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Viaggio in Sri Lanka a otto mesi dallo tsunami.

Impressioni d'Oriente

Sono passati diversi mesi dallo tsunami di S. Stefano. I riflettori si sono spenti, ma la vita continua ...
3 ottobre 2005
Saverio Ojetti

la furia distruttrice dello tsunami


“La violenza dell’acqua che spazza via ogni cosa ed cosa inghiotte e trascina con sé sin nel profondo dell’abisso del suo ventre ingordo. E’ questa l’immagine che mi tormenta ancora dopo sette mesi più di ogni altra, e non riesco a togliermela dalla testa.” Sam ha perduto una moglie ed un fratello nello tsunami, vive in un rifugio temporaneo, la sua casa è stata totalmente distrutta. Aspetta i fondi necessari per cominciare una ricostruzione. “Il governo promette, la gente di fuori promette, quelli come te che vengono qui promettono, ma noi siamo ancora senza casa. Quello che ci serve sono regole, chiare e non soldi. Sam guida il suo taxi che scivola lento lungo la strada che dalla capitale Colombo porta a sud.
Il pomeriggio del 26 Dicembre scorso lo Sri Lanka cominciava a contare i propri morti. Dando peso alle ultime stime ufficiali del governo cingalese: 30.957 risultano ad oggi le vite strappate alla terra dalla furia dell’acqua. 5.637 persone sarebbero ancora considerate disperse, mentre 578.224 sarebbero gli sfollati, i senza casa, i profughi silenziosi del loro stesso paese.
“Guarda. Quella era la vecchia ferrovia – mi indica Sam, - le onde si sono trascinate via i vagoni come fossero sacchi di sabbia. Le rotaie si sono letteralmente spezzate e le traverse in cemento sradicate dal terreno”. Una massa di rotaie rosse di ruggine, contorta dalla forza delle acque, appare in tutta la sua violenza come a voler testimoniare il passaggio della creatura ribelle che si è confusa nella schiuma della propria follia. Decine di persone morirono in quel tratto.
Hikkaduwa è un piccolo villaggio costiero a poco più di un centinaio di chilometri a sud della capitale con una lunga striscia stretta di sabbia dorata, orlata da una infinità di palme da cocco. Per 180 gradi la vista si perde in tanta bellezza e novità, ma un girare di sguardo appena, riporta subito ad una realtà viva ma surreale, attiva ma persa.
La costa da una parte, con le sue lunghe spiagge ripide e strette e dall’interno a pochi passi, che tutto lascia immaginare fuorché al mare. A separare le due realtà tropicali la strada, che letteralmente ne spezza la vita, con la sua lunga e continua fila di costruzioni ammassate a destra e a sinistra come a volerla proteggere dalla foresta che avanza e dall’imprevedibilità di quel mare mosso nel suo moto continuo.
Il maremoto dello scorso Dicembre ha avvicinato, quasi per un attimo fuso assieme le due anime. E’ impressionante considerarlo, ma la vita è ripresa, e lo ha fatto sorridendo, nonostante la tristezza del ricordo vibri ancora umida nelle pupille dilatate della gente che vive lungo la strada principale che porta a Sud.
Unawatuna. All’apparenza un villaggio popolato da anime morte, ma poi a guardare bene è pieno di vivi. Più cerco più ne appaiono, brulicando tra le architetture cariate, a centinaia.
Il villaggio in rovina è corroso dai segni del passaggio della grande onda, dall’oceano non ancora stanco e dal sole. Tutto è puntellato da travi. A volte cede un balcone, a volte un davanzale. Rumori sinistri sotto un cielo scuro ed afoso.
“Ero seduto su quella sedia, nella veranda a pochi passi dal mare quando ho visto arrivare la prima onda di tsunami. Ho trascinato con me quello che ho potuto e ho cominciato a correre verso l’interno. Il maremoto si è portato via mia madre e quattro persone che lavoravano per me”, racconta Sunil, anziano proprietario di una guest house lungo la spiaggia di Unawatuna. Il suo edificio è crollato, perché la struttura in cemento non ha resistito alla violenza dell’acqua. Ora è tutto ripreso, alcune stanze sono state già ristrutturate, alcune persone lavorano rumorosamente per montare le ultime finestre e assestare alcune travi sul tetto. “Ho rischiato di perdere l’attività, ma ho trovato la forza per ricominciare. Non vivo più nell’incubo ma mi nutro di speranza”, ha poi aggiunto Sunil, chiuso dietro ad un sorriso quasi minaccioso, mentre un uomo rastrella la spiaggia. I detriti sono gli stessi che il mare ha trascinato qui con sé sette mesi fa. Bottiglie di plastica, corde lacere di reti da pesca, pezzi di ebano e tronchi fradici di palma, schegge di barca, cartoni e tessuti di ogni genere.
“Ho perduto mio padre e mio fratello nel maremoto. Stavano riparando la barca a poche decine di metri dalla costa quando sono stati travolti dalla forza delle onde”. Suresh, autista di un rumoroso tuk-tuk non ha potuto seppellire i suoi morti vicino casa, “il mare gli ha trascinati con sé sino ad inghiottirli, non sono più riuscito a trovare i loro corpi”.
Da queste parti le onde di maremoto non sono arrivate direttamente, ma hanno dovuto fare una leggera rotazione attorno alla costa sud-ovest dell’isola. La forza di propagazione delle acque pare però non aver perduto l’infame potenza.
Si tenta di ricostruire ...
