Appunti da un viaggio in Kurdistan
Una delegazione dell’Ufficio Italiano dell’International Peace Bureau e della Mayor for Peace è stata nel Kurdistan Iracheno, ospite del sindaco di Halabja, Khidr Karem Aktar.
Vivere dieci giorni in un Paese che conosciamo esclusivamente attraverso le immagini dei telegiornali. Il popolo curdo è attualmente diviso tra Irak, Iran,Turchia e Siria. Forte il desiderio di autodeterminazione. Il sogno, un giorno essere un solo Paese. Proviamo, allora, a dipanare il filo di Arianna delle nostre emozioni.
La delegazione aveva ricevuto l’invito a partecipare, il 16 marzo, alla commemorazione del bombardamento con armi chimiche del 1988 durante il quale, a Halabja, morirono oltre 5.000 civili e ci furono più di 10.000 feriti, su una popolazione di 70.000 abitanti.
Abbiamo visitato anche alcuni di quei 5000 villaggi bombardati tra il 1987 e il 1988. E’ l’Anfal. 182000 le vittime. Desaparecidos. Tutti gli uomini dai 14 ai 70 anni.
Il 15 marzo a Halabja abbiamo visitato la scuola costruita, nel 1998, con i soldi raccolti dagli abitanti di Marzabotto, che avevano versato un’ora di salario. La scuola, per 500 bambini delle primarie, fino ai 12 anni, è composta da una decina di classi. Porta il nome di Marzabotto, così come la via e il quartiere. C è una radicata riconoscenza, a Halabja, verso la città che ha permesso di costruire la scuola. Avevamo con noi zainetti per tutti i bambini.
La visita è proseguita al Mausoleo che ricorda le vittime della strage. Per tutto il Kurdistan, un simbolo della libertà conquistata.
La mattina dopo stavamo per arrivare a Halabja, quando ci ha fermato una telefonata del sindaco. Non potevamo entrare in città.
Era prevista una manifestazione di studenti. Protestavano, accusando il Governo di ricordarsi di Halabja una volta l’anno, il 16 marzo. Chiedevano che, in questa martoriata città, si avviassero gli investimenti economici, da anni promessi e non mantenuti. Per dare visibilità alla manifestazione, avevano deciso che il corteo avrebbe raggiunto il Mausoleo.
C’erano 2/3 mila persone. Manifestanti con il viso coperto hanno attaccato, con le armi, i soldati. Distrutto e incendiato il Mausoleo. Dopo oltre un’ora di battaglia le forze di sicurezza hanno ripreso il controllo della situazione.
Nel frattempo, sulla strada che da Sulaymanya va a Halabja, abbiamo visto transitare due camion. A bordo, le teste di cuoio curde. I kalashnikov in braccio, i passamontagna neri calati sul viso.
Alla fine, 1 morto e 17 feriti. Un bilancio pesante davvero.
La posizione ufficiale del Governo è che fin dal giorno precedente, nella zona erano state notate persone non del luogo. Era stato fermato un curdo proveniente dal vicino Iran che doveva compiere un attentato. Fino al 2003, qui operavano i Ginud (Soldati) Al Islam, poi divenuti Ansar Al Islam, vicini ai fondamentalisti religiosi. Il confine iraniano, a 15 chilometri, corre lungo le montagne Shinerwe, a marzo ancora innevate, che facilitano infiltrazioni.
Poi la cerimonia al cimitero. Il cimitero delle vittime dei bombardamenti chimici. Tante, tantissime lapidi. Allineate, una accanto all’altra, tutte uguali. Una per ogni famiglia, con i nomi delle persone scomparse. Cimitero senza morti. Perché i morti furono raccolti in fosse comuni, lì accanto. Una Spoon River mai cantata da nessun Edgar Lee Masters. La deposizione di una corona di fiori di carta, in una terra che non ha fiori.
Incontro Arass, dell’Halabja Chemical Victims Society. Una trentina d’anni, alto, il corpo incredibilmente magro. Il naso grande sopra un bel paio di baffi sul viso allungato. Mi stringe forte la mano. Mi guarda negli occhi. Il suo è uno sguardo infinitamente addolorato. Interrogativo. Vuol sapere se non dimenticheremo. Improvvisamente lo vedo abbassare gli occhi. Abbandonarsi al ricordo delle persone care scomparse nell’eccidio. Nessuna famiglia ne è immune. Un novello inviato di Erode, quel giorno, entrò in tutte le case di Halabja.
E se la strage di Halabja una sua sinistra notorietà, a livello internazionale, l’ha raggiunta, cosa dire del silenzio a lungo calato sulle stragi di Balessan e Shek Wassan.
