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Commento a "La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori" del card. Renato raffaele Martino

18 gennaio 2006

Commento a "La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori" del card. Renato raffaele Martino.
(testo riveduto il 13 gennaio 2006)

Un amico impegnato in un movimento cattolico per la pace mi chiede un’opinione su una pagina del libro “Pace e guerra” del Presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, card. Renato Raffaele Martino. Copio in calce la pagina aggiungendovi la numerazione dei singoli capoversi per semplificare i riferimenti. Farò alcune osservazioni che sono correnti nella cultura di pace intesa come nonviolenza attiva.

È ben vero che la pace è una qualità delle persone (capov. 1), ma non meno è una qualità della relazione tra le persone. Ha radici interiori, ma fiorisce nella relazione. Solo la pace interiore, la pace con se stessi, di chi non è intimamente scisso, è una qualità tutta personale, sebbene anch’essa dipenda non poco dalla qualità delle relazioni che si hanno o si sono avute con gli altri, e si manifesti principalmente nella buona relazione con gli altri.
La beatitudine evangelica non parla di persone “in pace”, ma di coloro che “fanno pace”, operano per la pace, costruiscono pace: “eirenepoioi” (Matteo 5,9). Riguarda direttamente la pace delle giuste relazioni sociali, non principalmente la tranquillità individuale (che, anzi, Gesù è venuto a turbare).
L’odierna cultura di pace non è così ingenua e superficiale da affidarsi solo agli strumenti giuridici e politici. Sa bene che la pace si radica dentro la persona, nella educazione interiore, nella sanità psicologica, nella comunicazione aperta e rispettosa. Per tutto questo, la pace va vista come una realtà allo stesso tempo personale e sociale. Il rapporto tra le due dimensioni mi sembra debba essere visto come circolare, senza un prima e un dopo. Ognuno dei due momenti nasce dall’altro e produce l’altro.

«L’uomo di pace semina la pace attorno a sé» (capov. 2): questo è un fatto, ma non è tutta la verità. Una generosa ingenuità delle persone buone le fa pensare che basti essere buoni perché ci sia pace nelle relazioni, nella società. Non basta. Persone buone in strutture cattive fanno cose cattive. Un buon padrone di schiavi non odia e non maltratta i suoi schiavi, ma, fin quando non li riconosce liberi come lui, mantiene la struttura della schiavitù, che è in sé un rapporto ingiusto, diseguale, perciò una struttura violenta. Quel padrone è buono, ma fa una cosa cattiva. Un buon marito, ama e rispetta la moglie, ma, se la ritiene per natura e diritto inferiore a sé, è un marito buono nelle azioni e violento nelle idee. Ma le idee violente producono sempre, qua o là, fatti violenti. La violenza non è solo quella fisica, ma, più profondamente, quella strutturale e, ancor più, quella culturale. Vedere la radice culturale (mentale, interiore) della violenza, non permette di perdere di vista le concrezioni della violenza nelle strutture sociali e tradizionali, che producono violenza oggettiva degli atti. E viceversa: la bontà dei singoli atti e comportamenti, non deve far perdere di vista la violenza consolidata in strutture e forme sociali ingiuste, giustificate da idee ingiuste e violente. Bisogna che le persone spirituali, preziose per la pace, si guardino dallo spiritualismo, che riduce la visione intera della realtà. Lo spirito può essere forte, ma la carne – cioè le forme sociali storiche – possono essere deboli, scarse di giustizia, ingiuste. Altrimenti, ecco che i potenti violenti onorano i discorsi spirituali di pace personale e privata e continuano nella loro violenza pubblica.

Del pacifismo, l’Autore di questa pagina parla soprattutto con sospetto (capov. 3): può degenerare, tradire lo scopo della pace, diventare una ideologia, voler vincere, farsi un potere violento. Eh! Sembra più pericoloso della guerra!.. È utile il pacifismo, dice Martino, diffonde passione per la pace e educa alla pace, ma deve essere sempre «emendato», cioè ricondotto alla pace interiore. Ora, se un pacifismo è coerente, se cioè non condanna solo alcune guerre, ma tutte, è buona cosa. Sarà meno credibile se non è un’azione di persone giuste, e tuttavia chiede alla politica una cosa giusta. Il suo limite è di essere unicamente contro la guerra, che è solamente la forma più grossolana e vistosa di violenza, ma non la più profonda e grave. Perciò la nonviolenza vale più del pacifismo, perché lo include ma lotta soprattutto contro le più profonde violenze, strutturali e culturali, coi mezzi forti dell’umanità e della verità.

