"La guerra è l'antitesi del diritto"
- Diritti affermati nel conflitto nonviolento
- Punti di una cultura politica di pace
Testo dell’intervento di Enrico Peyretti
nel convegno “I DIRITTI NEGATI DAI CONFLITTI”
GRUPPO CONSILIARE VERDI PER LA PACE, REGIONE PIEMONTE
7 OTTOBRE 2005
"La guerra è l'antitesi del diritto"
(Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace
4ª edizione, Il Mulino, 1997, pp. 59 e 66).
1. La guerra è l’antitesi del diritto. Qui diritto va inteso sia 1) come ordinamento, sia 2) come diritti umani.
1) «Silent in bello leges», dicevano gli antichi, citati da Erasmo. Inoltre, oggi, la guerra è chiaramente illegale per la Costituzione italiana e per la Carta dell’Onu, e non può mai venire legalizzata. Chi promuove la guerra è criminale internazionale. L’art. 51 della Carta dell’Onu e l’art. 52 della nostra grande Costituzione, combinati, ammettono la difesa armata da aggressioni militari, purché con immediato deferimento al Consiglio di Sicurezza. Le azioni armate dell’Onu possono essere azioni di polizia, ma non di guerra. La differenza non è verbale, ma sostanziale, come la differenza tra forza, che costruisce, e violenza, che distrugge. La polizia, quando agisce legalmente, riduce la violenza, mentre la guerra di natura sua l’accresce, perché la guerra premia solo il più violento, non chi ha ragione e diritto. L’Onu non può né fare né autorizzare alcuna guerra, perché è istituita, come dice il Preambolo della Carta, per «salvare le future generazioni dal flagello della guerra». Lo scopo primo ed essenziale dell’Onu, del nuovo diritto internazionale di pace, è l’abolizione storica della guerra.
La Costituzione italiana implica un movimento verso il superamento non solo dell’aggressione, ovviamente, ma anche della difesa con mezzi militari: «L’Italia ripudia la guerra […] come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», art. 11. Per l’art. 52 , come ha sentenziato chiarissimamente la Corte Costituzionale (sent. 164/85), la difesa non è soltanto militare, ma anche non armata, cioè coi mezzi della nonviolenza attiva: se è «sacro dovere» di ogni cittadino e cittadina, senza alcuna distinzione tra abili e non abili alle armi, allora la difesa della Patria deve adempiersi anche con tutti i mezzi leciti ed efficaci, non militari. Il monopolio militare della difesa, ancora fisso nella mente dei più, in tutte le culture politiche ufficiali, è ufficialmente spezzato. La legge 230/98, all’art. 8, impegna lo Stato a «predisporre […] forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta». Un Comitato consultivo è stato istituito nel 2004, ma la sua attività sembra essersi arenata.
2) Quanto ai diritti umani, la guerra è essenzialmente ricatto violento mediante minaccia e offesa ai diritti (vita, libertà, beni vitali) delle persone, per imporre al vinto la volontà del più violento (von Clausewitz). L’esito di ogni guerra è totalmente estraneo a ragione e diritto: premia il più violento, è la solennizzazione della totale irrazionalità e ingiustizia. Nessuna guerra può essere giusta. Bisogna rinnovare radicalmente il pensiero. Non vale portare l’esempio della seconda guerra mondiale, imposta da Hitler alle democrazie: essa divenne errore necessario a causa dei ritardi e delle complicità culturali e politiche delle democrazie col nazismo. Nessuna guerra, nemmeno quando sventa un pericolo grandissimo, merita glorificazione. La Resistenza al nazifascismo in Italia e in Europa, fu lotta giusta nei fini, nei mezzi fu anche spesso nonviolenta, e, nell’uso delle armi, dipese dalle conoscenze del tempo, e certo non potrebbe oggi, in una situazione simile, essere condotta in forme militari (si veda Jacques Semelin, Senz’armi di fronte a Hitler, Sonda, Torino 1993, e la bibliografia Difesa senza guerra, indicata più sotto). Difendersi con la guerra è collaborare alla guerra: si veda di nuovo ciò che scriveva Gandhi agli inglesi sotto attacco nazista il 7 luglio 1940 (Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 248-251). È utile anche vedere la tesi, sempre meno paradossale, per la quale Hitler ha vinto la seconda guerra mondiale (nel mio libro Dov’è la vittoria?, Il Segno dei Gabrielli editore 2005, pp. 67-70, e ora, più a fondo, Walter Graziano, Hitler ha vinto la guerra, ed. Arcana (Fazi) 2005).
