L’America che non ama la guerra
Negli ultimi tempi, almeno secondo un sistema informativo decisamente allineato su posizioni guerrafondaie, sembra quasi che gli Stati Uniti d’America abbiano tranquillamente accettato l’idea della guerra e che pacifismo sia una orribile parola. Coloro che si sono opposti al conflitto tenacemente voluto da George W. Bush sono stati frettolosamente tacciati di antiamericanismo con una facilità sconcertante.
Eppure la persona non superficiale non può non prendere in considerazione il fatto che la cultura statunitense spesso e volentieri non si è allineata con i governi ed è stata caratterizzata da un sentimento di viscerale rifiuto dei conflitti.
Norman Mailer
Senza necessariamente dover considerare la classica opera di Ernest Hemingway (1899-1961), ‘A Farewell to Arms’ (Addio alle Armi, 1929) o ‘Three Soldiers’ (Tre Soldati) di John Dos Passos (1896-1970), vorrei citare Norman Mailer (1923), autore del celebre ‘The Naked and the Dead’ (Il Nudo e il Morto 1948), ancora oggi uno degli intellettuali più discussi e conosciuti in America. Con questo romanzo, che sorprese tutti con il suo stile di scrittura hemingweyano e non esente da influssi joyciani, Mailer affermò vigorosamente la sua sovranità letteraria negli Anni Cinquanta, con una violenta condanna della guerra. Quando Mailer ideò il libro aveva già una forte inclinazione politica ma è solo quando, nel 1968, pubblica quello che è considerato il suo capolavoro, ‘The Armies of the Night’ (Le Armate della Notte) che il suo indiscusso antimilitarismo trova la sua più forte e intensa espressione.
Quest’opera può essere considerata uno dei primissimi esempi di romanzo-reportage, seguita dal contemporaneo ‘Miami and the Siege of Chicago’ (Miami e l’assedio di Chicago). In questi due libri Mailer mescola giornalismo, narrativa e autobiografia, con uno stile che presto farà scuola.
‘The Armies of the Night’ racconta la marcia sul Pentagono contro la guerra in Vietnam dell’ottobre 1967. In questa occasione Mailer venne arrestato insieme ad altri dimostranti anche se venne rilasciato poco dopo. Il libro fu scritto in quattro settimane e particolarmente significativi sono gli ultimi capitoli che raccontano la violenza con cui la polizia colpì i dimostranti.
Kurt Vonnegut
Un altro libro antimilitarista decisamente significativo è Slaughterhouse Five (Mattatoio Cinque, 1969) di Kurt Vonnegut (1923), scrittore considerato antesignano del postmodernismo per il suo stile di scrittura spesso sperimentale e impregnato di suggestioni a volte fantascientifiche. Il libro racconta la storia del bombardamento di Dresda che ha ossessionato l’autore che ne fu testimone. L’opera è piena di descrizioni letteralmente angoscianti che rivelano con allucinata implacabilità le brutture della guerra.
Joseph Heller
Affine nello stile di scrittura che a tratti sembra anticipare gli autori americani cosiddetti apocalittici che emergeranno nel panorama culturale statunitense è ‘Catch 22’ (Comma 22, 1961) di Joseph Heller (1923), satira crudele della vita militare e della tragedia della guerra. L’opera ha affascinato (e continua ad affascinare) intere generazioni di lettori per il suo incredibile humour nero. ‘Catch 22’ narra la storia di una squadra di bombardieri americani in Italia (da considerare che lo stesso Heller fu tenente d’Aviazione in Corsica per diciotto mesi e partecipò a circa sessanta missioni con il suo B25), e presenta la gerarchia militare come la quintessenza dell’assurdità. ‘Comma 22’ è un’espressione che nel libro indica un’ingiunzione collegata in modo contraddittorio e inesplicabile a un’ingiunzione precedente, e precisamente: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalla missione; ma chi ha la capacità di chiedere di essere esentato dalla missione non può essere pazzo”. La prorompente originalità di questa invenzione è stata tale che ormai enciclopedie e vocabolari hanno registrato Comma 22 come neologismo, dandone questa definizione: “Dilemma assurdo nel quale ogni scelta contiene l’impossibilità di risolvere il problema”. L’impatto che l’opera ha sul lettore deriva dal fatto che Heller ha ambientato la satira proprio nel cuore stesso della morte e della violenza, suscitando il riso e contemporaneamente l’orrore, in una specie di commedia nera, il cui protagonista, il capitano armeno Yossarian, diventa nella stima dei suoi compagni un eroe solo quando riesce a sottrarsi al combattimento.