«Testimone profetico della pace» (capov. 4) è il termine con cui questo testo chiama, senza nominarli, i nonviolenti (citando il Concilio, Gaudium et Spes 78). Sembra però che la loro ispirazione sia soltanto religiosa cristiana, il che non è giusto, perché ci sono molti nonviolenti di altre religioni, o senza religione, ma con forte sensibilità umana. Scrive Martino che «nella chiesa è sempre esistito un atteggiamento decisivo e audace che punta esclusivamente all’utilizzo di forme di difesa non violenta».
Due osservazioni doverose: scrivendo “non violenta” in due parole staccate, l’idea che si esprime è negativa: difesa senza uso di mezzi violenti. Ma la “nonviolenza” – che, per questa ragione, si scrive ormai correntemente negli studi specifici in parola unica – è idea e pratica positiva: dice la resistenza e la lotta giusta con mezzi giusti (le molte tecniche e le regole morali dell’azione nonviolenta), più profondamente forti ed efficaci della violenza che vuole difendere alcuni con l’offendere e l’uccidere altri.
Seconda osservazione: è vero che nella chiesa ci sono sempre state persone individualmente nonviolente, ma non è proprio vero che nella chiesa abbia avuto consistenza e riconoscimento la nonviolenza come forma di difesa collettiva; normalmente l’istituzione ecclesiale, fino ad oggi, assolve le coscienze che obbediscono all’autorità politica anche nel fare la guerra e, fino al Concilio, condannava per superbia morale e presunzione chi facesse obiezione di coscienza al dovere militare di uccidere. La dottrina morale ufficiale non condannava né criticava le teorie e le pratiche politiche che con tutta facilità giustificavano le guerre. L’autorità religiosa si è per lo più dimostrata più delicata coi potenti che con le coscienze dei «testimoni profetici della pace». Molti di questi testimoni sono stati lasciati soli o, peggio, condannati. Oggi l’autorità ecclesiastica esorta i potenti a non fare la guerra, ma non accompagna le coscienze pacifiche ad opporre disobbedienza civile ai comandi di guerra. È vero o non è vero? Questo non si può negare per amor di chiesa.

Nella giusta rivendicazione dell’azione degli ultimi papi per la pace (capov. 5; ma si doveva cominciare da Giovanni XXIII !), la prima strana preoccupazione di Martino è difendere i papi – specialmente Giovanni Paolo II - dalla qualifica di “pacifisti”, per tre ragioni (proposte da Andrea Riccardi).
La prima è questa: ha sempre reso onore a chi è morto per la patria, cioè ai militari. Vale a dire: non ha messo in discussione la difesa militare. Chi muore militare, muore dopo aver ucciso, o perché non è riuscito ad uccidere. Senza mancare di pietà, e senza giudicare le coscienze, bisogna pure, nella ricerca della pace, giudicare l’uso del dare la morte per comando politico. Che ne è del comandamento di “non uccidere” in questa sbrigativa assoluzione, attribuita a Papa Wojtyla, dell’azione militare, per timore di vederlo accomunato ai “pacifisti”, cioè appunto a coloro che, credenti o non credenti in Dio, in nome del “non uccidere”, vogliono che anche nelle contese politiche si obbedisca a questa sua parola?
La seconda ragione per cui il Papa non è pacifista, secondo Riccardi e Martino, è che non ha mai condannato «a senso unico» le guerre, come se tutti i pacifisti, per definizione, condannassero alcune guerre e non altre, a loro comodo. Questo discorso non è giusto né corretto.
La terza ragione è che quel papa, tra i primi, ha ipotizzato nel 2000 forme di intervento umanitario e di interposizione. Si può dire questo solo ignorando, o volendo ignorare, per dare lustro indebito al papa, che tali azioni sono ben precedenti, per iniziative dal basso del popolo della pace. Papa Wojtyla ha veri meriti nella ricerca della pace e non merita che gli si attribuiscano primati non suoi.
Ma c’è una quarta ragione (ripresa dal capov. 3): il pacifismo è soprattutto una cosa brutta, perché non ha la «sapienza del realismo cristiano», e perché è volontà di imporre la pace (che sarebbe, ohibò, impedire al proprio governo di fare la guerra), invece di attenderla come dono di Dio e lasciarsene conquistare nell’intimo. Così siamo di nuovo allo spiritualismo iniziale, riduzione unilaterale della spiritualità pacifica staccata dall’azione civile e politica, che ne è il sano frutto.

