education, Action. Essays in Peace Research, vol. I, Copenhagen, Christian Ejlers, 1975, pp. 109-134.
56 Herman Schmid, Politics and Peace Research, in "Journal of Peace Research", vol.V, no. 3 , a. 1968, pp. 217-232.
57 Adam Curle, cit. in Carolyn M. Stephenson, Peace Studies, Overview, in Lester Kurtz (editor-in-chief), Encyclopedia of Violence, Peace & Conflict, vol. 2, San Diego, California, Academic Press, 1999, p. 815.
58 George Lakey, The Sociological Mechanisms of Non-Violent Action, in "Peace Research Review, vol II, no. 6, Oakville, Ontario (Canada), 1968, pp. 1-98. Cfr. anche AA.VV, Analysis of Nonviolence in Theory and Fact, in "Sociological Inquiry"n.38, 1968, pp.1-93. A. Paul Hare & Herbert H. Blumberg (eds.), Liberation without Violence: A Third- Party Appoach, London, Rex Collings, 1977.
59 Gene Sharp, The Politics of Nonviolent Action, Boston, Porter Sargent, 1973 (ed. it. La politica dell'azione nonviolenta, volumi I-III , Torino, Gruppo Abele, 1985-1997).
60 Louis Kriesberg, The Sociology of Social Conflict, Englewood Cliffs, N.Y.; Printice-Hall, 1973.
61 Paul Wehr, Conflict Resolution, Boulder, Colorado, Westview Press, 1979.
62 Sharp in particolare, studioso delle tecniche nonviolente, si impegnò a elaborare l'idea di una difesa a base civile come alternativa funzionale agli eserciti e a sviluppare il Program on Nonviolent Sanction presso l'Harvard University, Cfr. Gene Sharp, Civilian-Based Defense, Princeton, Princeton University Press, 1990.
63 Cfr. Pam McAllister, Reweaving the Web of Life. Feminism and Nonviolence. Philadelphia, New Society Publishers, 1982. Betty A. Reardom, Sexism and the War System, New York, Teachers College, 1985. Birgit Brock-Unte, Educating for Peace. A Feminist Perspective.Oxford, Pergamon Press, 1985, ed. it. : La Pace è donna, Torino, Gruppo Abele, 1989. Elise Boulding, Building a Global Civic Culture, New York, Teachers College, 1988.
64 Cfr. Christopher R. Mitchell, The Structure of International Conflict, London, Macmillan, 1981. Jeffrey Z.Rubin & Dean G. Pruit, Social Conflict, New York, McGraw-Hill, 1986.Edward E. Azar & John W. Burton, International Conflict Resolution. Theory and Practice, Brighton, Sussex, Wheatsheaf Books, 1986.
65 Cfr. SIPRI, Sipri Yearbook. World Armaments and Disarmament, Oxford, Oxford University Press, (1993- 2001).
66 Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Peace, 31 january 1992, II Ed. , New York, United Nations, 1995.
67 Cfr. Thomas Weber, Gandhi's Peace Army : the Shanti Sena and Unarmed Peacekeeping, Syracuse, Syracuse University Press, 1996. Jean-Marie Muller, Principes et méthodes de l'intervention civile, Paris, Desclée de Brouwer, 1997, ed. it. : Vincere la guerra, Torino, Gruppo Abele, 1999.
68 Cfr. I. William Zartman, Collapsed States, Boulder, Colorado, Lynne Rienner, 1995.
69 Cfr. Luc van de Goor, Kumar Rupesinghe, Paul Sciarone, Between Development and Destruction. An Enquiry into the Causes of Conflict in Post-Colonial States, London, MacMillan Press, 1996.
70 Cfr. Thomas F. Homer-Dixon, Environment, Scarsity, and Violence, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1999. Paul F. Diehl & Nils Petter Gleditsch, Environmental Conflict, Boulder, Colorado, Westview Press, 2001.