2. Qual è l'antitesi della guerra? È necessario cercare l’antitesi e l’antidoto, proprio quando, come oggi, si vuol fare apparire la guerra come l’unico mezzo possibile e necessario contro il terrorismo. Guerra e terrorismo sono due facce della stessa moneta (falsa) e si causano reciprocamente, in una relazione di reciproca imitazione e riproduzione.
Non si può essere contro la guerra senza un programma costruttivo alternativo nella gestione dei conflitti. Qui è tutta la fatica e l’impegno dei movimenti anti-guerra pacifisti. Qui è anche la loro insufficienza, quando si limitano al pacifismo senza costruire cultura e politica nonviolenta.
La nonviolenza attiva include ma supera il pacifismo, non opera solo contro la guerra, ma sulle radici strutturali, culturali, spirituali della violenza, con la ricerca, l’educazione, l’azione.
È ormai classica la distinzione della violenza in violenza diretta, strutturale, culturale. Questa tripartizione procede dalla maggiore visibilità e ripugnanza alla maggiore invisibilità, occultamento, gravità e profondità. In un certo senso, la guerra è la violenza meno grave! Fa più numerose vittime l’economia violenta (violenza strutturale) che la guerra. La cultura conflittualista, l’antropologia hobbesiana, l’ideologia della competizione senza pietà (violenza culturale) sono causa e giustificazione della rapina economica e della guerra. La guerra chiude il cerchio difendendo la rapina strutturale e il dominio ideologico sulle menti.
Questa tripartizione procede dal rifiuto più facile (della guerra) al rifiuto più difficile e alla accettazione passiva più frequente (dell’ingiustizia e della ideologia violenta). Così è più facile resistere e opporsi a una dittatura aperta che a una democrazia violenta e bellicosa. Ma quella che bisogna sviluppare è l’opposizione più difficile e più importante. L’impegno deve essere crescente, sulla seconda (quella strutturale) e sulla terza violenza (quella culturale) più ancora che sulla guerra.
3. L’antitesi della guerra è il diritto
Parliamo sia del diritto oggettivo, l’ordinamento, violato dal crimine dalla guerra, come abbiamo già visto, sia – ora qui - del diritto sussistente e vivente nella persona umana inviolabile, anche quando è avversaria, anche quando è colpevole. Il diritto della persona è limite e regola e controllo del potere conferito democraticamente. È regola di gestione e soluzione dei conflitti, che impone di escludere i mezzi distruttivi. È il diritto di partecipazione culturale e politica, non unicamente istituzionale, di ogni cittadino e cittadina, affinché la politica, finora sposata indissolubilmente alla guerra, obbedisca ad una società che “ripudia” la guerra, cioè che spezza quel nefasto matrimonio. Il “quarto potere”, la libera opinione pubblica che si esprime nei liberi mezzi di comunicazione, è il diritto dei cittadini ad esercitare un potere di controllo sugli stessi poteri politici democratici, per integrare e correggere le violazioni dei diritti umani, possibili e storicamente avvenute, anche nelle democrazie (vedi Ignacio Ramonet e altri, nel mio resoconto del convegno “Etica e comunicazione”, Venezia 1 ottobre 2005, in “La nonviolenza è in cammino” n. 1084, del 15 ottobre 2005; nbawac@tin.it ; arretrati su http://lists.peacelink.it/nonviolenza ).
4. I diritti, negati nel conflitto violento, sono affermati ed esercitati nei conflitti nonviolenti e giusti
Contro l’uso confuso corrente, “conflitto” non è sinonimo di “guerra”: può essere violento o nonviolento. La nonviolenza, infatti, è concetto positivo, nonostante l’apparenza del termine italiano. Essa è: 1) non-offendere (a-himsa); 2) ma di più è in-dipendenza interiore dalla cultura violenta; 3) è lotta con forza non offensiva, col satyagraha, cioè la forza interiore, dell’anima, dell’attaccamento al vero e giusto in quanto li conosciamo; 4) è comunque sempre, anche in caso di insuccesso, testimonianza di un’altra possibilità, diversa dalla regola della violenza, ed esperienza preziosa per le lotte successive.