Le organizzazioni non governative internazionali stanno apportando il loro aiuto in maniera piuttosto endemica nell’area ovest ma l’accanimento della solidarietà internazionale appare in tutta la sua forza d’impatto con le fragili realtà locali. Le organizzazioni si dividono gli spazi all’ultimo metro, spesso non collaborano tra loro facendo un uso spropositato degli spropositati introiti degli ultimi mesi, con il risultato di infrangere quel sottile equilibrio economico che con tanti sforzi il paese aveva creato. Molti operatori di Ong confermano quanto il loro operato sia troppo invasivo, seppur necessario. Chi aveva una barca ora ne ha due, tre, quattro se ha amici importanti. Chi aveva una casa ora ne ha due, le intesta a parenti morti a figli lontani.
“Abbiamo costruito decine di temporary shelters, siamo in procinto di consegnarne altre trenta a breve. Entro Ottobre completeremo la costruzione di almeno 90 permanent house. La gente che ha perso completamente casa non sopporta l’idea di doverla ricostruire più lontana per via della buffer zone. Il governo ora impone regole rigide, anche se poi non sempre tutti le rispettano”, racconta Carlo, responsabile di una ong italiana nella zona di Hikkaduwa.
Unawatuna è un villaggio a circa 180 chilometri a sud di Colombo. Circa 150 persone sono morte qui durante lo tsunami, tra turisti stranieri e gente del luogo. La vita è ripresa ma negli occhi della gente intanto continuano violenti a bruciare ricordi. Dalle loro bocche scure suoni che diventano storie, che riflettono sempre con la stessa luce negli sguardi umidi di chi le racconta.
“Ho perduto la casa. Quando l’onda è arrivata sono corso verso l’interno, con la mia bambina di pochi mesi in braccio. Mia moglie era con me. Mia figlia di sette anni era lontana da casa, era sulla spiaggia. La chiamavo, la chiamavo con tutta la forza che avevo in corpo ma poi l’onda è arrivata e non ne ho avuto più notizie.” Jaya è un massaggiatore e cultore della medicina ayurvedica di 50 anni per ora vive in pochi metri, sotto una tenda ben ancorata alle fondamenta lisce della sua vecchia casa per non voler abbandonare la sorgente della sua vecchia vita. Poco più in la le mucche pascolano venerate tra le lapidi che segnano la poca distanza tra la vita e la morte.
Alcuni rifugi temporanei sono costruiti in lamiera, altre in legno ma con tetti in metallo. Il sole quando buca le nuvole infuoca e la gente ha difficoltà a restare chiusa in casa, sguscia fuori, avvolta nelle sua lenzuola colorate, a cercare il riparo di una tenda. Per i più fortunati case di legno e coperture “alternative”, che assicurano un riscaldamento dell’ambiente meno violento.
A Tangalla, villaggio a circa 200 chilometri a sud ovest di Colombo, fiori viola, bianchi e rosa di buganville colorano e divengono l’anima del diverso.
Satir è salito sul tetto con i suoi tre figli e la moglie. “Le onde distruggevano tutto quello che incontravano. E’ stato terribile. Mia madre era a pochi passi da me, l’acqua l’ha spazzata via come un frutto marcio, per lei non c’è stato nulla da fare”, racconta commosso.
A Tangalla sono morte 78 persone. “Una donna tedesca era uscita da poco per andare in spiaggia. Erano le 9:26 di mattina, non se ne è saputo più nulla”, continua Satir a raccontare mimando la violenza dell’acqua.
La zona che affaccia sul mare per circa un paio di chilometri è stata completamente distrutta. Davvero poche strutture si sono salvate. Qui le onde di maremoto hanno battuto sulla costa con tutta la loro forza. Il mare è aperto, nessuna barriera naturale poteva evitare il disastro.
La strada che da Matara prosegue lungo la costa passando per Tangalla, ha subito seri danni, così bisogna fare qualche deviazione all’interno. Più si continua a scendere verso sud-est, più le deviazioni divengono ordinarie. Molti villaggi lungo la costa qui sono irraggiungibili con la viabilità ordinaria.
“Ho perduto i miei due figli – racconta Deelep, mostrandomi la foto di una splendida bambina e facendo fatica a trattenere le lacrime. – Lei è Sarah, ha due anni, è dispersa da sette mesi, ma non posso accettare l’idea di averla perduta per sempre”. Deelep ha perduto anche la madre nello tsunami, non ha più la casa e vive da Satir, il giovane gestore di una guest house che ha da poco riaperto le sue prime stanze. Deelep è pescatore. Oltre i familiari ha perduto anche la barca. A casa di Satir una moltitudine di bambini riaccende le speranze ma non stempera i ricordi che bruciano ancora con violenza nelle loro menti. Nei loro occhi disillusione, sanno che la vita qui è cambiata ma sanno anche che presto tornerà alla normalità.
“Alcune barche sono arrivate grazie ai donatori e agli interventi del governo. Ma molti pescatori sono ancora senza. Così non possiamo andare avanti ancora per molto”, aggiunge Deelep, teso in un sorriso scuro dietro i suoi baffi fini. Decine di barche donate dagli organismi internazionali perse lungo le spiagge di tutta la costa ovest, sfoggiano adesivi e cartelli colorati con le loro sigle ed i loro nomi, a voler testimoniare l’inutilità di un intervento tempestivo ma superfluo.
Il villaggio di Tangalla pare spezzata da una linea d’ombra proprio all’altezza della laguna. Negozi, mercato, traffico di mezzi e di uomini lungo la strada esterna di collegamento al villaggio, e poi il non luogo. La negazione reale di una esistenza che prima brulicava lungo le strette vie nelle boscaglia che portano fino al mare.
“Oltre alle nostre vite, le onde si sono trascinate via le nostre speranze. Ricominciare è per noi questione di orgoglio e di necessità, di rivincita, per dare un senso a quello che ci è stato portato via”, aggiunge Satir nel suo volto scuro che vibra alla luce della candela.