Allen Ginsberg
Neanche i poeti hanno rinunciato a esprimere il loro dissenso contro qualsiasi forma di conflitto. Scontato fare il nome di Allen Ginsberg (1926-1997), autore del celebre ‘Howl’ (Urlo, 1956), che ha preso parte, credo, a praticamente tutte le più importanti manifestazioni pacifiste e antimilitariste tenutesi in America dagli anni cinquanta in poi. E già durante la prima guerra del Golfo, Ginsberg non ha esitato a scrivere versi contro Bush padre, denunciando il primo conflitto iracheno e lo scandalo Iran-Contras, o contro Reagan. Poesie che costituiscono la parte forse più importante della sua raccolta ‘Cosmopolitan Greetings’ ( Saluti Cosmopoliti, 1994 ).
Gregory Corso
Contemporaneo di Ginsberg, compagno di avventure nella cosiddetta Beat generation, il poeta Gregory Corso ( 1930-2002 ), autore della celebre poesia ‘Bomb’ ( Bomba ) ( 1958 ), è forse mai come adesso di drammatica attualità. Questa opera nacque in seguito a una marcia pacifista che si tenne a Londra nel 1958. Tale marcia raccolse circa cinquemila pacifisti, liberali, anarchici e studenti. Nessuno, va detto, aveva un’idea precisa sullo scopo di questa campagna per il disarmo nucleare, a parte che era organizzata contro la bomba. A questa marcia partecipò anche Gregory Corso che in seguito scrisse una lunga poesia alla quale Allen Ginsberg diede la forma grafica di un fungo atomico ritagliando e incollando le righe dattiloscritte (e forse fu influenzato dall’amico e collega William S. Burroughs, 1914-1997, spesso impegnato, con la sua tecnica ‘cut-up’, ‘taglia e cuci’, a una analoga attività creativa). Corso era rimasto colpito, durante quella manifestazione, dalla carica di odio e di violenza dei dimostranti. E questa carica di violenza gli sembrò mostruosa almeno quanto la minaccia della guerra e della morte nucleare. Per questo, provocatoriamente, e paradossalmente, Corso decise di dedicare la poesia proprio alla bomba. Non per esaltarla, sia chiaro. Ma semplicemente perché, pensava, della vita si deve accettare tutto ciò che esiste. Il vero nemico dell’umanità, secondo Corso, non era un’arma o una guerra. Ma l’odio. La condizione umana, secondo il poeta, è già abbastanza tragica senza che la si debba rendere ancora più tragica con nuovo odio e con ulteriore violenza. E forse, in un certo senso, alla luce dell’attuale clima di tensione che stiamo vivendo, l’insegnamento di Corso e la indiscutibile tragicità di ‘Bomb’ sono spaventosamente attuali.
William S. Burroughs
Pur non avendo mai affrontato direttamente il tema della guerra, non si può ignorare uno dei campioni indiscussi della cultura del dissenso statunitense, il già citato William S. Burroughs. Decisamente disincantato nei confronti di ogni genere di conflitto, l’autore sembra quasi accettare con rassegnazione l’impeto guerrafondaio americano e più generalmente occidentale, preferendo concentrarsi sull’acuta analisi di un generalizzato stato di polizia e di controllo ormai sotto gli occhi di tutti. Burroughs, in effetti, non condivide le istanze pacifiste del suo amico Ginsberg e non partecipa, se non raramente, alle marce e alle dimostrazioni degli anni sessanta. Tuttavia, il suo dirompente romanzo ‘Naked Lunch’ (Pasto Nudo, 1962) è ancora oggi terribilmente attuale, proprio per la descrizione di un sistema politico e informativo che controlla l’individuo e i suoi pensieri, con una invenzione narrativa che se negli anni sessanta poteva ancora essere considerata fantascientifica, oggi è decisamente reale. Nell’opera di Burroughs, il protagonista, William Lee, all’ultimo stadio della dipendenza dalle droghe, si rifugia in una nazione immaginaria, l’Interzona, che comprende anche le regioni di Annexia e di Freeland, la Terra dei Liberi, ironico e sarcastico riferimento agli stessi Stati Uniti d’America. In questo mondo gli individui sono schiavizzati e condizionati dal Dr. Benway, un medico e uno scienziato che rappresenta ogni forma di autorità. Il controllo e la manipolazione dei pensieri sono appunto simboleggiati dalla manipolazione del linguaggio e dalla struttura caotica e sconnessa della trama. Immagini di morte e di distruzione si alternano con riflessioni sulla natura del controllo e sulla logica del conflitto. In un certo senso, ‘Naked Lunch’ rappresenta forse la più lucida descrizione del lato malato e perverso dell’America che, sotto l’apparente immagine di una democrazia ben organizzata, nasconde il volto feroce della più crudele dittatura.