Siamo, così, alla figura del “pacificatore” (capov. 6), o “operatore di pace”: è colui che agisce in modo concreto e realistico nei conflitti storici portando parole, atteggiamenti e soluzioni di pace. Confrontata col pacifismo, mosso spesso da “ideologia” e “progetto politico” (è forse un male?), l’azione pacificatrice è invece mossa dall’amore (perché, nel pacifismo non c’è amore?). Questa insistenza stucchevole a denigrare il pacifismo (i nonviolenti ne criticano i limiti, ma non lo disprezzano) e a prenderne accuratamente le distanze, costringe a sospettare che il diplomatico ecclesiastico si preoccupi di non trovarsi tra i critici dei governi dalle politiche bellicose. Aggiungo: stiamo attenti almeno al linguaggio: il titolo di “pacificatore” spesso è stato fatto proprio da azioni militari che hanno violentemente represso moti popolari anche giusti. “Pacificazione” è nella storia per lo più il nome dato alla conquista, e dunque quella “imposizione di pace” che Martino attribuisce invece stranamente al pacifismo. Ricordiamo tutti Tacito: “Dove fanno un deserto lo chiamano pace” (De vita et moribus Julii Agricolae, cap. 30). E ricordiamo "L'ordine regna a Varsavia", detto alla Camera dal ministro degli esteri francese dopo la durissima repressione russa, nel settembre 1831. Anche la guerra statunitense in Vietnam ebbe il nome di "pacificazione".

L’Autore afferma semplicemente (capov. 7) «il primato della pace intesa come dono di Dio rispetto alla pace concepita come conquista dell’uomo» e che «i primi pacificatori sono gli uomini di preghiera». La prima cosa, io dico che si può pensare anche della salute fisica, ma non per questo vedo meno necessaria la nostra cura attiva della salute. Dio ha messo il mondo nella nostre mani, affidato alla nostra responsabilità: mentre crediamo e invochiamo il suo aiuto interiore, dobbiamo gestire il mondo come se dipendesse esclusivamente da noi. Io credo davvero nell’efficacia storica della preghiera, che dà forza spirituale all’azione, eppure quando la preghiera è – come è spesso – restituire a Dio il compito che egli ha dato a noi, allora non è con questa preghiera che si opera per la pace.
La Chiesa cattolica ha colpe storiche e meriti recenti riguardo alla pace. Farebbe bene, per giustizia, a non rivendicare troppo e, sempre nella forma propria delle sue funzioni e competenze, ad affiancarsi, senza paternalismi né strumentalizzazioni, ma anche sena ingiusti sospetti, al movimento mondiale per la pace, piuttosto che agli stati armati. Grazie a Dio, tanti cristiani sono dentro quel movimento, attivi e pensanti, senza le preoccupazioni anguste delle diplomazie istituzionali.
Enrico Peyretti (testo riveduto 13 gennaio 2006)
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La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori.

Tratto da: card Renato Raffaele Martino (presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace), “Pace e Guerra”, ed Cantagalli 2005

1. La pace è un patrimonio della persone, un a sua qualità etica e spirituale. Pacifiche non sono primariamente le istituzioni, i trattati internazionali, le relazioni fra le cancellerie. Pacifico è prima di tutto l’uomo, ogni singola persona capace, pere dono di dio e per virtù propria, di vivere un rapporto non conflittuale con se stessa e con gli altri. La pace è la ricchezza umana propria degli uomini di pace, dei “pacifici” di cui parla Gesù nel discorso della montagna: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Il messaggio di salvezza di Cristo riguarda anche tutte le realtà secolari, ma la sua proposta si rivolge innanzi tutto e direttamente al cuore dell’uomo e da lì passa anche alle relazioni interpersonali e alle strutture. Non avremo mai strutture di pace senza uomini di pace, persone pacifiche. Troppo spesso, in passato, ci si è illusi che a garantire un mondo di pace bastassero dei meccanismi e dei processi strutturali senza più bisogno di uomini pacifici. Quale è la principale risorsa per la pace? Certamente le intese internazionali, il prevalere del diritto e della legge, gli organismi e le agenzie che operano per essa sono tutte risorse importanti, e tuttavia secondarie e indirette. Cause strumentali, potremmo dire, perché la principale risorsa sono gli uomini di pace, i pacifici.