In un autobus rigonfio di gente e di miseria, lascio la città del Sacro Dente alla volta dell’Est. Il villaggio di Trincomalee è al confine del territorio nord-est dell’isola sotto il controllo Tamil. Check point e uomini dell’esercito si fanno sempre più numerosi, a sorvegliare le strade. Sono ad Uppaveli, a circa 15 chilometri a nord del villaggio portuale di Trincomalee. “Da circa una settimana le forze dell’esercito governativo hanno triplicato la loro presenza - mi racconta Sara, volontaria dell’Unicef. - Da domenica si sono intensificati gli scontri a fuoco tra le due parti. Quattro alte cariche della milizia ribelle, le LTTE (Tigri per la Liberazione del Tamil Ealem), sono state uccise da forze di un altro gruppo ribelle. E’ rimasto ferito gravemente anche un bambino. Ne è seguita una rappresaglia. Il 13/07, 11 soldato dell’esercito cingalese sono stati feriti, tre in modo grave. La tensione resta altissima, si teme una reale escalation delle violenze”. Non è un buon momento per stare qui ma il posto è fantastico
Si sentono alcuni spari in lontananza. Fuori sulla strada, un check point ogni 50 metri, il resto sembra una continua trincea in un territorio dove lo tsunami ha strappato alla vita più di 300 persone, distruggendo migliaia di case. Restano i bambini a correre sulle strade tra le carcasse delle vacche al sole. Il rumore di martello che sbatte su chiodi che andranno a sorreggere la nuova vita che ricomincia è continuo e non si lascia confondere.
Gamin lavora in Italia e guadagna bene. Quando è qui, vive con il padre, la madre e suoi quattro fratelli sotto un tetto di paglia e basse mura.. Manda i soldi a casa. Sta costruendo una nuova abitazione per la sua famiglia. Lo tsunami gli ha distrutto la vecchia, “aspettare l’intervento del governo significherebbe aspettare per anni. Non voglio veder morire mio padre sotto un tetto di paglia”, afferma Gamin dando peso a tutta la sua determinazione.

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