Corpi Civili: storia e obiettivi di un progetto per la Pace
L’IDEA
Difesa Civile e Difesa Militare Verso un Corpo Civile Europeo di Pace
di Alex Langer e Ernst Gulcher, rispettivamente; Parlamentare e Consigliere per Pace e Disarmo, entrambi del Gruppo Verde presso il Parlamento Europeo
Il peacekeeping delle Nazioni Unite ed il suo efficiente funzionamento sono oggi le sfide più importanti per le forze armate e per gli addetti alla politica estera dentro o fuori dell´Europa. Nello stesso tempo il ruolo potenziale dei civili nel prevenire o nel gestire i conflitti è tuttora grandemente sottostimato. Ciò dovrebbe essere superato. I governi e le istituzioni internazionali inviano i loro osservatori e diplomatici nelle aree di conflitto e le ONG umanitarie e pacifiste cercano, spesso in circostanze assai difficili, di (ri)stabilire il dialogo, la coesistenza e la fiducia in e tra comunità divise e violente. Una volta cessati i combattimenti esse cercano di essere di aiuto nella ricostruzione dei valori umani e materiali controllando le disposizioni prese e le iniziative di riconciliazione. Negli anni recenti è stata accumulata una grande esperienza fatta sul campo ed è stata fatta molta ricerca, spesso nonostante la mancanza di una qualsiasi risorsa finanziaria sufficiente. Il rapporto "Bourlange/Martin", adottato dal Parlamento Europeo il 17 maggio 1995 nella sua sessione plenaria a Strasburgo, ha riconosciuto questo ruolo nella società civile affermando che "un primo passo verso un contributo nella prevenzione del conflitto potrebbe essere la creazione di un Corpo civile di pace europeo (che includa obiettori di coscienza) con il compito di addestrare osservatori, mediatori e specialisti nella risoluzione dei conflitti
Organizzazione
Il Corpo civile internazionale verrebbe costituito dall´Unione europea sotto gli auspici delle Nazioni Unite ai cui servizi dovrebbero essere prestati. Il Corpo dovrebbe sottostare o almeno riferirsi all´OSCE (come organizzazione regionale delle Nazioni Unite). Gli stati membri dell´Unione europea contribuirebbero al Corpo. Il Parlamento europeo dovrebbe essere coinvolto nelle decisioni sulla costituzione del Corpo e sull´attuazione delle operazioni. In primo luogo il Corpo presterebbe servizio all´interno dell´Europa, ma potrebbe agire anche al di fuori del continente europeo. Poichè sarebbe una forza di stanza, deve avere quartieri generali e personale pienamente equipaggiato, basato in un luogo specifico (OSCE- Vienna?) e a livello locale durante le operazioni. Per l´inizio il Corpo dovrebbe essere costituito da 1.000 persone di cui 300/400 professionisti e 600/700 volontari. Se i risultati fossero positivi si dovrebbe naturalmente espandere in modo considerevole.
Compiti
Prima il corpo sarà inviato nella regione, prima potrà contribuire alla prevenzione dello scoppio violento dei conflitti. In ogni fase dell´operazione potrebbe adempiere a compiti di monitoraggio. Dopo lo scoppio della violenza, esso è lá per prevenire ulteriori conflitti e violenze. Nel fare ciò esso ha solo la forza del dialogo nonviolento, della convinzione e della fiducia da costruire o restaurare. Agirà portando messaggi da una comunità all´altra. Faciliterà il dialogo all´interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l´incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. Negozierà con le autorità locali e le personalità di spicco. Faciliterà il ritorno dei rifugiati, cercherà di evitare con il dialogo la distruzione delle case, il saccheggio e la persecuzione delle persone. Promuoverà l´educazione e la comunicazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l´odio. Incoraggerà il mutuo rispetto fra gli individui. Cercherà di restaurare la cultura dell´ascolto reciproco. E la cosa più impotante: sfrutterà al massimo le capacità di coloro che nella comunità non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini). Potrebbe cercare di risolvere i conflitti con ogni mezzo di interposizione ma non imporrà mai qualcosa alle parti. Denuncierà i fautori della violenza e dei misfatti alle autorità locali e internazionali. Denuncierà la cattiva condotta di queste autorità alla comunità internazionale. Si adopererà per allertare tempestivamente e monitorare. Costantemente cercherà di trovare ed enunciare le cause del conflitto o dei conflitti. Farà il possibile per ricostruire le strutture locali. Qualche volta, ma solo su richiesta e temporaneamente, subentrerà alle autorità e ai servizi locali. Più in particolare adempirà ai servizi non armati quotidiani di polizia nelle aree dove la polizia locale non riscuote la fiducia della popolazione. Coopererà nell´area con le organizzazioni umanitarie per provvedere ai rifornimenti e ai servizi, così come per alleviare le sofferenze delle vittime.
