Pace

Lista Pace

Archivio pubblico

Il controllo della propria vita

Conferenza tenuta da Noam Chomsky il 26 febbraio 2000
al Kiva Auditorium di Albuquerque, New Mexico
24 marzo 2006
Noam Chomsky
Tradotto da per PeaceLink

Non è esagerato affermare che il tentativo di mantenere il controllo della propria vita è un tema predominante nella storia del mondo, tema che è andato crescendo di importanza negli ultimi secoli, ricchi di straordinari cambiamenti nei rapporti umani e nell’ordine mondiale. L’argomento è troppo vasto per poterne discutere in questa sede e dovrò quindi effettuare dei tagli drastici limitandomi soltanto agli avvenimenti attuali, cercando di individuarne le cause e i possibili sviluppi futuri. L’oggetto della mia analisi sarà il contesto globale anche se non è affatto l’unico ambito in cui nascono le questioni che discuteremo oggi.
Lo scorso anno i problemi mondiali sono stati inquadrati prevalentemente in base al concetto di sovranità, il diritto cioè delle entità politiche di evolversi, sia in maniera positiva che negativa, liberi da interferenze esterne che, nel mondo di oggi, vengono messe in atto da un potere fortemente concentrato che ha il suo centro principale negli Stati Uniti. Questa concentrazione di potere globale assume varie denominazioni a seconda del tipo di sovranità e di libertà che si intende. Così, talvolta è chiamato Washington consensus , o Wall Street-Treasury complex , o NATO, o burocrazia economica internazionale (Organizzazione Mondiale del Commercio, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale), o G7 (i ricchi paesi industrializzati dell’Occidente) o G3, o meglio ancora, G1. In base a una prospettiva più ampia, che richiederebbe più tempo per essere esposta, potremmo descrivere questo potere come un intreccio di megasocietà, spesso legate tra di loro da alleanze strategiche, in grado di gestire un’economia globale che è, nei fatti, una sorta di mercantilismo corporativo che, nella maggior parte dei settori, mira a diventare oligopolio e che fa grande affidamento sul potere statale per socializzare costi e rischi e per tenere a freno i dissenzienti.
Lo scorso anno la questione della sovranità è stata sollevata in due ambiti diversi. Il primo è il diritto sovrano della sicurezza di fronte all’intervento militare. In questo caso la questione si pone in un ordine mondiale basato su stati sovrani. Il secondo è il diritto sovrano nei confronti dell’intervento socio-economico. In questo caso il problema si colloca in un mondo dominato dalle multinazionali, negli ultimi tempi per lo più istituzioni finanziarie, e da una realtà costruita per servire i loro interessi: sono questi, per esempio, i problemi venuti drammaticamente alla ribalta lo scorso novembre a Seattle.
La prima questione, quella degli interventi militari, è stata molto dibattuta lo scorso anno. Due casi in particolare hanno destato grande attenzione e hanno avuto una forte risonanza, Timor Est e il Kosovo, elencati in ordine inverso sia cronologico che di importanza. Questi eventi meriterebbero di essere discussi ampiamente, anche alla luce di nuove informazioni che li riguardano; purtroppo, non riuscirò a farlo perché il tempo a disposizione è limitato. Se vorrete riprendere questo argomento al momento del dibattito, sarò felice di rispondervi. Affronterò dunque il secondo argomento (anche se con i dovuti tagli): il problema della sovranità, della libertà, dei diritti umani, il tipo di questioni insomma che nasce nell’arena socio-economica. Questa è l’aspetto dell’argomento “sovranità” che ho intenzione di trattare.
Inizierò con una considerazione generale: la sovranità non è un valore in se stesso, ma è un valore solo nella misura in cui aumenta o diminuisce i diritti. Voglio dare per scontato qualcosa che può sembrare ovvio ma che in realtà è controverso: quando si parla di libertà e di diritti si pensa a esseri umani, persone in carne ed ossa, non ad astratte costruzioni politiche e giuridiche come società per azioni, stati o capitali. Se queste entità hanno dei diritti –il che è discutibile– questi diritti dovrebbero discendere dai diritti del popolo. Questo concetto sta alla base del liberalismo classico ed è anche il principio che ha ispirato per secoli le lotte popolari ma pur tuttavia è fortemente osteggiato. È osteggiato dalla dottrina ufficiale. È osteggiato da settori dei ricchi e privilegiati, sia che si applichi al campo politico sia a quello socio-economico.
Vi chiedo ora di accantonare questo aspetto della questione per qualche minuto mentre mi soffermerò brevemente sul concetto di sovranità.
In ambito politico lo slogan abituale è “sovranità popolare in un governo del popolo, dal popolo e per il popolo” ma la realtà non è affatto questa. La realtà è che il popolo è considerato un nemico pericoloso che deve essere controllato per il suo bene. Queste problematiche risalgono a secoli fa, ai tempi delle prime rivoluzioni democratiche della storia che ebbero luogo nell’Inghilterra del XVII secolo e nelle colonie nordamericane del XVIII secolo. In entrambi i casi i democratici furono sconfitti, ma non completamente e, comunque, non per sempre. Nell’Inghilterra del XVII secolo la maggioranza della popolazione non voleva essere governata né dal re né dal parlamento. Teniamo presente che, nella storiografia classica della guerra civile, re e parlamento erano i due contendenti ma, come in quasi tutte le guerre civili, buona parte della popolazione non voleva nessuno dei due. Dalla lettura dei loro pamphlet, sappiamo che il popolo voleva essere governato da “contadini come noi, che conoscono i nostri bisogni”, non da “cavalieri e signori che ci impongono le leggi, che sono scelti per paura, che non pensano che ad opprimerci e che non conoscono le sofferenze della gente.”
Le stesse idee infiammarono un secolo dopo i ribelli delle colonie nordamericane ma il sistema costituzionale che prese forma alla fine di questo conflitto fu profondamente diverso dagli ideali dei rivoltosi. Esso fu concepito proprio per bloccare queste idee eretiche. L’obiettivo era “proteggere la minoranza dei ricchi dalla maggioranza” e assicurare che “il governo del paese fosse nelle mani di coloro che lo possedevano” per usare le parole di James Madison, il principale artefice della Costituzione, e di John Jay, il presidente del Congresso Continentale e il primo giudice della Corte Suprema. La loro concezione prevalse ma i conflitti continuarono e assumono continuamente nuove forme tanto che sono vivi ancora oggi. Ma la dottrina elitistica rimane sostanzialmente la stessa.
Arrivati di gran carriera al XX secolo prenderò in esame solo il polo liberale e progressista dello spettro politico perché quello conservatore ha una posizione ancora più dura. Nella concezione liberale il popolo è considerato un insieme di “outsider ignoranti e intriganti” il cui ruolo è quello di “spettatori” e non di “partecipanti”, chiamati solo periodicamente a scegliere tra i rappresentanti del potere privato.
Queste sono le cosiddette elezioni. Nelle elezioni l’opinione pubblica è per lo più considerata irrilevante se entra in conflitto con le esigenze della minoranza opulenta che governa il paese. Questo è esattamente lo scenario che abbiamo davanti a noi oggi.
Un esempio significativo, fra i tanti, è quello che riguarda l’ordine economico internazionale, e più esattamente i cosiddetti accordi commerciali. I sondaggi mostrano molto chiaramente che in linea generale la gente comune si oppone con forza a ciò che le succede intorno ma che, ciononostante, al momento delle elezioni i problemi non vengono a galla perché i centri del potere, in mano alla minoranza dei ricchi, sono compatti nel sostenere un determinato ordine socio-economico. Il problema perciò non si pone neanche. Gli argomenti che sono invece discussi non interessano la gente, come le questioni di carattere organizzativo o la questione delle riforme che si sa già che non verranno mai realizzate. Questo è l’oggetto delle discussioni elettorali, non quello che interessa alla gente. È un atteggiamento tipico da parte di chi pensa che il pubblico, considerato un insieme di outsider ignoranti e intriganti, debba avere solo il ruolo di spettatore. Se la gente, come spesso succede, cerca di organizzarsi e di entrare nell’arena politica per partecipare e portare avanti i propri interessi, questo sì diventa un problema. Lungi dall’essere in democrazia, occorre anzi risolvere una “crisi della democrazia”.