Il conflitto nonviolento è la lotta ai poteri ingiusti costruendo giustizia con i soli mezzi giusti: la disobbedienza civile responsabile e la resistenza all’ingiustizia, pagando il prezzo della lotta. Ogni potere, anche violento, dipende essenzialmente dall’essere obbedito (teoria di Étienne de la Boétie nel ‘500, oggi di Gene Sharp, ma già apparsa in Aristotele), perciò i popoli, nella misura in cui ne diventano consapevoli, hanno la possibilità invincibile di smontare con la resistenza e la disobbedienza civile, senza violenza, ogni potere ingiusto (esempio storico maggiore, fra i tanti anche recenti, le rivoluzioni nonviolente nell’Est Europa del 1989). Il prezzo da pagare è sempre minore in sofferenze e maggiore in dignità, non è pesante e vergognoso come il prezzo della lotta violenta.
La lotta giusta nonviolenta afferma, nell’atto di esercitarli: 1) i diritti delle persone; 2) le regole che limitano il potere di pochi e sviluppano il “potere di tutti”; 3) esperienze e metodi di gestione non distruttiva ma costruttiva delle differenze e tensioni inevitabili ed anzi vitali nella società umana.
5. Il tempo della guerra è il tempo della nonviolenza
Il Novecento, secolo della massima violenza, è anche il secolo che ha visto lo sbocco politico della nonviolenza, da virtù morale personale a virtù, sapienza ed efficacia politica. Jacques Ellul ha potuto dire che «La nostra non è affatto l’età della violenza, è l’età della consapevolezza della violenza» (Contre les violents, Wien, Le Centurion 1972, p. 7). Questa presa di coscienza non rassegnata alla violenza, nonostante la vasta pratica attuale, scopre, con un’altra lettura della storia, demistificante e rivelatrice, che la nonviolenza non è soltanto un’utopia, ma ha una storia reale, spesso ignorata e occultata: ho raccolto una molto ampia bibliografia storica delle lotte nonviolente, in http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti .
Che fare per una politica nonviolenta positiva? Io non sono un politico operativo, penso di vedere un poco gli obiettivi, ma siete voi che sapete camminare. C’è una vera funzione cooperativa tre due funzioni di uguale importanza: tra il lavoro di avvistamento del mozzo sull’albero della nave, e del timoniere a guidarla, cioè tra il teorico e il politico.
Ricordo schematicamente alcuni punti politici che mi sembrano di primaria importanza:
- transarmo: trasformazione dell’armamento da offensivo, come è ora, a strettamente difensivo. Il Nuovo Modello di Difesa (NMD), del ‘91, adottato dopo la fine della guerra fredda, portato avanti da tutti i governi che si sono succeduti da allora, è aggressivo, difende non il diritto ma il privilegio, per sua esplicita dichiarazione: secondo il NMD, il pericolo attuale, caduta l’URSS, sta nelle tendenze «al sovvertimento delle attuali situazioni di predominio regionale, anche per il controllo delle riserve energetiche esistenti nell'area» (p. 21 del libro bianco del Ministero della Difesa, ottobre 1991). Quindi si vuol difendere non un diritto ma un predominio! Questa filosofia della difesa è incostituzionale e intollerabile, per non dire di peggio. L’armamento italiano – portaerei, aerei di lunga portata – è oggi strutturalmente aggressivo. Sottrae risorse alla vita giusta per un’opera ingiusta. La politica di pace, nella gestione di una difesa ancora armata, impone armamenti «strutturalmente incapaci di aggressione» (come chiedevano i pacifisti tedeschi negli anni ’80). Un punto programmatico può essere l’annullamento di tutti i programmi di armamento aggressivo.
- corpi civili di pace: la proposta di Alex Langer nel Parlamento Europeo attende di essere ripresa e promossa. Oggi le iniziative di interventi civili di pace sono tutte volontarie (Operazione Colomba, Rimini; Berretti Bianchi). Un punto programmatico può essere lo spostamento annuo del 5% delle risorse dalla difesa armata alla difesa civile nonviolenta assunta come impegno pubblico.