Quale professionalità
Poichè consideriamo il Corpo e i suoi partecipanti agire in zone ad alto potenziale di violenza, i singoli partecipanti debbono possedere molte qualità e valori eccellenti, alcuni dei quali saranno questione di talento, altri richiederanno un alto livello di addestramento professionale.
Qualità
molte qualità di alto livello sono necessarie per gli individui che partecipano al Corpo di pace: tolleranza, resistenza alla provocazione, educazione alla nonviolenza, marcata personalità, esperienza nel dialogo, propensione alla democrazia, conoscenza delle lingue, cultura, apertura mentale, capacità all´ascolto, intelligenza, capacità di sopravvivere in situazioni precarie, pazienza, non troppi problemi psicologici personali. Coloro che vengono accettati a far parte del Corpo di pace apparterranno alle persone più dotate della società.
Nazionale/internazionale; uomo/donna; anziani/giovani
il corpo di pace non dovrebbe essere costituito da contingenti nazionali ma dovrebbe essere internazionale dall´inizio con individui di diverse nazionalità che lavorano insieme come amici. Questo farebbe immediatamente superare barriere fra diverse culture. L´imparzialità è necessaria ma i partecipanti al Corpo di pace non devono assolutamente provenire solo da paesi neutrali. Dovrebbero farvi parte sia uomini che donne e l´età dovrebbe essere tra i 20 e gli 80 anni. A differenza delle operazioni militari il lavoro del Corpo di pace potrebbe in gran parte ricadere sulle spalle degli anziani e delle donne.
Volontariato solidale
le ONG, con un´esperienza diretta nella preservazione dei conflitti, nella loro risoluzione e sviluppo come anche nel servizio civile, saranno le prime a cui si richiede di reclutare partecipanti al Corpo di pace. Questi partecipanti potrebbero essere in larga misura obiettori di coscienza. Un ruolo può essere svolto anche dai militari peacekeeping in pensione e dai diplomatici. Particolare attenzione deve essere data ai rifugiati e agli esiliati della regione dove il conflitto dovrebbe essere gestito. Molte di queste persone sono colte e individui nonviolenti con grande conoscenza della situazione locale. D´altra parte essi sono parte del conflitto e potenziali bersagli. Essi potrebbero essere più utili nel retroterra che in prima linea a livello di consulenza e potrebbero giocare un ruolo fondamentale di supporto linguistico.
Professionisti/volontari
poiché le qualità e l´esperienza determinano il successo o il fallimento di qualsiasi operazione, almeno un terzo dei partecipanti di ciascuna operazione del corpo di pace consisterebbe di professionisti. Gli altri possono essere volontari e lavoreranno sotto l´autorità di professionisti.
Addestramento
il successo e il fallimento saranno anche determinati dal grado di addestramento delle persone del Corpo di pace. Programmi di addestramento prepareranno ciascun partecipante alla sua missione. Allo stesso tempo gli educatori dovrebbero avere la possibilità di essere stagiairs in missioni per acquistare esperienza sul campo. L´addestramento includerà la crescita della forza e della mentalità personale ma anche cose pratiche come la lingua, la storia, le religioni, le tradizioni e la sensibilità delle regioni dove si va a operare.