Si tratta anche in questo caso di una citazione. Anche se le citazioni provengono sempre dal polo liberale, progressista dello spettro politico moderno, questi principi sono ritenuti validi in larga misura anche da altri settori e gli ultimi 25 anni sono un classico esempio di come si conduce una campagna di vaste proporzioni per cercare di risolvere l’evidente crisi della democrazia e per ridurre la gente al ruolo di spettatori apatici, passivi e obbedienti. È questa la politica.
In campo socio-economico accade qualcosa di simile. Da lungo tempo si verificano conflitti paralleli, strettamente legati tra di loro. 150 anni fa, agli inizi della rivoluzione industriale, nelle cittadine del New England erano nati giornali indipendenti gestiti da giovani donne che originariamente erano contadine o artigiane. Esse condannavano la “degradazione e la subordinazione” del sistema industriale emergente che costringeva la gente a vendersi per sopravvivere.Vale la pena di ricordare, anche se con amarezza, che la manodopera salariata era considerata alla stregua di schiavi non solo dagli operai delle fabbriche ma anche dal pensiero dominante dell’epoca, Abramo Lincoln ad esempio, o il partito repubblicano, o perfino alcuni editoriali del New York Times (cosa che ora vorrebbero dimenticare). I lavoratori si opponevano alla restaurazione nel sistema industriale di ciò che chiamavano i “principi monarchici” e reclamavano la proprietà delle fabbriche in cui lavoravano, incarnando così lo spirito repubblicano. Denunciavano quello che secondo loro era il “nuovo spirito dei tempi: arricchirsi badando solo a se stessi”, una visione umiliante e degradante della vita che è stata instillata nelle menti umane con sforzi immensi nel corso dei secoli.
Nel XX secolo la letteratura dell’industria delle pubbliche relazioni fornisce una nutrita serie di istruzioni sul modo di instillare il “nuovo spirito dei tempi” creando bisogni artificiali oppure “irreggimentando le menti umane proprio come l’esercito irreggimenta i corpi dei soldati” incoraggiando una “filosofia della futilità”, la mancanza di scopi nella vita, concentrando l’attenzione sulle “cose più superficiali che riguardano per lo più i beni di consumo alla moda”. Se le istruzioni sortiranno l’effetto desiderato, le persone accetteranno la vita subordinata e priva di senso tagliata su misura per loro e si scorderanno delle idee sovversive sul modo di assumere il controllo della propria vita.
Siamo di fronte a un megaprogetto di ingegneria sociale che sta andando avanti da secoli ma che ha assunto dimensioni gigantesche nel secolo scorso. Esistono molti modi per realizzarlo: alcuni sono del tipo che ho già indicato e sono troppo noti per aver bisogno di essere illustrati; altri, molti altri, hanno lo scopo di minare la sicurezza. Uno di essi è la minaccia di trasferimento del posto di lavoro. È una delle conseguenze più importanti e dobbiamo razionalmente presumere uno degli scopi principali di quelli che vengono falsamente etichettati come “accordi commerciali” (sottolineo “falsamente etichettati” perché non si tratta in questo caso di libero scambio; gli accordi contengono molti elementi contrari al mercato, e poi non sono neanche accordi, perlomeno se si tiene in una qualche considerazione la gente, che è in gran parte contraria). Una conseguenza di questi accordi commerciali è rendere più facile la minaccia di trasferimento –che non deve per forza diventare reale (anche se talvolta lo è), basta comunque la minaccia– dal momento che la mancanza della sicurezza del posto di lavoro è un buon metodo per indurre la gente alla disciplina.
Un altro meccanismo –chiedo scusa per il linguaggio tecnico– è promuovere la cosiddetta “flessibilità del mercato del lavoro”. E qui citerò la Banca Mondiale che ha definito la questione molto chiaramente. Secondo la Banca “aumentare la flessibilità del mercato del lavoro –nonostante la cattiva reputazione che questa formula ha acquisito diventando un eufemismo di diminuzione dei salari e licenziamento dei lavoratori” (che è poi quello che è veramente) – “è essenziale in tutte le regioni del mondo…Fare le riforme più importanti significa non solo eliminare le restrizioni sulla mobilità del lavoro e sulla flessibilità dei salari ma anche troncare il legame tra servizi sociali e contratti di lavoro”. Significa in pratica sopprimere benefici e diritti conquistati grazie a lunghe e aspre lotte sindacali.
Quando si parla di togliere le restrizioni sulla flessibilità dei salari, si intende la loro diminuzione, non il loro aumento. Il discorso sulla mobilità del lavoro non significa libertà totale di movimento delle persone –come previsto dalla teoria del libero mercato fin dai tempi di Adam Smith– ma piuttosto il diritto di licenziare i lavoratori a proprio piacimento. E in base al concetto corrente di globalizzazione che è fondato sugli investitori, ad avere libertà di movimento sono i capitali e le società, non i lavoratori, perché i loro diritti sono considerati secondari, per non dire ininfluenti.
Queste “riforme essenziali”, come le chiama la Banca mondiale, sono imposte in quasi tutto il mondo come misure condizionate alla ratifica della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Sono state introdotte con altri mezzi nei ricchi paesi industrializzati e si sono dimostrate efficaci. Alan Greenspan ha testimoniato davanti al Congresso degli Stati Uniti che “una maggiore insicurezza dei lavoratori” era un fattore importante nella cosiddetta “economia di fiaba”. L’insicurezza mantiene bassa l’inflazione perché i lavoratori hanno paura di chiedere aumenti di salario e benefici accessori. Si sentono insicuri e le statistiche mostrano molto chiaramente questo stato d’animo. Negli ultimi 25 anni di politica di ritorno al passato e di crisi della democrazia, i salari della maggioranza della forza lavoro, vale a dire del personale che non ha responsabilità di supervisione, sono rimasti fermi o sono addirittura diminuiti mentre le ore di lavoro hanno registrato un forte aumento diventando le più alte nel mondo industriale. Questo fenomeno è stato ovviamente rimarcato dai giornali finanziari che lo descrivono come “uno sviluppo favorevole di straordinaria importanza” grazie al quale i lavoratori sono costretti a abbandonare il loro “lussuoso stile di vita” mentre i profitti delle società sono “abbaglianti” e “sorprendenti” (Wall Street Journal, Business Week e Fortune).
Nei domini statunitensi nel mondo si possono adottare misure ancora più drastiche. Una è la cosiddetta “crisi dell’indebitamento pubblico” che si può fare risalire alle politiche degli anni ‘70 della Banca Mondiale e del FMI e al fatto che i ricchi del Terzo Mondo sono quasi sempre esentati dagli obblighi sociali. Questa è la drammatica realtà ed anche uno dei principali problemi dell’America latina. La “crisi dell’indebitamento pubblico” in realtà non è assolutamente un semplice fatto economico ma è in larga misura una costruzione ideologica. Il problema del cosiddetto “debito” potrebbe infatti essere facilmente risolto in più di una maniera.
Per risolverlo si potrebbe ad esempio ricorrere al principio capitalistico secondo cui i debitori devono pagare e i creditori devono assumersi i loro rischi. Ad esempio, se voi mi prestate del denaro e io lo mando in Svizzera e mi compero una Mercedes, quando poi voi mi chiedete di restituirvelo non posso dirvi “mi dispiace, non ce l’ho, chiedilo al mio vicino”. E se voi non volete assumervi i rischi insiti nel fare un prestito non potete dire “sarà il mio vicino a farlo”.
Tuttavia è così che stanno le cose nell’arena internazionale. La crisi dell’indebitamento si riduce a questo: il debito non viene pagato da coloro che hanno chiesto il prestito –i dittatori militari, i loro compari, i ricchi e i privilegiati dei paesi a regime totalitario che noi abbiamo appoggiato– non sono loro che pagano. Prendiamo ad esempio l’Indonesia, dove il debito attuale è di circa il 140% del Prodotto interno lordo. Il denaro è stato preso in prestito dai dittatori militari e dai loro amici e quindi detenuto al massimo da 200 persone, ma il debito deve essere pagato dal popolo al prezzo di dure misure di austerità. I finanziatori sono in gran parte protetti dai rischi. Riscuotono ciò che equivale ad un’assicurazione senza rischi grazie a vari meccanismi di socializzazione dei costi che trasferiscono ai contribuenti del Nord del mondo. Questa è una delle funzioni del FMI.