In seguito, Burroughs proseguirà con la sua denuncia, intuendo che proprio il conflitto e l’aggressività imperialista sono le caratteristiche essenziali della società americana. Ciò è evidente nella cosiddetta trilogia ‘cut-up’ o montaggio libero (basato sul taglio arbitrario e sulla mescolanza di pagine differenti, una tecnica già anticipata dal dadaista Tristan Tzara), composta dai romanzi ‘The Soft Machine’ (La Morbida Macchina, 1961), ‘The Ticket That Exploded’ (Il Biglietto che è esploso, 1962) e ‘Nova Express’ (1964). In questa trilogia, Burroughs immagina gli Stati Uniti d’America come una vera tirannia del pensiero. L’opinione pubblica viene condizionata dalla radio e dalla televisione e soprattutto dai giornali ‘Life’, ‘Time’ e ‘Fortune’, che devono continuamente imporre valori e comportamenti. Come se non bastasse, il mondo è metaforicamente considerato come uno Studio, una stanza grigia al cui interno uomini potenti e senza scrupoli creano letteralmente la realtà e controllano ogni cosa, tramite macchine, computers, fax, telescriventi, che trasmettono e diramano in continuazione messaggi contraddittori e fuorvianti, simili a spot pubblicitari dei nostri giorni. Una tecnica di controllo è quella di creare conflitti o di enfatizzare quelli già esistenti, allo scopo di esasperare la confusione. A questo fine, il potere si serve della cosiddetta Polizia Nova, formata da agenti senza scrupoli che hanno il compito di eliminare qualsiasi forma di dissenso, con droghe, con false accuse di antipatriottismo e con processi da vera e propria caccia alle streghe. Gli unici che hanno il coraggio di resistere sono un manipolo di teppisti che cercano di combattere la Polizia Nova con le sue stesse armi, soprattutto con un sistema di informazione alternativo. Chiaramente, Burroughs si riferisce metaforicamente alla stampa underground, agli artisti politicizzati, ai gruppi giovanili che frequentavano le università. Ma, come ho già avuto modo di affermare, Burroughs è, in un certo senso, rassegnato, accetta l’idea stessa
della guerra e del conflitto come qualcosa di ineluttabile, che può essere avversato ma mai cancellato. Con il romanzo ‘Wild Boys’ (Ragazzi Selvaggi, 1971), Burroughs andrà oltre, inventando un vero e proprio gruppo di terroristi del pensiero, i Ragazzi Selvaggi del titolo, appunto, che cercheranno di contrastare in tutti i modi la dittatura della maggioranza silenziosa ormai dilagante in America e in tutto l’occidente. Qui Burroughs parla esplicitamente di guerra delle menti e dei pensieri, di controllo non solo delle opinioni ma addirittura dei corpi e della sessualità, in un vero e proprio incubo orwelliano.
Dopo l’undici settembre del 2001, molti hanno detto che bastava leggere i romanzi di Burroughs per intuire ciò che sarebbe accaduto: un conflitto, non si sa se voluto da qualcuno, tra occidente e mondo islamico; proteste pacifiste; un presidente non eletto che dichiara guerra all’Iraq per partito preso. Scenari e situazioni che sembrano effettivamente uscire fuori dalle pagine dello scrittore di St. Louis. O magari da un romanzo di fantascienza cyberpunk. Già, poiché il movimento letterario ‘cyberpunk’, nato nella metà degli anni ottanta grazie ad autori come William Gibson, Bruce Sterling e altri giovani scrittori, descrive una società solo in apparenza fantascientifica. Il mondo è dominato da potenti multinazionali che perseguono i loro interessi in modi crudeli e spietati. Guerre, massacri etnici, nuove droghe in grado di controllare le menti, realtà virtuali e soprattutto un sistema mediatico che è la rappresentazione e il supporto più o meno palese di questa società sono le tematiche più ricorrenti in questo genere di romanzi.