Conclusione
Un´operazione del Corpo di pace può fallire e nessuno si dovrebbe vergognare ad ammetterlo. Per esempio se una delle parti in guerra è determinata a continuare o accrescere il conflitto, i civili non possono fermarla. Se il conflitto si trasforma in una vera guerra, i civili farebbero meglio a fuggire dal campo di battaglia. Se fanatici delle due parti non sono più sotto il controllo dell´autorità locale e cominciano a sparare contro i partecipanti del Corpo di pace o a prenderli in ostaggio, ciò sarà la fine delle operazioni. Se i media locali, influenzati dai demagoghi locali, intraprendono campagne di sfiducia verso il Corpo di pace, è meglio ritirarsi. Ma fintanto questo non si verificherà il Corpo civile di pace potrà adempiere la sua funzione fino a quando sarà necessario. Il problema è qui lo stesso del peacekeeping militare. Finchè non c´è alcuna soluzione politica, il Corpo di pace non può veramente partire. È essenziale che la cooperazione delle autorità locali e le comunità dovrebbe essere promossa da una politica internazionale di premio (e non da punizioni/sanzioni). Poichè la povertà, il sottosviluppo economico e la mancanza di sovrastrutture quasi sempre sono parte di qualsiasi conflitto, la preparazione a vivere insieme, a ristabilire il dialogo politico e i valori umani, a fermare i combattimenti e la violenza dovrebbero essere premiati da un immediato sostegno internazionale economico-finanziario a beneficio di tutte le comunità e regioni interessate. Troppo spesso ci si è dimenticati che la pace deve essere visibile per essere creduta. Ma se è resa vivibile la pace troverà molti sostenitori in ogni popolazione.
(Questo articolo è il risultato di uno scambio di idee in preparazione della Tavola Rotonda del Corpo Civile di pace europeo, che avrebbe dovuto svolgersi nel luglio 1995, fra Alexander Langer e Ernst Gulche, Segretario dell´intergruppo EP per Pace, Disarmo e Sicurezzza Globale Comune. Pubblicato postumo in Azione nonviolenta, ottobre 1995. Teso integrale in www.alexanderlanger.org.
· Relazione
Recante una Proposta di Raccomandazione del Parlamento Europeo al Consiglio sull’istituzione di un Corpo di Pace Civile Europeo
Commissione per gli Affari Esteri la Sicurezza e la Politica di Difesa
Relatore Onorevole Per Gahrton
Nella seduta del 17 luglio 1998 il Presidente del Parlamento ha comunicato di aver deferito alla Commissione per gli Affari Esteri, la Sicurezza e la Politica di Difesa la proposta di raccomandazione al Consiglio presentata dall’Onorevole Spencer e altri (38) deputati sull’Istituzione di un Corpo Civile di Pace Europeo (B4-0791/98).
Nella riunione riunione del 24 settembre 1998 la Commissione per gli Affari Esteri, la Sicurezza e la Politica di Difesa ha esaminato la proposta di raccomandazione e ha deciso di elaborare una relazione.
Nella riunione del 24 settembre 1998 ha nominato relatore l’Onorevole Gahrton.
Nelle riunioni del 1 dicembre 1998, 7 gennaio 1999 e 20 gennaio 1999, la (POLI) la Commissione per gli Affari Esteri, la Sicurezza e la Politica di Difesa ha esaminato la proposta di raccomandazione elaborata dal suo Presidente e l’ha approvata all’unanimità.
Hanno partecipato alla votazione gli On.
La proposta di raccomandazione è stata depositata il 28 gennaio 1999.
Il termine per la presentazione di emendamenti sarà indicato nel progetto di ordine del giorno della tornata nel corso della quale la relazione sarà esaminata.