Lo stesso fenomeno accade in America Latina. L’entità del pesantissimo debito latino-americano corrisponde grosso modo a quello della fuga di capitali. Stando al principio capitalista ci sarebbe un modo semplice per risolvere il problema del debito, nella sua interezza o solo in parte. Ma questo principio, naturalmente, è inaccettabile perché farebbe gravare il debito sulle spalle sbagliate, quelle della minoranza dei ricchi.
Esistono anche altre misure per eliminare il debito; esse sono risapute e mostrano fino a che punto il debito è diventato una costruzione ideologica. A parte il principio capitalistico, un altro metodo per liberarsene è offerto dal principio del diritto internazionale introdotto dagli Stati Uniti quando, come si legge nei libri di storia, “liberarono” Cuba, nel senso che conquistarono Cuba prima che essa si liberasse da sola dal dominio spagnolo nel 1898. Dopo la “liberazione”, gli Stati Uniti cancellarono il debito di Cuba nei confronti della Spagna adducendo il ragionevole motivo che il debito era stato imposto senza il consenso del popolo, anzi con metodi coercitivi. Questo principio è poi entrato nel diritto internazionale soprattutto per iniziativa degli Stati Uniti con il nome di “principio del debito odioso”. Un debito odioso non è valido e quindi non deve essere pagato. Il direttore generale del FMI, uno statunitense, ha riconosciuto che se il principio fosse applicabile alle vittime e non solo ai ricchi, il debito del Terzo Mondo si dissolverebbe perchè non è valido, è un debito odioso.
Purtroppo non è così. Il debito odioso è una potente arma di controllo e non può essere abbandonata. Oggi, per circa la metà della popolazione mondiale, la politica economica dei loro paesi, grazie a questo metodo, è nelle mani dei burocrati di Washington. Inoltre metà della popolazione mondiale (non la stessa di prima, anche se in parte coincidente) è soggetta a sanzioni unilaterali da parte degli USA che rappresentano una forma di coercizione economica in grado di minacciare seriamente la sovranità di un paese ed è stata ripetutamente condannata, anche recentemente, dall’ONU come inaccettabile, una condanna che però non è stata certo presa sul serio.
Nei paesi ricchi ci sono altri modi per ottenere risultati simili. Ritornerò su questo tra poco perché prima vorrei dire qualcosa su ciò che non si dovrebbe mai dimenticare, e cioè sulla brutalità delle strategie utilizzate nelle domini statunitensi. Nel corso di un convegno organizzato a San Salvador dai Gesuiti un paio di anni fa venne analizzato il progetto dello stato terrorista degli anni ‘80 e i suoi sviluppi grazie alla politica socio-economica imposta dai vincitori. Il dibattito si soffermò soprattutto su quella che viene chiamata la “cultura del terrore” ancora viva dopo che la vera e propria stagione del terrore è passata e che è diretta ad “addomesticare le aspettative della maggioranza”, in modo da vanificare ogni speranza di “alternativa alle pretese dei potenti”. La maggioranza ha infatti imparato che “There is no alternative” o TINA (“Non c’è alternativa”), la crudele frase coniata da Margaret Thatcher. Non c’è nessuna alternativa, questo è l’ormai noto slogan della globalizzazione dal punto di vista delle grandi imprese. Nei domini il grande risultato delle azioni terroristiche è stato quello di distruggere le speranze nate negli anni ‘70 nell’America Latina e nell’America centrale grazie alle organizzazioni popolari nate in tutta la regione e all’ “opzione preferenziale per i poveri” della Chiesa che fu severamente punita per questa sua deviazione dalla retta via.
Ci sarebbe ancora molto da dire su questo argomento e mi dispiace lasciarlo cadere ma il tempo è tiranno. Talvolta le lezioni dagli avvenimenti del passato sono tratte in modo accurato e con toni misurati. Attualmente ci crogiolamo nell’auto-adulazione per avere ispirato con successo un’ondata di democrazia nei nostri domini dell’America Latina. La questione è stata posta in maniera un po’ diversa, ma più accurata, in un’importante rivista accademica da uno specialista del settore, Thomas Carrothers, che scrive, per sua stessa ammissione, dalla “prospettiva di un insider” dal momento che ha servito nell’amministrazione Reagan occupandosi dei cosiddetti “programmi per il miglioramento della democrazia” all’interno del Dipartimento di Stato. Carrothers crede che le intenzioni di Washington fossero buone ma riconosce che, in pratica, l’amministrazione Reagan ha cercato di mantenere “l’ordine su cui si fondavano…società che erano totalmente non democratiche” e di evitare “cambiamenti fondati sul populismo” e, come le amministazioni precedenti, ha adottato “politiche in favore della democrazia al fine di allentare la pressante richiesta di cambiamenti più radicali, ma ha inevitabilmente perseguito solo forme limitate e verticistiche di cambiamento democratico per non correre il rischio di sconvolgere le tradizionali strutture di potere che da lungo tempo sono alleate degli Stati Uniti”. Una versione quella di Carrothers abbastanza accurata dei fatti anche se sarebbe stato più accurato dire “le tradizionali strutture di potere con cui le tradizionali strutture di potere all’interno degli Stati Uniti sono da lungo tempo alleate”.
Carrothers stesso non è soddisfatto del risultato; d’altro canto, egli non ritiene che la cosiddetta “critica liberale” sia fondata. “Questa critica” -egli dice- “lascia irrisolte le vecchie controversie a causa del suo punto debole di sempre”. L’eterno punto debole sta nella mancanza di alternative alla politica di restaurazione delle tradizionali strutture di potere che hanno seminato il terrore nell’America Latina degli anni ‘80 lasciando centinaia di migliaia di cadaveri, milioni di rifugiati, invalidi e orfani nelle società devastate. Di nuovo TINA, Non c’è nessuna alternativa.
L’importanza di questo dilemma è stata riconosciuta anche dall’altro capo dello spettro politico, da parte di Robert Pastor, il principale specialista dei problemi latino-americani del presidente Carter. Pastor, una colomba che si situa all’estremo polo progressista nello spettro politico, in un libro interessante spiega i motivi per cui l’amministrazione Carter ha dovuto appoggiare il regime assassino e corrotto di Somoza fino alla fine e perché, anche quando le tradizionali strutture di potere hanno voltato le spalle al dittatore, gli Stati Uniti (amministrazione Carter) hanno cercato di mantenere la guardia nazionale che avevano istituito e addestrato, e che aveva attaccato la popolazione “con una brutalità che una nazione riserva di solito ai suoi nemici”, parole di Pastor. Tutto fu eseguito all’insegna delle buone intenzioni in base al principio del TINA, Nessuna alternativa. La ragione è questa: “Gli Stati Uniti non volevano controllare il Nicaragua o altre nazioni della regione ma non volevano neppure perdere il controllo degli eventi. Volevano che i Nicaraguensi agissero in maniera indipendente a patto che” (enfasi dell’oratore) “non agissero in modo contrario agli interessi degli Stati Uniti”. Così, in altre parole, i latino-americani dovrebbero essere liberi, liberi a patto di agire in accordo con i nostri desideri. Noi vogliamo che possano scegliere liberamente la loro strada a meno che non facciano scelte che noi non vogliamo nel qual caso dobbiamo restaurare le tradizionali strutture di potere, anche con la violenza, se necessario. Questa è la voce più liberale e progressista dello spettro.
Non voglio negare che ci siano altre voci al di fuori dello spettro politico. Per esempio c’è l’idea che “la gente comune dovrebbe avere il diritto di prender parte alle decisioni che spesso modificano in modo profondo il corso della sua vita”, il diritto di non vedere le sue speranze “crudelmente infrante” in un ordine globale in cui “il potere politico e finanziario è concentrato” mentre i mercati finanziari “sono soggetti a fluttuazioni del tutto imprevedibili” con devastanti conseguenze per i poveri, dove “le elezioni possono essere manipolate” e dove “le conseguenze negative sugli altri sono considerate del tutto irrilevanti dai potenti”. Sono tutte citazioni dell’estremista radicale che siede in Vaticano. Il suo tradizionale messaggio di Capodanno viene a malapena menzionato dalla stampa nazionale statunitense; esso rappresenta sicuramente un’alternativa che però non trova posto nell’ordine del giorno dei potenti.