71 Cfr. Louis Kriesberg, Constructive Conflicts. From Escalation to Resolution, Boston, Rowman & Littlefield 1998.
72 Stephen Zunes, Lester R. Kurtz, & Sarah Beth Asher, Nonviolent Social Movements, Oxford, Blackwell, 1999.
AA.VV., People Building Peace, Utrecht, European Centre for Conflict Prevention, 1999.
73 Cfr.: Daniel C. Thomas and Michael T. Klare, Peace and World Order Studies. A Curriculum Guide. Fifth Edition, San Francisco, Boulder, Westview Press, 1989. Michael T.Klare (ed.), Peace and World Security Studies. A Curriculum Guide, Sixth Edition, Boulder &London, Lynne Rienner , 1994.
74 Tra le principali riviste segnaliamo come fondamentali: "IPRA Newsletter" (dal 1964 anno di fondazione dell'International Peace Research Association); "Journal of Peace Research" (pubblicata dal 1964 a cura dell'International Peace Research Institute - PRIO - di Oslo, in collaborazione con Sage Publications ); "Peace Research Abstracts Journal" (dal 1964 a cura del Peace Research Institute di Dundas - Ontario - Canada); "Security Dialogue" (dal 1970, in precedenza col titolo di Bulletin of Peace Proposals, a cura dell' International Peace Research Institute - PRIO - di Oslo, Sage Publications); "Peace and Change" (dal 1972), Alternatives (dal 1975), "Gandhi Marg" ( dal 1979 a cura della Gandhi Peace Foundation di New Delhi); "International Journal of Peace Studies" (dal 1996 a cura del Formosa College -Taiwan).
75 Cfr. Giuliano Pontara, La ricerca interdisciplinare e multidisciplinare sulla pace, in Franco Fornari, La dissacrazione della guerra, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 125 -172.
76 Ivi, p.139.
77 Innanzitutto a Firenze opera Alberto L'Abate, sociologo, docente di metodologia della ricerca sociale, storico militante antinucleare a Comiso e a Montalto di Castro, promotore da dieci anni nel Kossovo di una ambasciata di Pace a sostegno di una campagna per la trasformazione nonviolenta del conflitto. A Torino opera il Centro Sereno Regis e la segreteria nazionale dell'IPRI (la sezione italiana dell'IPRA) con Giovanni Salio, Angela Dogliotti Marasso, Enrico Peyretti. Nei corsi annuali hanno preparato decine di obiettori di coscienza e di formatori a una gestione nonviolenta dei conflitti. Ottimo tra l'altro è il lavoro di ricerca che svolge sui rapporti tra economia, ecologia e nonviolenza, portando avanti una critica allo sviluppo dominante, utilizzando i modelli elaborati da Galtung. A Rovereto c'è l'Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace, diretta da Giuliano Pontara, tra i primi studiosi del pensiero di Gandhi in Italia. Il centro di Rovereto ha acquistato notorietà per i suoi corsi di formazione al peacekeeping nonviolento nei conflitti internazionali. A Napoli operano Antonino Drago, storico della fisica, e Giuliana Martirani, docente di geografia politica ed economica, persuasi amici della nonviolenza, soprattutto Drago da oltre venti anni sostiene un centro di studi sulla Difesa Popolare Nonviolenta (DPN), che ha organizzato decine di convegni e curato innumerevoli pubblicazioni sull'argomento. Infine Pisa, la prima Università italiana ad istituire un corso di laurea in Scienze per la Pace, con una caratterizzazione fortemente multidisciplinare, grazie agli apporti dei docenti del CISP (il Centro Inter-dipartimentale di Scienze della Pace, nato nel 1998).
78 Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, (ed. or. 1996), Milano, Esperia, 2000.
79 Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 1959, (ed. inglese 1949), p. 116.
80 "Se si vuole abolire la guerra, c'è bisogno di strumenti sostitutivi di lotta, in campo psicologico, sociologico e politico", in Gene Sharp, The Need of a Functional Substitute for War, in "International Relations", London, vol. III, no. 3, april 1967, p.201.
