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La marcia della Pace, l'intuizione di Capitini

11 settembre 2005
Lidia Menapace
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Quando nel 1961 Capitini con altri pochi "matti innocui" lanciò la prima marcia Perugia-Assisi per la pace, la sorpresa fu grande, per vari motivi: il principale che inaspettatamente un migliaio di persone vi prese parte, un numero inatteso e significativo, che dava un forte e limpido segnale in contrasto, in avanti, in alto, insomma un segnale profetico razionale. La straordinaria mistura di fervore di stampo religioso e il contenuto di ragione cuore e diritto sembra essere il segreto che regge lancia e vivifica l'iniziativa. Parlò subito a chiunque si fosse messo in ascolto e fu subito attaccata da molte parti, con astio, cattiveria, irrisione, ma altrettanto subito fu adottata da molti e molte con speranza testardaggine tenacia coraggio e pazienza, con voci calme e forti, con gesti semplici ed eloquenti. E con allegria.

Da allora la Marcia prende il via, inizia un cammino, dà segnali sempre più forti, diventa una delle istituzioni storico-politiche del nostro paese, dando voce e corpo a un sogno non svagato e sentimentalistico, bensì a una decisione e progetto, scommessa di ragione, rischio di volontà: una impresa politica di tutto rispetto e di pieno valore. Tanto che pur con mezzi sempre modesti e da luoghi marginali e da persone non fornite di strumenti di propaganda si radica, cresce, diventa un faro, una meta, una fonte, una relazione tra numerosi/e, poi molti, poi moltissimi, poi moltitudini, e segna eloquentemente le più importanti tappe della politica del nostro paese.

Realizza il paradosso di collocarsi ad Assisi dove una testimonianza di fede è stata ridotta a mostra e mercato, gestita egoisticamente (mai la Marcia è stata invitata alle iniziative "ecumeniche" ufficiali intitolate alla pace), dove i frati convivono con ammistrazioni di sinistra, e sono costretti a riconoscere che la Marcia è molti passi avanti a loro persino nel "francescanesimo", soprattutto quello recente di Fini che quasi arruola Francesco tra i Crociati.

Tutto ciò non è senza contrasti: per tutta la fase dell'egemonia democristiana lo scontro non è visibile o quasi, ma c'è, la Dc si avvicina e ritrae, le associazioni cattoliche pure, con varie posizioni. Ma siamo prossimi al Concilio e al grande sogno riformatore di Giovanni XXIII Kennedy e Krusciov: la Marcia diventa un potente segnale delle speranze dell'ora. La teologia dell'annuncio cammina con la Marcia in nome di una umanità che vuole guarire dalle ferite attraverso la pratica tenace coraggiosa ferma dell'azione nonviolenta. E la "Pacem in terris" sanziona una presa di distanza della Chiesa dalla guerra "giusta" e definisce la guerra invece "alienum a ratione", una cosa via di testa.

E' già una posizione grande. Ma a me pare che almeno due altre siano le grandezze della Marcia. La prima è che essa è sempre stata, nonostante i ripetuti e non smessi tentativi di strumetalizzazione, di legarla a scopi di parte, di arruolarla a fini particolari, autonoma, indipendente, se stessa. Quando Capitini cominciò il cammino la decisione di agire fuori dal sistema dei partiti fu decisiva e coraggiosissima: allora il sistema dei partiti identificava la democrazia tout court, non era ancora stato ridotto a un miserabile luogo di conservazione e autoconservazione, un filtro che frena le presenze e il ricambio, lo scambio tra le persone. Dunque stare fuori voleva dire farsi giudicare da molti come uno che sta contro, essere frainteso, avere tagliati molti canali, e insomma se non altro incorrere in una fatica da bestie per ottenere risultati che potevano sembrare marginali e modesti.

Ma ciò non distolse Capitini da quella sua decisione, presa senza gioia nè rivalsa, con dolcezza e determinazione. Il partito a lui sembrava già uno strumento politico insufficiente, benchè importantissimo. Forse sognava (se non gli impresto dolosamente un mio sogno) un sistema politico complesso, nel quale forme generaliste come i partiti potessero convivere pattuire agire insieme e alla pari con i movimenti, forme pienamente politiche di impianto olistico.

Oggi vediamo che ciò è maturo, eppure la soluzione ancora non arriva, le forme politiche diventano sempre più spurie e incontrollabili, il potere più oligarchico, e la limpida e necessaria decisione di aprire spazi luoghi percorsi sistemi risorse azioni dirette non si estende, non arriva. Noi stessi che pensiamo di farne parte non abbiamo ancora attuato una pratica una cultura che consenta di applicare la grande lezione: i conflitti ci sono, negarli è violenza e stupidità, bisogna riconoscerli, analizzarli e impegnarsi a trovare per ciascuno di essi un governo nonviolento che ne avvii e accompagni la soluzione, la risoluzione, la trasformazione in una meta più avanzata.