Ma perché esiste questa ampia intesa secondo cui i latino-americani, anzi il mondo intero, non può esercitare la sua sovranità, il diritto cioè di avere il controllo della propria vita? A questo riguardo si può tracciare una perfetta analogia con la paura della democrazia interna. È interessante esaminare i modi con cui il problema è stato trattato, innanzitutto nei documenti interni a nostra disposizione (siamo davvero un paese libero: disponiamo di un’ampia raccolta di documenti declassificati molto interessanti). Il tema ricorrente dei documenti è stato molto ben illustrato in un’occasione di grande importanza, la conferenza emisferica organizzata dagli Stati Uniti nel febbraio del 1945 per imporre la cosiddetta Carta economica per le Americhe, una pietra miliare nel mondo del dopoguerra che è valida ancora oggi. La Carta richiedeva la fine del ”nazionalismo economico (leggasi: sovranità) in tutte le sue forme”. I latino-americani avrebbero dovuto evitare il cosiddetto sviluppo industriale “eccessivo” che poteva entrare in competizione con gli interessi degli Stati Uniti, ma avrebbero potuto godere di uno “sviluppo complementare”. In questo modo il Brasile poteva produrre acciaio a basso costo a cui le industrie statunitensi non erano interessate. Era di cruciale importanza “proteggere le nostre risorse” come George Kennan disse, anche se ciò richiedeva l’istituzione di “stati di polizia”.
Per imporre la Carta, Washington si trovò a fronteggiare un problema che a quel tempo il Dipartimento di Stato spiegò in questo modo: i latino-americani stavano facendo le scelte sbagliate. Essi pretendevano “politiche volte ad attuare una distribuzione più ampia della ricchezza e a migliorare il livello di vita delle masse” ed erano “convinti che il primo beneficiario dello sviluppo economico di un paese dovesse essere la popolazione di quel paese”, non gli investitori statunitensi. Questo era inaccettabile, perciò niente concessione della sovranità. I latino-americani potevano sì avere la libertà, ma solo quella di fare le scelte giuste.
Questo concetto è stato riaffermato regolarmente ed energicamente in varie occasioni. Il Guatemala, ad esempio, ha avuto una breve parentesi di democrazia, conclusasi, come noto, con un colpo militare degli Stati Uniti che all’opinione pubblica fu presentato come un atto di difesa contro i russi. Un po’ bizzarra come storia, ma è proprio così che fu raccontata. Nei documenti interni l’attacco fu spiegato diversamente e la minaccia fu analizzata in modo più realistico. Ecco come: “I programmi sociali ed economici del governo eletto hanno soddisfatto le aspirazioni “dei lavoratori e dei
contadini” e “hanno trovato l’adesione della parte dei guatemaltechi che hanno una coscienza politica”. Peggio ancora, il governo del Guatemala era “diventato una crescente minaccia alla stabilità dell’Honduras e di El Salvador. La sua riforma agraria rappresenta una potente arma di propaganda. Il vasto programma sociale di aiuto agli operai e ai contadini nell’ottica di una lotta vittoriosa contro i ricchi e le grandi imprese straniere esercita un forte richiamo sulle popolazioni centro-americane dove si riscontrano analoghe condizioni sociali”.
Pertanto, si rese necessaria una soluzione militare che è durata 40 anni ed ha lasciato dietro di sé la stessa cultura del terrore radicata nei paesi vicini.
Lo stesso avvenne a Cuba, un altro caso non ancora concluso. Quando gli Stati Uniti presero (segretamente) la decisione di rovesciare il governo cubano nel 1960 le ragioni furono molto simili e furono spiegate dallo storico Arthur Schlesinger che aveva riassunto in un rapporto segreto diretto a Kennedy, appena insediato alla presidenza, lo studio di una missione in America Latina. Secondo la missione, la minaccia cubana consisteva nella “diffusione dell’idea castrista di prendere il proprio destino nelle proprie mani”. È una malattia, ha spiegato Schlesinger, che può infettare il resto
dell’America latina, dove “i poveri e i non privilegiati”, cioè quasi tutti, “stimolati dall’esempio della rivoluzione cubana, ora pretendono che gli sia data l’opportunità di una vita decente”. Vista la situazione, qualcosa si doveva fare e si sa come è andata. E la cosiddetta “Soviet connection?” Così è stata descritta nello stesso rapporto: “L’Unione sovietica, intanto, si aggira dietro le quinte, ostentando la disponibilità a concedere grossi prestiti e presentandosi come un modello di come si fa a raggiungere la modernizzazione nel corso di una sola generazione”.
Ebbene, è questa la minaccia, la minaccia di prendere il proprio destino nelle proprie mani, e per distruggerla si è dovuto ricorrere al terrorismo e allo strangolamento economico, tuttora in corso. Tutto ciò non ha niente a che vedere con la guerra fredda, come appare ormai ovvio anche senza l’aiuto dei documenti segreti. Nel periodo successivo alla guerra fredda i presidenti Bush e Clinton, alle prese con lo stesso problema e forti delle esperienze precedenti, intervennero tempestivamente per stroncare il breve esperimento democratico di Haiti.
Le stesse preoccupazioni sono alla base degli accordi commerciali, come per esempio del NAFTA. Vi ricorderete che il NAFTA, secondo la propaganda dell’epoca, avrebbe garantito straordinari benefici per i lavoratori di tre paesi: Canada, Stati Uniti e Messico. Bene, poco tempo dopo, davanti all’evidenza dei fatti, questo obiettivo fu tacitamente abbandonato e ciò che era ormai ovvio agli occhi di tutti alla fine fu ammesso pubblicamente. Lo scopo era di “bloccare il Messico nelle sue riforme” degli anni ‘80, quelle riforme che avevano determinato una drastica riduzione dei salari e arricchito una porzione ristretta della popolazione e gli investitori stranieri. Le preoccupazioni di fondo vennero espresse in un seminario nell’ambito di una conferenza sullo sviluppo delle strategie latino-americane tenutasi a Washington nel 1990. Si gettava l’allarme su “una svolta democratica in Messico da parte di un nuovo governo interessato a sfidare gli Stati Uniti per motivi nazionalistici ed economici, che avrebbe potuto mettere alla prova il rapporto speciale con gli Stati Uniti”. È la stessa minaccia già lanciata nel 1945 e risolta, in quel caso, inchiodando il Messico agli obblighi di un trattato. Le medesime ragioni sono la causa di mezzo secolo di torture e di terrore, e non solo nell’emisfero occidentale. Sono anche alla base degli accordi sui diritti degli investitori imposti in nome di quella specifica forma di globalizzazione progettata dal potente capitalismo di stato.
Torniamo ora al punto di partenza: il contestato problema della libertà e dei
diritti e quindi il modo di valutare la sovranità. Sono diritti propri delle persone in carne ed ossa oppure solo di piccoli settori di ricchi e privilegiati? O perfino di costruzioni astratte come le società, i capitali o gli stati? Nel secolo scorso si è fortemente sostenuta l’idea che queste entità avessero dei diritti speciali, al di sopra e aldilà delle persone. Gli esempi più importanti sono il bolscevismo, il fascismo e il corporativismo privato, che è una forma di tirannia privatizzata. Due di questi sistemi sono crollati. Il terzo è vivo e vegeto e prospera sotto la bandiera “TINA”. Non c’è nessuna alternativa all’ascesa del mercantilismo corporativo di stato camuffato con parole magiche come globalizzazione e libero scambio.
Un secolo fa durante i primi stadi del processo di formazione di grandi società in America, si discuteva apertamente di questo argomento. A quel tempo, i conservatori denunciavano questo procedimento giudicandolo come un “ritorno al feudalesimo” e una “forma di comunismo”, tracciando un’analogia non del tutto inappropriata. Concetti simili sono all’origine delle teorie neo-hegeliane sui diritti delle entità omogenee e della convinzione che i sistemi caotici –come i mercati, totalmente al di fuori di ogni controllo– hanno bisogno di un’amministrazione centralizzata. Vale la pena di notare che nella cosiddetta “economia di libero scambio” una grossa componente (circa il 70%) delle transazioni internazionali (ingannevolmente chiamate “commercio”), avviene in realtà all’interno di istituzioni gestite in maniera centralizzata, di società e di alleanze societarie se includiamo l’outsourcing e altri dispositivi amministrativi. E questo senza contare tutte le altre grossolane distorsioni del mercato.
La critica conservatrice –notate che sto usando il termine “conservatrice” in senso tradizionale; questa categoria non esiste quasi più– la critica conservatrice, dicevo, è stata ripresa dal polo liberale o progressista dello spettro agli inizi del XX secolo, soprattutto per opera di John Dewey, eminente filosofo sociale americano che nei suoi scritti si è soprattutto occupato di democrazia. Egli ha teorizzato che le forme democratiche hanno poca consistenza quando “la vita del paese” –produzione, commercio, media– è governata da tirannie private in un sistema che egli ha chiamato “feudalesimo industriale” nel quale i lavoratori sono subordinati al controllo dei dirigenti e la politica diventa “l’ombra stesa sulla società dal grande business”.
