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I bracciali contro la povertà prodotti dal lavoro forzato

11 settembre 2005
Sabina Morandi
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Dunque: quelli gialli sono contro il cancro, quelli rossi contro l'Aids, quelli verdi contro gli abusi infantili. Il verde scuro è contro la distrofia muscolare, il rosa contro il tumore al seno e il grigio contro quello al cervello. Il blu scuro è contro l'abbandono degli animali, l'azzurro contro il gioco d'azzardo e il nero è contro Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe che si è guadagnato il pubblico ludibrio per avere osato requisire la terra ai bianchi. E' solo un piccolo saggio di quell'arcobaleno dell'impegno sociale incarnato dalla moda dei braccialetti a tema al polso di star, atleti, politici e persone comuni. Una moda che ha toccato l'apice nel primo White Band Day, il giorno del braccialetto bianco che è diventato il simbolo della lotta contro la povertà.

Il primo luglio scorso, nella giornata di mobilitazione globale contro la povertà, gigantesche versioni del braccialetto sono state appese sull'Harbour Bridge di Sidney, sulla porta di Brandeburgo a Berlino e perfino sul parigino Trocadero, mentre il formato normale, in stoffa o silicone, faceva mostra di sé al polso di Tony Blair, Claudia Shiffer e Bill Gates, tutto per manifestare l'impegno solenne a consegnare la povertà alla storia, ovvero Make Poverty History, fortunato slogan del Live8 2005. La patinata mobilitazione ha rischiato però di deragliare su di un piccolo incidente di percorso messo prontamente a tacere dai media. Il 30 maggio scorso, The Scotsman, quotidiano scozzese di sinistra, pubblicava un articolo recante, già dal titolo, tutti i presupposti per far scoppiare lo scandalo: «I braccialetti anti-povertà prodotti nelle fabbriche del sudore», ovvero i fatiscenti capannoni cinesi dove il lavoro forzato è di casa. Nel tentativo di rintracciare l'origine dei bracciali bianchi venduti (a circa un euro l'uno) da più di 400 organizzazioni caritatevoli, James Reynolds, autore dell'articolo, si è imbattuto in un paio di rapporti stilati da alcuni ispettori che, nell'aprile scorso, erano entrati negli stabilimenti incaricati della fabbricazione, entrambi in Cina, dove avevano riscontrato condizioni di lavoro drammatiche, in aperta violazione sia della legge cinese che degli standard internazionali stabiliti dalla Ethical Trading Iniziative.

In particolare è risultato che nella Tat Shing Rubber Manufacturing Company di Shenzhen, vicino a Hong Kong, oltre a non fornire alcuna protezione per la lavorazione di sostanze pericolose, si faceva ampio uso del lavoro forzato attraverso il metodo dei depositi finanziari, una prassi illegale che consiste nel pretendere, dal neo assunto, un deposito pari a qualche mese di salario. Vincolati dal versamento da cui vengono arbitrariamente detratte le spese d'alloggio, di vitto e le eventuali multe, alla fine i lavoratori si ritrovano letteralmente sequestrati dai padroni. Il rapporto ha anche rivelato che, insieme al divieto d'associazione, alla Tat Shing è largamente diffuso il lavoro straordinario notturno non pagato, tassativamente vietato anche dalla legge cinese, e che, in sostanza, si lavora sette giorni su sette, dodici mesi l'anno. Del resto non è che alla Fuzhou Xing Chun Trade Company, l'altra fornitrice della campagna contro la povertà, le cose vadano meglio. Qui i lavoratori vengono pagati meno del salario minimo garantito per legge - alcuni addirittura la metà - e anche qui, per rispettare le consegne previste per il primo luglio, si è lavorato di notte, sette giorni su sette.

Naturalmente, appena informato dell'incresciosa questione, Sir Bob Geldof è andato su tutte le furie. «Le associazioni debbono immediatamente cancellare ogni contratto con queste imprese» ha dichiarato a The Scotsman «oppure devono stabilire una data improrogabile entro la quale le condizioni di lavoro vanno migliorate». Non ha chiarito in che modo i suddetti miglioramenti potrebbero venire verificati, ma è riuscito a uscire pulito da una rivelazione che avrebbe potuto compromettere la sua immagine. Chi ne è uscito danneggiato sono state invece le principali associazioni chiamate in causa, Oxfam, Christian Aid e Cafod, con le ultime due ad accusare la prima di avere saputo ben prima del giornalista scozzese, ma di aver mancato di avvertirle. In effetti la stessa Oxfam - antica organizzazione britannica ramificata nei cinque continenti - ha ammesso di avere avuto dei sospetti sulle condizioni di lavoro nella Tat Shing, alla quale aveva commissionato 10 mila braccialetti nel novembre 2004. Sono stati proprio questi sospetti a spingere l'associazione a rivolgersi a un altro fornitore, appunto la Fuzhou Xing Chun, alla quale di bracciali bianchi ne sono stati ordinati un milione. «Come tutti quelli che fanno parte della coalizione Make poverty History - ha dichiarato il portavoce - Oxfam è allarmata dai rapporti che sono usciti dalle fabbriche cinesi che ci riforniscono e abbiamo già avviato delle azioni formali a riguardo». Tuttavia, nel rispondere all'accusa rivoltale dalle altre charities, Oxfam ha ammesso che forse sarebbe stato meglio «mettere le nostre preoccupazioni nero su bianco» invece di limitarsi ad avvertire telefonicamente. Resta il fatto che anche la seconda scelta si è rivelata disastrosa e ha richiesto un monitoraggio ravvicinato da parte dell'associazione britannica.

Il problema però è che, una volta avvertite, anche le altre charities hanno potuto fare ben poco. Cafod, che ha acquistato 120mila braccialetti dalla Tat Shing, dice di essere stata ingannata. I proprietari, ha dichiarato il portavoce, avevano garantito che nell'impianto non si facevano straordinari e che le condizioni di lavoro erano buone per poi scoprire, due mesi prima dello show planetario, il lavoro forzato e gli standard di sicurezza inesistenti. Anche Christian Aid, 500 mila bracciali forniti dalla stessa fabbrica, non ha potuto stracciare il contratto. Come Cafod ha deciso di mantenere la propria strategia di «impegno costruttivo» con la Tat Shing, nel tentativo di costringere la proprietà a rispettare gli standard internazionali.

Se questa brutta storia dimostra qualcosa non è certo la cattiva fede delle associazioni quanto il fatto che, quando si tratta di problemi così estesi e complessi, la buona volontà può far poco, come sostengono da anni gruppi più politicizzati e meno assistenziali. Come la povertà di quattro quinti della popolazione mondiale non si risolve con la strategia delle donazioni senza mettere in discussione un sistema di sfruttamento globale connaturato con il modello di sviluppo dominante, così non basta l'impegno per muoversi nello show-business della carità senza farsi infangare dai peggiori aspetti della globalizzazione. Con buona pace di tutti i miliardari che hanno creduto di mettersi a posto la coscienza semplicemente indossando un braccialetto.

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