81 Cfr. Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 1959, (ed. or. 1949), pp. 87-94.
82 Ivi, p.116.
83 Gene Sharp, Social Power and Political Freedom, Boston, Porter Sargent, 1980, p.273.
84 Cfr. B. Malinowski, Antropology, "Encyclopaedia Britannica", primo volume supplementare, London and New York, 1926, p. 132.
85 Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 1959, (ed. or. 1949), p. 48.
86 Ivi, pp.49-50.
87 Lewis Coser, Le funzioni del conflitto sociale, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 55.
88 Cfr. anche : John Bennet & Melvin Tumin, Social Life: Structure and Function, New York, Alfred Knopf, 1948, p.245. Theodor Newcomb, Social Psychology, New York, Dryden Press, 1950, p. 351. Talcott Parsons & Edward A. Shils, Toward a General Theory of Action, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1951, p.5.
89 William James, The Moral Equivalent of War, in "McClure's Magazine" August, 1910.
90 Walter Lippman, The Political Equivalent of War, in "The Atlantic Montly" Boston, August, 1928.
91 Walter Lippman, cit. in Gene Sharp, The Need of a Functional Substitute for War, in "International Relations", London, vol. III, no. 3, april 1967, p.202.
92 Toh Swee-Hin e Virginia Floresca-Cawagas, Institutionalization of Nonviolence in "Encyclopedia of Violence, Peace & Conflict", San Diego, Academic Press, 1999 Vol. 2, pp.211-222.
93 Ivi, p. 222
94 Cfr. Martin Shaw , Introduction: War and Social Theory, in Martin Shaw, War , State, and Society, New York, St. Martin`s, 1984, pp. 1-21. Lester R. Kurtz, War and Peace on the Sociological Agenda, in Terence C. Halliday & Morris Janowitz, Sociology and its Publics, Chicago, Univercity of Chicago Press, 1992, pp.61-98.
95 Cfr. per l'Italia Fabrizio Battistelli, Marte e Mercurio. Sociologia dell'organizzazione militare, Milano, Angeli, 1990.
96 Cfr. Anne Nass, Gandhi and Croup Conflict, Oslo, Universitetsforlaget, 1974, p.116. Sharp, invece, usa in modo interscambiabile tecnica e metodo.
97 Aldo Capitini, Le tecniche della Nonviolenza, Milano, Feltrinelli, p. 10.
98 Ivi, p.12.
99 Krishnalal Shridharani, War Without Violence: A Study of Gandhi's Method and its Accomplishment, first ed New York, Harcourt, Brace and Company, 1939, p. 316.
100 John Dewey, Logic, The Theory of Inquiry, New York, Henry Holt and Company, 1949, p. 497, cit. in Joan V.Bondurant, Conquest of Violence. The Gandhian Philosophy of Conflict, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1958, new revised edition, 1988, p. 232.
101 Joan V.Bondurant, Conquest of Violence. The Gandhian Philosophy of Conflict, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1958, new revised edition, 1988.
102 Mohandas K. Gandhi, Antiche come le montagne, Milano, Comunità, 1963, pp.137-8.
103 Aldo Capitini, Le tecniche della Nonviolenza, Milano, Feltrinelli, p. 11.
104 Mohandas K. Gandhi, cit. in Aldo Capitini Le tecniche della Nonviolenza, Milano, Feltrinelli, p.19.
105 Joan V. Bondurant, Conquest of Violence. The Gandhian Philosophy of Conflict, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1958, new revised edition, 1988, pp. 15-35.
106 Joan V. Bondurant, cit. in Aldo Capitini Le tecniche della Nonviolenza, Milano, Feltrinelli, p.11.
http://www.berry.edu/phs/
http://www.prio.no/publications/publication.asp?PublicationID=4621
http://www.unifem.undp.org/resources/assessment/chapter06.pdf
Articoli correlati
- La Teoria dei Giochi di fronte alla Pace
Matematica e pacifismo
E se anche la matematica dicesse che bisogna scegliere la Pace e non la guerra?19 marzo 2005 - Alessio Di Florio
Sociale.network