Dewey esprimeva idee già diffuse da molti anni tra la classe lavoratrice, come ho detto prima. Lo stesso dicasi per la sua richiesta di eliminare il feudalesimo industriale sostituendolo con una democrazia industriale autogestita.
È interessante notare che gli intellettuali progressisti che hanno favorito il processo di corporativizzazione erano tutti più o meno d’accordo con le idee di Dewey. Woodrow Wilson, ad esempio, scrisse che “la maggior parte degli uomini è serva delle aziende commerciali” che ora rappresentano la “parte più consistente del mondo degli affari della nazione” in un “paese molto differente dalla vecchia America … non più sede di imprese dell’individuo, opportunità dell’individuo e risultati dell’individuo” ma una nuova America dove “gruppi più o meno grandi di uomini al comando di grandi società esercitano un potere assoluto sulla ricchezza e gli affari del paese” diventando così “rivali del governo stesso” e mettendo a repentaglio la sovranità popolare, esercitata attraverso il sistema politico democratico.
Notate che queste frasi furono scritte a sostegno del processo di corporativizzazione. Giudicandolo un processo forse sciagurato ma necessario, Wilson era d’accordo con il mondo degli affari, soprattutto dopo che la caduta rovinosa dei mercati degli anni precedenti aveva convinto gli imprenditori e gli intellettuali progressisti che i mercati avevano semplicemente bisogno di essere guidati e che nelle operazioni finanziarie c’era la necessità di introdurre delle regole.
Questioni simili, molto simili sono attualmente alla ribalta nell’arena internazionale, come ad esempio i discorsi sulla necessità di riformare l’architettura finanziaria e cose del genere. Un secolo fa, proprio in quello stesso periodo, alle società furono garantiti i diritti dell’individuo sostanzialmente grazie all’attivismo del potere giudiziario, un esempio di grave violazione dei diritti liberali classici. Le società furono anche esentate dagli obblighi del passato di limitarsi alle specifiche attività per le quali erano state costituite. Un importante passo successivo da parte dei tribunali fu quello di trasferire il potere dagli azionisti di una società alla direzione centrale, che veniva così ad assumere personalità giuridica. Chi di voi conosce la storia del comunismo troverà dei parallelismi con il processo che stava avendo luogo in quel periodo e che fu previsto dai critici di sinistra, marxisti e anarchici critici del bolscevismo, come ad esempio Rosa Luxembourg, che furono tempestivi nel segnalare come l’ideologia centralistica avrebbe spostato il potere dai lavoratori al partito, al comitato centrale e al leader massimo, come è effettivamente avvenuto molto presto dopo la conquista del potere nel 1917 che distrusse ogni residuo delle forme e dei principi socialisti. I propagandisti sia di destra che di sinistra preferiscono raccontarla diversamente per il proprio tornaconto ma io penso che la versione giusta sia proprio questa.
Recentemente alle società sono stati concessi dei diritti che vanno ben oltre quelli delle persone fisiche. Grazie alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio le società possono pretendere quello che viene chiamato il diritto del “trattamento nazionale”. Ciò significa che, se opera in Messico, la General Motors può esigere di essere trattata come un’azienda messicana. Ora, questo è un diritto solo di chi è immortale, non di persone in carne ed ossa. Un messicano non può andare a New York e chiedere di essere trattato come uno statunitense e venir accontentato, una società invece può farlo.
Altre regole impongono che i diritti degli investitori, dei finanziatori e degli speculatori debbano prevalere sui diritti delle persone normali, minacciando così la sovranità popolare e riducendo i diritti democratici. Le società, come sicuramente sapete, conoscono varie maniere per promuovere azioni e far causa contro gli stati sovrani. Ci sono dei casi interessanti: ad esempio, il Guatemala, un paio di anni fa, ha cercato di ridurre la mortalità infantile imponendo delle regole al mercato degli omogeneizzati prodotti dalle multinazionali. Le misure proposte dal Guatemala erano conformi alle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e ai codici internazionali ma di fronte alla protesta della Gerber Corporation che ha parlato di espropriazione e alla minaccia di un’azione da parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio il Guatemala si è tirato indietro per paura di ritorsioni da parte degli Stati Uniti.
I primi a protestare contro le nuove regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sono stati Venezuela e Brasile i quali hanno contestato agli Stati Uniti le norme dell’Agenzia di protezione ambientale (EPA) perché violavano i loro diritti di paesi esportatori di petrolio. In quell’occasione fu Washington a tirarsi indietro, ufficialmente per paura delle sanzioni, anche se io sono scettico su questa interpretazione. Io non penso che gli Stati Uniti temessero le sanzioni di Venezuela e Brasile. Più probabilmente l’amministrazione Clinton si rese conto che non aveva motivi impellenti per difendere l’ambiente e proteggere la salute.
Questioni come queste sono in grande, per non dire disgustoso, aumento. Decine di milioni di persone stanno morendo in tutto il mondo a causa di malattie curabili come conseguenza delle regole protezionistiche dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che garantiscono alle megasocietà private il diritto al monopolio dei prezzi. La Tailandia e il Sudafrica, ad esempio, che possiedono industrie farmaceutiche, sono in grado di produrre farmaci salvavita ad un costo infimo rispetto a quello imposto dai monopoli ma esitano a farlo per paura di sanzioni commerciali. Nel 1998, infatti, gli Stati Uniti minacciarono di non finanziare più l’Organizzazione Mondiale della Sanità se essa avesse monitorato l’effetto degli accordi commerciali sulla salute. Si tratta di minacce molto reali. Sto parlando di un problema attuale, che anche la stampa internazionale ha trattato questa settimana.
Questi diritti sono chiamati “commerciali” ma non hanno niente a che fare con il commercio. Essi riguardano piuttosto le pratiche monopolistiche dei prezzi rafforzate da misure protezionistiche introdotte nei cosiddetti accordi di libero scambio, studiate per salvaguardare i diritti delle imprese. Queste misure, naturalmente, hanno anche l’effetto di ridurre la crescita e l’innovazione e sono solo una parte della serie di regole introdotte in questi accordi commerciali con l’unico scopo di impedire lo sviluppo e la crescita. Ad essere in gioco sono i diritti degli investitori, non il commercio. Il commercio, ovviamente, non ha valore in se stesso: è un valore solo se contribuisce al benessere umano.
Il principio generale che è alla base dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il principio primario e i relativi trattati, stabilisce che la sovranità e i diritti democratici devono essere subordinati ai diritti degli investitori. Significa, in pratica, che la gente deve sottomettersi ai diritti dei colossi societari “immortali”, vere e proprie tirannie private. Sono questi i problemi che hanno portato ai fatti di Seattle. Ma in qualche modo, anzi in molti modi il conflitto tra sovranità popolare e potere privato si è definito con maggior chiarezza un paio di mesi dopo Seattle, soltanto poche settimane fa a Montreal, dove si è raggiunto un ambiguo accordo sul cosiddetto “protocollo sulla biosicurezza”. In questa occasione il problema è stato analizzato molto chiaramente. Cito il New York Times “Compromesso raggiunto dopo intensi negoziati che hanno opposto gli Stati Uniti al resto del mondo” sul cosiddetto “principio precauzionale”. Di cosa si tratta? Il principale negoziatore dell’ Unione Europea l’ha descritto così: “I paesi
devono avere la libertà, il diritto sovrano di prendere misure precauzionali nei riguardi di semi, microbi, animali e raccolti geneticamente modificati che potrebbero essere pericolosi per la salute delle persone”. Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno insistito sulle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio in base alle quali si può vietare un’importazione solo se sussistono prove scientifiche della sua pericolosità.
