Falluja: diario di un massacro
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Il 7 novembre inizia l’operazione Al Fajr l’alba; gli americani avevano scelto Phantom Fury, che vede impegnati circa 12mila soldati tra esercito e marines, più le truppe della Guardia Nazionale irachena, composte soprattutto da sciiti delle Badr Forces, milizia addestrata dello Sciri, uno dei partiti islamici uscito vittorioso dalle elezioni del 30 gennaio. La città è sigillata. I bombardamenti sono massicci: elicotteri, F16, F18, artiglieria pesante. Testimoni raccontano di armi al fosforo, pioggia di fuoco che brucia tutto quello che tocca, parlano di bombe che una volta sganciate generano una serie di anelli di fumo denso e nero che rimane nell’aria 2 ore. Molti parlano di gas, di un forte odore di cipolla, di difficoltà respiratorie, di ferite che si aprono nella pelle. Ci sono foto di animali morti in gabbia, con acqua e cibo regolarmente nei loro contenitori.
Come ad aprile, è l’ospedale uno dei primi obiettivi: l’8 viene invaso dai marines americani e truppe della guardia nazionale irachena, composta unicamente da sciiti. Il direttore, i medici, gli infermieri vengono obbligati a terra, incappucciati ed ammanettati. Interrogati con violenza, umiliati, impediti nel svolgere il loro lavoro. L’ospedale viene saccheggiato di tutto quello che poteva essere trasportato il resto delle attrezzature distrutto. L’ospedale isolato.
Saranno le moschee, ancora una volta, ad essere organizzate come pronto soccorso. I medici scarseggiano essendo tutti bloccati all’interno dell’ospedale oramai inutilizzabile. Dottori di altre città non riescono ad entrare.
Ancora una volta la resistenza è organizzata e forte, ma questa volta i marines non possono non prendere la città e l’attacco è violentissimo. Non c’è casa a Fallujah che non sia stata colpita. Interi quartieri sono stati rasi al suolo, ufficialmente si contano 36.955 edifici colpiti. Secondo il Comitato per la Ricostruzione 3mila circa distrutte completamente, tra le 6 e le 8mila al 50 per cento, 12mila al 30 per cento.
Quando le truppe entrano, il combattimento è casa per casa, anche quando nelle case ci sono solo civili, come dimostrano le fotografie di molte persone uccise tra le lenzuola, nel sonno. Molti i corpi che sono stati dati alle fiamme e molte le case incendiate, i laboratori distrutti, i negozi saccheggiati, le moschee profanate. Sono i marines stessi a raccontare come entravano nelle case, come le facevano saltare in aria, come ‘ripulivano’ le abitazioni, utilizzando un ‘cocktail Molotov’ fatto di una parte di detersivo per lavatrici e due di gas, poi le case vengono segnate: una x rossa per quelle già ‘ripulite’ e una x cerchiata per quelle da far saltare in aria.
I cecchini sono attivi sui tetti e lungo le sponde dell’ Eufrate è dagli elicotteri che chi cerca di lasciare la città a nuoto viene colpito.
Dall’11 novembre la battaglia si fa più dura soprattutto nei quartieri a sud, e vengono utilizzate anche le bombe bunker busting da oltre 9 quintali.
I cecchini si posizionano sui tetti, anche quando nelle case ci sono ancora i loro abitanti. Colpiscono le cisterne d’acqua, colpiscono ogni cosa che si muove. Molti sono i morti e i feriti colpiti mentre portavano altri feriti agli improvvisati posti di soccorso. Colpiscono anche quando viene annunciato un breve cessate il fuoco e le famiglie invitate ad recarsi nelle moschee. Chi aveva osato uscire di casa non lo farà più. Una famiglia rimarrà una settimana a guardare il corpo senza vita della figlia nella strada davanti casa senza poter recuperare il corpo. I cadaveri nelle strade vengono mangiati dai cani. I corpi, quando è possibile, vengono sepolti nei cortili. Molti rimangono sotto le macerie.
Il 14 viene annunciato dai comandi americani che la città è stata ‘liberata’, anche se sporadici combattimenti continuano, e prosegue la ‘pulizia’ casa per casa.
Il 18 verrà dichiarata finita l’operazione.
La città verrà limitatamente riaperta intorno al 20 di dicembre, ma pochissimi sono autorizzati ad entrare. A chi entra viene detto di non mangiare e bere nulla, e lo spettacolo che si trovano di fronte è quello di una città distrutta, impregnata dall’odore di morte e di cadaveri. Alcuni quartieri verranno aperti solo alla fine di gennaio, come Julan, e qui alcuni testimoniano di aver visto i soldati americani con maschere e tute bianche portare via le macerie e lavare le strade.
A una squadra di volontari vengono indicati i cadaveri da raccogliere che verranno trasferiti in un villaggio vicino, in un deposito per patate dotato di congelatore. Sono quasi tutti combattenti, ma le foto scattate non fanno che aumentare le domande sulle armi utilizzate: volti completamente deformati, fusi; cadaveri vestiti ma senza carne, senza muscolatura solo ossa; corpi che sembrano estratti dalle ceneri di Pompei. Una donna con il velo dal quale traspare solo il teschio. Un ragazzino con stretta tra le mani una bandiera bianca...
(continua)
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