Per 72 ore gli aerei bombardarono con armi chimiche questi villaggi e successivamente le montagne, verso il confine vicino, dove era stato previsto, come infatti accadde, che i fuggiaschi avrebbero cercato rifugio. I feriti che cercavano di raggiungere gli ospedali, catturati, vennero sepolti vivi.
E mentre i responsabili del villaggio ci raccontano tutto questo, i bambini accorrono dai vicoli, attratti dai palloncini colorati che abbiamo portato e che Fulgida, Lara e Luciano stanno gonfiando a tempo di record.
Il Kurdistan, ottenuta l’autonomia politica, si suddivide in tre Province. Le principali, a nord la provincia di Erbil, a maggioranza PDK. A sud quella di Sulaymanya, governata dal PUK. I governanti locali, che potrebbero corrispondere ai nostri assessori regionali, sono chiamati ministri.
Il Parlamento è di 105 deputati. Vi sono rappresentate anche minoranze etniche e religiose, tra le quali quella cristiana copta. In Parlamento le quote rosa raggiungono percentuali elevate.
Fin dal giorno del nostro arrivo abbiamo avuto l’opportunità di incontri con le autorità centrali e locali.
Abbiamo incontrato una decina di sindaci di città e villaggi della Provincia di Sulaymanya.
I sindaci, per quel che abbiamo compreso, svolgono un ruolo da noi rappresentato, in parte, dai prefetti. Infatti hanno anche compiti di ordine pubblico, in una quotidianità sempre a rischio di attentati.
Realtà sociali spesso molto diverse tra loro, con profonde disuguaglianze, che aumentano a dismisura appena usciamo dalle sterminate metropoli di 800/900 mila abitanti, tipiche del Medio Oriente, come Erbil e Sulaymanya, e ci si addentra tra le montagne brulle, verso il confine con l’Iran, dove si vive di pastorizia e dove le abitazioni sono casupole di pietra con i tetti di fango.
Abbiamo visitato l’ospedale di Emergency di Sulaymanya, attivo dal 1998, dove si curano le vittime delle mine. Quasi dieci milioni sparse sulle montagne. Di fabbricazione in gran parte italiana. Il periodo di degenza è di sei mesi. L’ospedale non ha soltanto lo scopo di preparare le protesi per sostituire gli arti mancanti, insegnando ai pazienti ad utilizzarle. Svolge anche un ruolo fondamentale aiutando il reinserimento sociale di queste persone. Qui i ricoverati imparano un mestiere. D’altro canto, in buona parte erano pastori, perché è sulle montagne che sono seppellite le mine. I corsi per gli uomini sono per falegname, fabbro, calzolaio. Quelli per le donne sono di cucito.
Sempre a Sulaymanya siamo stati alla Facoltà di Medicina. L’incontro con il Dr. Nazar Mohammad Amin. Intorno, gli studenti. Ci vogliono ricordare quando scoppiò la guerra, e la popolazione si rifugiò sulle vicine montagne. Gli studenti, con il loro insegnante, indossarono il camice bianco per curare i feriti ed insieme imbracciarono il kalashnikov per difendere l’Università dalle scorrerie dei fondamentalisti religiosi. Qui vengono curati i bambini che ancora oggi, figli di chi subì i bombardamenti chimici, nascono con gravi malformazioni.
L’incontro più importante, con Mrs. Hero Ahmed Talabani moglie del Presidente della Repubblica dell’Iraq, Jalal Talabani. Mrs. Talabani, minuta, gli occhi vividi, i capelli corvini che scendono appena sulle spalle. Ex partigiana, presiede l’associazione Kurdistan Save the Children Children’s Fund, da lei fondata nel 1991. Si occupa dell’infanzia abbandonata. Sono più di 2800 le adozioni a distanza già realizzate.
Con Mrs. Talabani abbiamo parlato delle conseguenze delle stragi con le armi chimiche compiute 18 anni fa. Dovranno trascorrere 3 o 400 anni prima che il terreno e le acque non siano più contaminati. Il problema è che non si conosce ancora la composizione esatta di queste armi. Gli agenti chimici usati erano una miscela di iprite e di gas asfissianti nervini, tra i quali sarin, tabun e VX. I sopravvissuti, di quel giorno, ricordano soltanto l’odore dolciastro nell’aria. Gli unici, in Occidente, che hanno studiato l’argomento, sono gli specialisti dell’Università di Liverpool. L’appello che Mrs. Talabani ci ha rivolto, è di comunicare al mondo questa tragedia. Di non lasciarli soli. C’è la necessità di avviare una ricerca sulle conseguenze di contaminazioni chimiche di seconda generazione.
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