Fate attenzione a quello che è in ballo. La questione è se la gente ha il diritto di rifiutarsi di diventare un animale da laboratorio. Supponiamo che il Dipartimento di Biologia dell’Università venga da voi e vi dica: “Dovete partecipare ad un esperimento che stiamo conducendo ma di cui non conosciamo le conseguenze. Vi metteremo elettrodi nel cervello per vedere cosa succede. Potete rifiutare, ma solo se fornite prove scientifiche che l’esperimento può farvi male”. Normalmente voi non siete in grado di fornire prove scientifiche di questo tipo. La domanda è: avete il diritto di dire di no? Stando alle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, no e quindi dovete sottoporvi alla sperimentazione. È una forma di ciò che Edward Herman, un autore che ha collaborato con me e che è anche un economista, ha chiamato “la sovranità del produttore”. Il produttore domina; i consumatori devono in qualche modo difendersi. Questa regola funziona anche all’interno del nostro paese, come Herman ha evidenziato. Non spetta, per esempio, alle industrie chimiche e di pesticidi dimostrare, fornire le prove scientifiche che quello che buttano nell’ambiente non fa male. Spetta al pubblico provare scientificamente che fa male tramite enti pubblici sottofinanziati e, quindi, esposti all’influenza esercitata dalle industrie attraverso le lobby e altri metodi di pressione.
Era questo il problema dibattuto a Montreal, su cui si è raggiunto un accordo ambiguo. Va notato che non si trattava di una questione di principio come si può ben constatare dando un’occhiata agli schieramenti. Da un lato gli Stati Uniti assieme a qualche altro paese che ha grossi interessi nelle biotecnologie e nell’esportazione di prodotti alimentari ad alta tecnologia; dall’altro tutti gli altri paesi che non si aspettavano di trarre profitti dalle sperimentazioni. Questi schieramenti indicano chiaramente quanto poco si trattasse di una questione di principio. Per ragioni simili, l’Unione Europea sostiene tariffe elevate sui prodotti agricoli, proprio come gli Stati Uniti facevano 40 anni fa. Ora non lo fanno più, non perché i principi siano cambiati, ma perché è cambiato il potere.
Esiste un principio prioritario: il principio secondo cui i potenti e i privilegiati possano fare ciò che vogliono (in nome, naturalmente, di nobili motivi). Ne consegue che a soccombere sono la sovranità e i diritti democratici dei cittadini che, in questo caso particolarmente drammatico, si vedrebbero costretti a fare da cavie in un esperimento per far guadagnare le società statunitensi. Il richiamo degli Stati Uniti all’osservanza delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio è quindi logico, visto che esse codificano questo principio.
Benché questi problemi siano reali e riguardino una gran quantità di gente in tutto il mondo, sono secondari rispetto ad altre misure volte a ridurre la sovranità a favore del potere privato. La più importante è stata sicuramente, a mio parere, lo smantellamento del sistema di Bretton Woods avvenuto nei primi anni ‘70 ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna ed altri paesi. Il sistema era stato progettato negli anni ‘40 da Stati Uniti e Gran Bretagna, in un momento di grande consenso popolare a favore di programmi di welfare e di misure democratiche veramente radicali. Anche grazie a queste ragioni, alla metà degli anni ‘40 il sistema di Bretton Woods regolamentò il tasso di cambio e permise i controlli sul flusso dei capitali. L’intento era di ridurre le speculazioni dannose e pericolose e di arginare la fuga dei capitali. I motivi erano lampanti: il flusso di capitale liquido crea un “parlamento virtuale” del capitale mondiale, in grado di esercitare potere di veto su politiche governative considerate irrazionali: politiche come i diritti dei lavoratori, programmi nel settore dell’educazione, o della sanità, tentativi di stimolare l’economia, insomma tutto ciò che può andare a beneficio della gente, ma non dei profitti (e perciò, sotto l’aspetto tecnico, politiche irrazionali).
Il sistema di Bretton Woods funzionò più o meno per 25 anni. È quella che molti economisti chiamano gli “anni d’oro” del moderno capitalismo (più esattamente, del moderno capitalismo di stato). È stato un periodo, durato grosso modo fino al 1970, senza precedenti nella storia: rapida crescita dell’economia, della produttività, degli investimenti di capitale, di miglioramento delle misure statali nel welfare; un periodo d’oro. Tutto si capovolse nei primi anni ‘70. Il sistema di Bretton Wood fu smantellato con la liberalizzazione dei mercati finanziari e la fluttuazione del corso dei cambi.
Il periodo successivo è stato spesso descritto come gli “anni di piombo” perché caratterizzati da una grande esplosione di capitale speculativo a breve termine, che ha sopraffatto completamente l’economia produttiva. Si è verificato un forte deterioramento generale: crescita molto più lenta dell’economia, della produttività, degli investimenti di capitali, aumento dei tassi di interesse (che rallenta la crescita), maggiore volatilità dei mercati e crisi finanziarie. Gli effetti sulla gente sono stati duri, anche nei paesi ricchi: stagnazione o diminuzione dei salari, aumento delle ore lavorative (particolarmente forte negli Stati Uniti), taglio dei servizi. Solo per farvi un esempio di quello che è attualmente la grande economia di cui tanto si parla, il reddito medio delle famiglie è ritornato ad essere più o meno quello del 1989, ben al di sotto di quello degli anni ‘70. È stato anche un periodo di smantellamento delle misure democratiche in campo sociale che tanto hanno contribuito al benessere umano. In generale, il nuovo ordine internazionale ha aumentato il potere di veto del “parlamento virtuale” dei capitali privati determinando così un significativo declino della democrazia e dei diritti di sovranità (nel vero senso della parola) e un notevole deterioramento delle condizioni sociali.
Se questi effetti si avvertono nei paesi ricchi, essi costituiscono una catastrofe nelle società più povere. Problemi come questi sono comuni a tutte le società e quindi la questione non si riduce all’arricchimento di alcune società a scapito dell’impoverimento di altre. Le misure più significative riguardano ampi settori della popolazione mondiale. Secondo le più recenti analisi della Banca Mondiale, se si prende in esame il 5% della popolazione più ricca e si confronta il suo reddito e la sua ricchezza con quelle del 5% della popolazione più povera, il rapporto è salito dal 78 a 1 nel 1988 al 114 a 1 nel 1993 (l’ultimo periodo di disponibilità dei dati) e adesso è senz’altro aumentato. Gli stessi dati mostrano che l’1% della popolazione mondiale più ricca ha lo stesso reddito del 57% di quella più povera, 2 miliardi e mezzo di persone.
Per quanto riguarda i paesi ricchi, il punto della situazione è stato fatto molto chiaramente dal noto economista Barry Eichengreen nella sua pregevole storia del sistema monetario internazionale. Come molti altri hanno già fatto rilevare, egli ha sottolineato che l’attuale fase di globalizzazione è in qualche modo simile al periodo immediatamente precedente la prima guerra mondiale. Ci sono comunque delle differenze. La prima differenza, spiega l’economista, è che a quei tempi la politica del governo non era ancora stata “politicizzata” dal “suffragio universale maschile e dalla crescita del sindacalismo e dei partiti parlamentari laburisti”. Perciò gli alti costi sociali dovuti alle regole del profitto e imposti dal parlamento virtuale potevano essere trasferiti alla popolazione nel suo complesso. Questo lusso non era però più possibile nell’era democratica di Bretton Woods del 1945 cosicché i “limiti sulla mobilità dei capitali sostituirono quelli sulla democrazia come ammortizzatori della pressione dei mercati”.
C’è una conseguenza a tutto questo. È naturale che lo smantellamento dell’ordine economico del dopoguerra sia accompagnato da un forte attacco –sotto lo slogan di TINA– alle forme essenziali della democrazia: libertà, sovranità popolare e diritti umani. È una sorta di parodia farsesca di un marxismo triviale. Lo slogan, inutile dirlo, è al servizio dell’inganno. L’ordine economico imposto è il risultato di decisioni prese da persone all’interno di istituzioni a loro volta composte da persone. Le decisioni si possono modificare, le istituzioni si possono cambiare. Se necessario, esse possono essere smantellate e sostituite, proprio come personaggi coraggiosi e onesti hanno già fatto nel corso della storia.