2. L’uomo di pace semina la pace attorno a sé, da lui essa si diffonde in cerchi concentrici alle persone vicine, all’ambiente di lavoro e via via a tutte le relazioni in cui egli è impegnato, alla società. L’uomo di pace è pacifico sempre, in ogni occasione della vita, in quanto la pace appartiene al suo essere, è un habitus che egli non dismette. Gli atteggiamenti di pace gli vengono spontanei ed egli vive con grande serenità una moralità della pace tale che la lotta e la guerra non trovano nemmeno udienza al suo cospetto.

3. Pacifista è, invece, chi si mobilita per la pace e ne fa un progetto sociale e politico. Il pacifismo è una cosa buona ma può anche degenerare. Esso trae tutti i propri frutti positivi solo se è portato avanti da uomini di pace. Si può dire che l’autentico pacifismo dipende dall’essere pacifici. Il pacifismo senza protagonisti pacifici rischia addirittura di tradire lo scopo della pace. Può diventare una ideologia, manichea nei suoi giudizi e perfino intollerante, insensibile alla complessità delle situazioni, alle responsabilità in gioco, ai tempi che talvolta sono richiesti perché una prospettiva maturi progressivamente. Questo pacifismo non si accontenta di testimoniare, vuole convincere, acquisire consenso, tradursi in proposta vincente e, quindi, anche di potere. Si tratta di aspettative e di processi legittimi che possono però adoperare, per raggiungere i risultati, la violenza delle parole e degli atteggiamenti, l’esclusione e il facile giudizio, la scelta di parte assolutizzata come l’unica espressione di un autentico pacifismo. IL pacifismo è utile perché diffonde una passione per la pace e crea occasioni di educazione vicendevole all’ideale della pace, ma ha bisogno di essere continuamente emendato, ricondotto alle sue ragioni più profonde, ossia alla pace che alberga nei cuori degli uomini pacifici. A ben rileggere la storia del pacifismo, ci si accorge, in effetti, che esso ha avuto tanto più successo quanto più è riuscito a incarnarsi in uomini pacifici. E’ riuscito a mobilitare le coscienze e a ottenere anche concreti risultati politici proprio in quanto i suoi protagonisti hanno saputo guidare il movimento pacifista mediante le loro qualità di uomini pacifici, liberi e disponibili al richiamo della pace.

4. Il pacifismo nel senso ora descritto non va confuso con la testimonianza profetica per la pace, di cui parlerò più avanti. Il Concilio Vaticano II elogia “coloro che, rinunciando all’azione violenta nel rivendicare i diritti, ricorrono a mezzi di difesa che sono alla portata anche dei più deboli, purchè ciò si possa fare senza lesione dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità” (Gs, 78). Nella chiesa è sempre esistito un atteggiamento decisivo e audace che punta esclusivamente all’utilizzo di forme di difesa non violenta e si assume il compito di una testimonianza profetica della pace e della comunione del Regno. Chi compie tali scelte viene spesso chiamato “pacifista”, ma io preferirei definirlo “testimone profetico della pace”, in quanto egli si ispira immediatamente alle parole di Cristo e non si pone nell’ottica del movimento politico cui la parola “pacifismo” allude. Il testimone profetico della pace è piuttosto affine al pacifico di cui si è detto in precedenza, solo vi aggiunge una chiara testimonianza esterna, disposto a pagarne le conseguenze.