- promozione dell’economia vitale in sostituzione di quella “sacrificale”, come il filosofo Roberto Mancini, Università di Macerata, definisce l’attuale economia capitalistica globale, basata sulla divisione dell’umanità, sulla selezione sommersi-salvati, sull’esaurimento della natura. Un punto programmatico può essere lo sviluppo della cooperazione internazionale in termini di giustizia dovuta e mai di speculazione, e la riduzione annuale del 5% dei consumi di combustibili fossili con incremento, nella stessa percentuale, delle fonti alternative.
- Onu democratizzata, e anzitutto rispettata. Abbiamo visto che non può fare né autorizzare alcuna guerra, senza distruggere le più preziose regole giuridiche di pace. Un punto programmatico può essere questo: la nostra politica internazionale non può essere soltanto “sotto l’egida” dell’Onu, ma deve essere “sotto i principi del diritto internazionale di pace della Carta dell’Onu, vigente e obbligante”.
- diplomazia popolare, contro le cause profonde degli “opposti terrorismi” (che sono proprio due, e non uno solo!). Un punto programmatico può essere che bisogna dunque parlare coi terroristi, in un dialogo tenace, perché dove si mette la parola umana, anche conflittuale, si può sospendere il potere cieco e muto delle armi. Quando, al contrario, le armi prendono il posto della parola, si eclissa l’umanità, e nessuna soluzione umana si può sperare. Le cause prime del terrorismo sono nell’orrendo squilibrio mondiale tra i popoli. Certo, sono anche in germi violenti, presenti in tutte le culture, sviluppato da ingiustizie e violenze, dai quali germi solo il dialogo e il rispetto, la giustizia economica e la politica invece della guerra, possono difendere e immunizzare. L’arma umana del sui-omicida, che usa il proprio corpo come bomba, è solo la più potente e invincibile arma nella corsa all’estremo degli armamenti: la violenza genera sempre la propria contro-violenza, fino ai limiti assoluti della bomba nucleare e del corpo-bomba, se non le si oppone una forza qualitativamente diversa, la relazione umana, che sola può invertire la direzione distruttiva.
- dialogo di base tra religioni e culture. Questo fenomeno non vistoso ma presente nella società civile e nella cultura è d importanza decisiva per la pace e il futuro umano. Un punto programmatico per la politica può essere riconoscerlo, rispettarlo e garantirne il libero svolgimento.
- l’utopia è essenziale alla concretezza. Essa indica la direzione, preserva dal perdere l’orientamento, dal regredire. Un punto programmatico della cultura politica può essere comprendere la gradualità come la legge necessaria dell’azione, purché sia dinamica e orientata; e comprendere la moderazione come concretezza del fare un passo dopo l’altro, non un passo senza il successivo.
- il distacco personale dal potere, nell’etica personale degli eletti, è indispensabile al potere democratico, delegato dal popolo: un punto programmatico di chi opera nella politica istituzionale può essere perciò un lavorare libero dall’ossessione della carriera; perciò il saper dare senza prendere, il sapere ritirarsi o perdere posizioni senza rinunciare all’impegno, il saper dare come regola alla propria azione non il successo ad ogni costo, ma la fecondità a lungo termine. La politica, infatti, è essenzialmente etica. Ricordo che queste erano idee guida quando partecipai anch’io alla nascita delle prime “liste verdi”, attorno all’idea della ecologia, della pace, dell’etica. A fronte dal banditismo della maggioranza attuale, questa è la prima qualità alternativa con cui si attende da voi politici che vi presentiate per operare risanamento e giustizia.
- un punto programmatico essenziale della cultura politica mi pare che debba essere analizzare il concetto e la realtà del “potere” politico con la più chiara distinzione tra il “potere di”, cioè la possibilità personale di partecipazione (art. 3 della Costituzione), che deve diventare di tutti, e il “potere su” (sugli altri), che nessuno deve avere. La diffusione a tutti del “potere di” (secondo l’idea del “potere di tutti”, la onnicrazia di Aldo Capitini) deve crescere fino a estinguere il “potere su”, di alcuni, tanti o pochi, sugli altri, il potere delle oligarchie di ogni genere.
Enrico Peyretti, 7 ottobre 2005
Sociale.network