L'ottobre missionario diventi l'ottobre delle chiese locali
Come molti sapranno, il mese d’ottobre per il cristiano, è dedicato alle missioni.
La storia dell’Ottobre missionario nasce con Papa Pio XI, che nel 1926 istituì la Giornata Mondiale Missionaria, per la “ricostruzione” delle missioni distrutte durante la prima guerra mondiale.
Si può affermare che questa giornata, con il mese missionario che la contiene, ha un’origine dovuta anche all’emergenza, un dopoguerra.
Credo sia nelle emergenze, o nella nascita di un’attività, che si fanno gli investimenti finanziari, o i “miracoli”.
La Casa Bianca sta chiedendo altri fondi (51,8 miliardi di dollari) per gli aiuti e la ricostruzione del dopo ciclone Katrina, ma non credo che questa sarà una situazione perenne: gli stati colpiti poi si dovranno sostenere da soli ad un certo punto.
L’obbiettivo è quindi l’autosufficienza ed il mantenimento della situazione senza troppi interventi dall’esterno, senza troppi “miracoli dal cielo”. Questo vale sia nel cinico mondo delle imprese commerciali, sia nel “passionale” campo umanitario.
E’ necessario forse un aggiornamento di vedute, rispetto a quelle della sua nascita, per l’ Ottobre missionario”. I tecnici umanitari credo che lo sappiano, ma questo concetto forse non è penetrato a fondo nelle persone di buona volontà che li seguono.
Scrivo questo perché l’autosufficienza è un traguardo obbligatorio per le Chiese del sud del mondo. Un traguardo che ancora è molto lontano.
Ne hanno parlato i Vescovi africani al Sinodo. Un Vescovo del Mali, con molti altri, ha constatato con nervosismo la propria fragilità per la prolungata dipendenza dagli aiuti finanziari d’origine straniera, che lo obbliga a sottoporre ad altri i propri progetti pastorali per avere dei finanziamenti.
Per queste Chiese, come svilupparsi da sole se restano delle eterne mendicanti?
Molti Vescovi africani sono oggi all’atto pratico dei commessi viaggiatori: sono spesso in Europa a cercare fondi per strutture nate da aiuti umanitari esteri, strutture che adesso non sono sostenibili con i soli sforzi locali. E’ giusto ciò?
Forse per noi occidentali è meglio cominciare ad analizzare questo nostro dare fondi con buon cuore e soprattutto cominciare a non chiamare più le Chiese africane come le “nostre missioni”.
Credo che il termine più giusto sia “Chiese locali”. Se qui a Nyarurema dove sono io, chiedete ad un rwandese dove è la "missione", può darsi che non sappia rispondervi. Ma se gli chiedete dove è la chiesa locale, allora v’indica subito la parrocchia di Padre Dion, con il suo centro pastorale, la scuola, ecc…
Il sud del mondo oggi ha molto più bisogno di persone che condividano e lavorino sul territorio, che di soldi, nemici dell’autonomia.
In verità, si continuano a mandare sempre molti soldi. Troppi, in rapporto alle persone condivise.
Così ci diceva apertamente un altra volontaria di qui, dopo aver letto il manifesto di “Paese in festa per i bambini del Rwanda”, una festa paesana per raccogliere fondi in Italia.
Analizzando la lodevole iniziativa, mi viene però il sospetto che si punti tutto, se non quasi, sulla raccolta fondi, che qui sono già in abbondanza in rapporto a qualcuno che venga invece a capire sul territorio come investirli socialmente. C’è più una sensibilizzazione sul metter mano al portafogli che nel “reclutamento” umano missionario. E nella conoscenza della missione.
Recita il manifesto dell’iniziativa:
“Perché intervenire? Per partecipare ad un’opera di bontà.
…nella missione Nyarurema in Rwanda c’ è bisogno anche del tuo contributo per terminare e fornire strutture ad un asilo nido in soccorso dell’infanzia denutrita ed ammalata di AIDS.”
Per la cronaca, l’asilo qui a Nyarurema è già stato terminato e finanziato (forse si riferiscono ad un futuro altro asilo che per adesso non ha il fondamentale benestare del parroco ?) e chi va all’asilo non è un bambino malnutrito, questi va piuttosto ad un centro nutrizionale.
Scrivo questo non per smontare la festa paesana che ci invierà fondi, ma per tentare di ricalibrare alcune cose. Sono sicuro che la raccolta fondi è organizzata onestamente.
E’ però il sistema di far leva sulle coscienze della gente che mi fa pensare. Questo investire di meno sulla conoscenza della missione, questo essere solidali sopratutto con i soldi.
Perché lo sbandierare sopratutto il dolore altrui? L’essere vittima che è altro per noi?
Oggi giorno, nelle nostre monotone vite occidentali, c’è una costante ricerca di nuove emozioni. Sicuramente sentirmi buono e salvatore di qualcuno è una grande emozione che inconsciamente cerco. Io per primo, temo.
Ho quindi bisogno del dolore altrui e di una vittima (“dell’infanzia denutrita ed ammalata di AIDS”) per palpitare dentro? Ho bisogno del dolore altrui come strumento per sperimentare la mia bontà, e per sentirmi un salvatore ? E quindi per sentirmi qualcuno?
L’aprire il proprio portafogli credo sia un incontrare l’altro soprattutto nell’ordine vittimale.
Venire invece qui a dare una mano concreta alla Nyarurema di turno, anche per un solo mese, è invece immedesimarsi con il prossimo, cercare di capirlo, camminarci assieme e non solo vederlo per la propria sofferenza. Temo che questo meccanismo in parte aleggi in questo tipo di feste.
Concludo con un esempio pratico. Ho un’ amica che fa i turni alla misericordia.
Ogni tanto le chiedo: “ Come è andato ierisera il turno?”
La sua risposta a volte, un po’ sbuffando – “Non è successo niente, nessuna chiamata ierisera. E’ stata una serata noiosa”.
Ci rifletto e mi accorgo che, invece di esser contenta che nessuno si sia fatto male, la mia amica parla della noia della serata.
Forse questo è un caso di “bisogno di vittime” per riempire qualche cosa d’altro?
E quanti altri casi ci saranno che serpeggiano in me, o in voi?
Non ho una risposta precisa, ma solo qualche fondato sospetto.
Ho solo una gran voglia di dire a tutti per l’attuale ottobre missionario: meno fondi ma più persone, per le chiese locali del sud del mondo!
Per chi non possa spostarsi dall’Italia: più conoscenza della "missione" e più solidarietà pratica a casa nostra.
Come farla? Di esempi ce ne sono molti. Ne suggerisco uno forse “stupido”, per diminuire gli sprechi e i consumi dell’acqua, definita come il nuovo “petrolio”. Leggo che chiudure il rubinetto, mentre ci si insapona durante una doccia, salva 15 litri d’acqua circa. Nelle zone più povere dell’Africa si vive con 5 litri d’acqua di media procapite al giorno (quando va bene...) per lavarsi, cucinare, bere.
Chiudiamo quel rubinetto sotto la doccia: ci farà riflettere immediatamente (quando siamo nudi, credo siamo anche più sinceri con noi stessi) ed esser solidali.
Un saluto da Nyarurema - Rwanda
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