Note: L’autrice della traduzione è Silva Fumis.
Il sito web da cui la conferenza è stata tratta è: www.zmag.org/chomskyalbaq.htm (consultato il 29/07/2002)

La conferenza è stata tenuta il 26 febbraio 2000 davanti a un pubblico di 2.300 persone presenti al Kiva Auditorium di Albuquerque, New Mexico, per celebrare il ventesimo anno di attività dell’Interhemispheric Resource Center e tratta un argomento caro a Chomsky: il problema della libertà, della sovranità popolare e dei diritti umani minacciati dal potere politico ed economico. I problemi vengono esaminati prevalentemente dal punto di vista socio-economico ed evidenziano il potere che i grandi organismi politici ed economici, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, possono esercitare sulla vita delle persone al punto di ricattare e strangolare le economie dei paesi più poveri. Dopo aver analizzato i vari modi in cui questo potere viene esplicato traducendosi in un vero e proprio controllo sociale che menoma gravemente i diritti fondamentali delle persone e dei popoli, Chomsky auspica la necessità di instaurare una nuova visione della vita che consiste nel riappropriarsi del “controllo della propria vita”. Nel discorso non mancano accenni alla politica estera del governo degli Stati Uniti che, nell’America latina e nell’America centrale ad esempio, ha appoggiato regimi dittatoriali (Nicaragua, Guatemala) nel timore di sollevamenti popolari in grado di sconvolgere lo status quo e di mettere in pericolo gli interessi statunitensi.