La Marcia suggerisce una metodologia politica fatta di partecipazione e individuazione. Le masse che vi prendono parte sono tutte innervate da differenti varie multicolori e molteplici culture, sindacati associazioni, amministrazioni, l'antimilitarismo, luoghi di ricerca, associazioni di Donne, organizzazioni religiose, politiche, sociali, di tutto e senza confusioni: la Marcia realizza quella molteplicità armoniosa che dovrebbe essere presa a modello da ogni coalizione politica del tempo della complessità, quando è impossibile chiedere unità come uniformità, pluralismo come ripetizione della stessa forma e mediazione come appiattimento.

Finora vediamo nel centrosinistra uno sfibrante allenamento a pratiche non utili; quanto al centrodestra la complessità si restringe a esercizio stanco e logorante e infine statico, immobilistico del potere del capo. La Marcia realizza già nel simbolico e praticamente un altro modello di gestione della politica, che assomiglia e anticipa alcune delle pratiche femministe, ma purtroppo segna un esempio che non viene trasformato in continuità, modalità dell'agire, struttura di esercizio dell'azione politica: una grande occasione che rischia di andare sprecata.

Ma l'altra grandissima lezione etica e politica di Capitini è il suo atteggiamento non proprietario di fronte alla sua creatura. E' vero che chiedeva di andare alla Marcia riconoscendone la piattaforma: ma ciò non fu mai da parte sua una burocratica forma di censura controllo, emarginazione. Era invece un appello alla coscienza, come a dire: chi non crede che la pace sia il primo problema politico etico umano del tempo, faccia a meno di venire; ma se viene e tace e si dispone all'ascolto, tuttavia può darsi che si convinca (e faccia sua la piattaforma); chi invece viene e parla e sparla e dice e disdice e fa cose o ne ha fatte che contraddicono la sua presenza, farebbe meglio in coscienza a dichiarare a se stesso che non può essere presente, si metta ai margini, si disponga tra gli spettatori: altrimenti obbligherà qualcuno della Marcia a uscire come segno di inaccettabilità. Ricorderete che fu fatto dalle Donne in nero, nella Marcia che seguì la guerra del Kosovo, e più volte in questi ultimi travagliati anni la cosa si è ripetuta.

Sicchè non si tratta di usare le parole di Capitini come rivalsa un po' oppressiva e burocratica verso chi è poco entusiasta di una Marcia, come quella di quest'anno che pare reticente sulle questioni più spinose: Iraq, Palestina, Israele, Iran, Beslan, Tsunami, Katrina. E' mai possibile che non si debba prendere posizione su una questione come quella dei "saccheggi" a New Orleans? Ma che deve fare una folla affamata lasciata a se stessa? Si prende quello che le serve come può; e se nel suo paese essere armati è un diritto costituzionale, spara. E la risposta è che viene a sua volta sparata dall'esercito nazionale, una guerra civile dei ricchi che usano poveri armati e addestrati contro altri poveri armati male e non addestrati.

Abbiamo già dimenticato che all'occupazione di Baghdad seguirono saccheggi (come ci furono da noi quando caddero tutti i poteri costituiti e la fine della guerra significò anche la fine di una qualsiasi norma, per quanto iniqua). Ma a Baghdad le autorità religiose chiesero che ciò che era stato preso venisse riportato nelle moschee per essere restituito e fu riportato: non è un segno, persino all'interno di una cultura come quella mussulmana che non ripudia la violenza per principio, che una autorevole voce disarmata vale e funziona più di tutte le violenze armate?

A me pare che ci dobbiamo prendere il tempo per discutere e decidere: l'azione nonviolenta ha bisogno di una ulteriore analisi e definizione, di altri orizzonti, decisioni e traduzioni istituzionali. Tutto ciò è più importante di qualsiasi furberia. Non abbiamo bisogno di essere furbi, dobbiamo essere intelligenti ed equilibrati, cioè volere l'impossibile come possibile, un "altro" mondo.

Se tutto ciò è possibile ai nostri occhi coscienze volontà e decisioni forti e allegre, lo si deve al fatto che Capitini abbandonò a chi ne voleva essere parte la sua amatissima creatura: il suo atteggiamento non proprietario è assolutamente innovativo e rivoluzionario. Alla marcia si partecipa, non ci sono iscrizioni nè statuti formali anagrafi burocrazie, ma patti anche non scritti, però tenuti fermi dalla volontà comune e mai stracciati. Questo aspetto è meno citato, eppure è importantissimo in una sinistra che non è capace di trasformare criticamente il suo passato e o lo imbalsama quasi superstiziosamente o lo cancella. Sarebbe davvero il caso di provare a lasciare che esso sia di chi lo vuole leggere interpretare proporre. Un pasticcio? Può darsi, ma una confusione grande sotto il cielo è meglio che dover attraversare aridi deserti di rovine.

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