5. Nell’ultimo decennio del millennio scorso e in questi primi anni del presente la Chiesa e il Papa Giovanni Paolo II hanno levato fortemente la propria voce contro la guerra, ma, come è stato giustamente osservato, “il Papa non può essere qualificato come pacifista” (A. Riccardi, Governo carismatico. 25 anni di pontificato, Mondatori, 2003, p 165). Innanzitutto perché egli ha sempre reso onore a chi ha offerto la propria vita per la salvezza della patria; secondariamente perché non ha mai condannato a senso unico le guerre, ma sempre e solo “la” guerra, ed è stato, spesso, l’unico a rammentare alla coscienza dell’umanità anche tante guerre “dimenticate”; in terzo luogo perché è stato tra i primi a ipotizzare anche forme adeguate di intervento umanitario e di interposizione (cfr Messaggio pace 2000). Ma soprattutto Giovanni Paolo II non può essere annoverato tra i pacifisti per via di quella sapienza del realismo cristiano secondo cui l’unico modo di servire la pace è di non impossessarsene, ma di lasciarsi, invece, da essa conquistare. Nel pacifismo militante c’è, in fondo, una volontà di possedere la pace e di imporla. Non c’è dubbio che essa debba anche essere posta e, entro certi limiti, imposta, ma è altrettanto vero che la pace deve germinare e crescere. La si può coltivare, produrla è difficile. La sapienza del realismo cristiano sa bene che la pace è un dono di Dio prima che una conquista umana, sa anche che la pace piena non è cosa di questo mondo e, quindi, con pazienza, spinge a lasciarsi conquistare dalla pace piuttosto che a conquistarla. Non si diventa “operatori di pace” se non ci si è resi capaci di accogliere la pace dentro di sé.

6. Eccoci, così, al pacificatore. Egli trae alimento da suo essere un uomo di pace per collegarsi ad altri uomini di pace e, come tale, inserirsi dentro le situazioni storiche di conflitto per portare parole, atteggiamenti e soluzioni di pace. Se quello del pacifico è un modo di essere e il pacifismo un processo, quella pacificatrice è un’azione. Quanto il pacifismo può essere utopistico e astratto, tanto l’azione pacificatrice è concreta e realistica. Quanto il pacifismo semplifica, giudica e talvolta condanna, tanto l’azione pacificatrice vuole invece capire la complessità, aiutare a crescere, proporre soluzioni migliorative, convertire alla pace convertendosi ad essa. Il pacificatore entra nei conflitti della storia e si fa lievito. Se il pacifismo è guidato spesso dall’ideologia e percorre un progetto politico, il pacificatore, “operatore di pace”, è guidato prima di tutto dall’amore, perché, come scriveva Agostino, “avere la pace significa amare”. In questo senso, davanti ai molteplici conflitti verificatisi durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, e specialmente in occasione della guerra in Iraq, il Santo Padre ha più volte invitato ad essere uomini di pace e a farsi pacificatori. Proprio lui, infatti, stabilì una netta distinzione fra “pacifismo” e “apostolato della pace” (cfr A. Riccardi, Governo carismatico, p 166). Per essere seminatori di pace (cfr Gc. 3,18) occorre essere personalmente pacifici: “Vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi” (2Cor 13,11; cfr anche Rom 12,18; 1Ts 5,13).

7. La distinzione fra i 3 termini – pacifico, pacifista, pacificatore – trova alimento nel primato della pace intesa come dono di Dio rispetto alla pace concepita come conquista dell’uomo. Senza la distinzione di questi due livelli complementari non si capirebbe mai perché i primi pacificatori sono gli uomini di preghiera. Né si capirebbero le due grandi iniziative di preghiera proposte da Giovanni Paolo II e attuate ad Assisi nel 1986 e nel 2002. la pace è prima di tutto un dono di Dio: “Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14,27). La consapevolezza che gli uomini da soli non sanno darsela pone in crisi il pacifismo ideologico e apre lo spazio per i pacifici e i pacificatori.

8. Nel discorso del1987 al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Giovanni Paolo II immaginava una probabile domanda alla quale subito dava risposta. Ecco la domanda: “Alcuni diplomatici si chiederanno forse: come può la preghiera per la pace promuovere la pace?”. Ed ecco la risposta: “Il fatto è che la pace è innanzitutto un dono di Dio”.

9. C’è bisogno di uomini pacifici e pacificatori perché la pace non sarà mai solo un frutto di funzionamenti strutturali o di meccanismi giuridici e politici. Una pace “impersonale”, frutto di logiche indipendenti dalla persona, è una contraddizione in termini. Nelle pagine precedenti non si è inteso altro che profilare, in alcune delle sue linee essenziali, la prospettiva – concettuale, spirituale e relazionale – di una umanità “pacifica e pacificatrice”.
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