Articoli correlati

  • Beati i costruttori di stati
    Palestina

    Beati i costruttori di stati

    Quella israeliana non è un'occupazione, in realtà, ma una guerra: e il processo di pace solo un'arma del suo arsenale. A due mani, Noam Chomsky e Ilan Pappé riesaminano la questione palestinese
    24 febbraio 2011 - Francesca Borri
  • Israele nega il permesso al professor Noam Chomsky di entrare in Palestina
    Palestina
    Un precedente: nel 1968 gli fu vietato di entrare in Cecoslovacchia

    Israele nega il permesso al professor Noam Chomsky di entrare in Palestina

    "Una grossolana illegalità". Non ha potuto incontrare studenti e professori del Dipartimento di Filosofica dell’Università palestinese di Birzeit. Sono state le autorità militari israeliane ad impedirglielo. Siamo in presenza di una violazione sistematica della libertà del popolo palestinese in generale e, in particolare, dei ricercatori
    19 maggio 2010 - Emilio Gianicolo
  • Conflitti
    Intervista di Michael Albert a Noam Chomsky

    Iraq: ieri, oggi e domani

    Perché gli USA hanno invaso l'Iraq? Qual è stato l'impatto del movimento contro la guerra sulla politica e sui suoi pianificatori?
    26 febbraio 2007 - N. Chomsky e M. Albert
  • Latina

    Tempi nuovi per l’America Latina

    Intervista a Noam Chomsky realizzata da Bruno Simone per conto del settimanale Brasil de Fato
PeaceLink C.P. 2009 - 74100 Taranto (Italy) - CCP 13403746 - Sito realizzato con PhPeace 2.7.21 - Informativa sulla Privacy - Informativa sui cookies - Diritto di replica - Posta elettronica certificata (PEC)