William Gibson
In particolare, ‘Neuromancer’ (Neuromante, 1985), di Gibson, considerato il manifesto del genere cyberpunk, descrive un’agghiacciante società americana ormai controllata dalle grandi compagnie, con i politici al loro servizio e un precariato sociale che tanto assomiglia alle masse di giovani disoccupati del nostro tempo. Case, il protagonista della storia, è un giovane ribelle che solo nella realtà virtuale del ciberspazio può trovare un breve momento di evasione dalla società terribile nella quale si trova a vivere. Tale regione virtuale è chiamata Interzona, un chiaro omaggio di Gibson a Burroughs, e questa realtà pullula di gente di tutti i tipi, occidentali, orientali, mafiosi, spacciatori di droghe virtuali, prostitute, un vero e proprio ‘melting pot’ del ventunesimo secolo, e le guerre sono ormai un fatto considerato normale, con le immagini dei conflitti che vengono trasmesse dai canali via cavo o diffuse nelle reti telematiche, con sequenze sconnesse e veloci, quasi in stile MTV. L’intento denunciatario di Gibson e soci è chiaro. Ma, come per Burroughs, la guerra ( il termine ‘war’ è ricorrente nelle opere cyberpunk ) è un fatto scontato e la stessa denuncia di Gibson o di Sterling non ha più l’idealismo pacifista di un Mailer o di un Ginsberg. Ecco perché l’attentato alle Torri Gemelle di New York non è stato un fatto sconvolgente per coloro che hanno letto questi autori. Ecco perché la condotta criminale di un George W. Bush potrebbe benissimo uscire fuori dall’immaginazione di uno scrittore cyberpunk. Così come le proteste di un intero mondo che comunque, a differenza degli autori citati, non vuole rassegnarsi alla logica perversa del conflitto e delle divisioni (con buona pace delle Fallaci di turno…).
Esiste quindi un’America che anche oggi è contro la guerra come questo mio breve intervento, che non voleva essere esaustivo, ma solo indicativo di alcune tendenze da sempre presenti nella narrativa statunitense, ha cercato di dimostrare. Un fatto consolante, malgrado tutto. Anche se forse si tratta di una magra consolazione. E vorrei chiudere questo intervento in maniera ambigua, non dando risposte, ma anzi, suscitando domande. Il termine ‘war’, guerra, è spesso presente nelle opere degli scrittori e dei poeti americani. Non vale però lo stesso per il termine ‘peace’, pace. Almeno per ciò che ho potuto fino a oggi leggere o rilevare. Quale sarà il motivo? Una semplice casualità? O la spia di qualcosa di più profondo e importante?
TESTI CONSULTATI:
A.A.V.V., “Cyberpunk Antologia”, Milano, Shake, 1990.
A.A. V.V., “Re-Search – William S. Burroughs – Brion Gysin”, Milano, Shake, 1992.
James Campbell, “Questa è la Beat Generation”, Parma, Guanda, 1999.
Graham Caveney, “Lo Chiamavano Il Prete”, Roma, Fazi, 1998.
Fernanda Pivano, “Amici Scrittori”, Milano, Mondatori, 1995.
Fernanda Pivano, “Dopo Hemingway”, Napoli, Pironti, 2002.
Fernanda Pivano, “Viaggio Americano”, Milano, Bompiani, 1997.
Si occupa di letteratura americana, riconosce come sue influenze letterarie William Burroughs, J.G. Ballard e gli scrittori del movimento avant-pop.
Ha collaborato con il mensile ALTROQUANDO/ART/VILLAGE MAGAZINE della Glamour International. Nel 2000 un suo romanzo inedito, ORCHIDEE VELENOSE, è stato segnalato dalla giuria del Premio Assisi.
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