Proposta di Raccomandazione
Raccomandazione del Parlamento Europeo sull’Istituzione di un Corpo di pace Civile Europeo
Il Parlamento Europeo
Vista la proposta di raccomandazione al Consiglio presentata dall’On Spencer e altri (38) deputati sull’Istituzione di un Corpo Civile di Pace Europeo (B4-0791/98)
Visto l’articolo J7 del trattato sull’Unione Europea
Visto l’articolo 46, paragrafo 3 del suo regolamento
Vista la relazione della relazione per gli Affari Esteri, la Sicurezza e la Politica di Difesa (A4 – 0047/99)
· considerando che la fine della “guerra fredda” è stata caratterizzata, sia in Europa che al di fuori di essa, da un continuo aumento di conflitti intra e inter statali con crescenti implicazioni internazionali, politiche, economiche, ecologiche e militari,
· rilevando che il carattere multiforme di questi conflitti li rende spesso difficili da capire e da gestire acausa della mancanza di adeguati concetti, strutture, metodi e strumenti,
· considerando che la risposta militare ha conflitti internazionali deve essere spesso integrata da sforzi politici volti a riconciliare le parti belligeranti, a far cessare conflitti violenti ed ha ripristinare condizioni di reciproca fiducia,
· ritenendo che il ruolo potenziale dei civili in situazioni di conflitto deve essere ancora pienamente valutato,
· sottolineando che esso ha approvato varie risoluzioni riguardanti l’istituzione di un Corpo di Pace Civile Europeo (CPCE)
· rilevando che tale iniziativa dovrebbe essere vista quale ulteriore strumento dell’Unione Europea per accrescere la sua azione esterna in materia di prevenzione dei conflitti e di composizione pacifica degli stessi,
· considerando che in nessun caso il CPCE deve essere inteso quale alternativa alle normali missioni di pace, ne causare ridondanze nei confronti di organizzazioni quali l’OSCE e l’ACNUR, già attive in tale ambito, quanto piuttosto quale complemento, qualora necessario, alle azioni per la prevenzione dei conflitti di carattere militare in cooperazione con l’OSCE e l’ONU,
· sottolineando che la prospettiva del futuro allargamento dell’Unione Europea rende ulteriormente necessario e pressante
· riformare e rafforzare la PESC, rilevando che l’Unione Europea ha già maturato, per quanto riguarda la guerra nella ex Yugoslavia, un’esperienza con la Missione di Monitoraggio della Comunità Europea (ECMM) che potrebbe costituire il primo passo verso l’istituzione del CPCE
· ribadendo tuttavia che l’esperienza della Missione di Monitoraggio della Comunità Europea (ECMM) e la Missione di Verifica nel Kosovo dimostrano i limiti del concetto di CPCE,
· considerando che l’inopportuno insediamento di missioni di osservatori disarmati, che possono essere facilmente presi in ostaggio, potrebbe anche sul piano politico avere effetti indesiderati,
· sottolineando che numerose ONG specializzate, molte delle quali dotate di una vasta e profonda esperienza, potrebbero fornire un prezioso contributo a tale progetto,
· ribadendo che qualsiasi civile impegnato nel Corpo di Pace debba essere adeguatamente addestrato,
· evitando che il CPCE diventi una struttura organizzativa ampia e rigida, tale da imporre costi elevati e improduttivi e di impedire un flessibile impiego delle risorse provenienti da varie fonti, governative e non,
· raccomanda al Consiglio di elaborare uno studio di fattibilità sulla possibilità di istituire un CPCE nell’ambito di una politica estera e di sicurezza comune più forte ed efficace;
· raccomanda al Consiglio di vagliare la possibilità di concreti provvedimenti generatori di pace finalizzati alla mediazione e alla promozione della fiducia tra i belligeranti, all’assistenza umanitaria, alla reintegrazione (specie tramite il disarmo e la smobilitazione), alla riabilitazione nonché alla ricostruzione unitamente al controllo ed al miglioramento della situazione dei diritti umani;
· raccomanda al Consiglio di attivare una struttura minima e flessibile, al solo fine di censire e mobilitare sia le risorse delle ONG, sia quelle messe a disposizione degli Stati, e di concorrere, eventualmente, al loro coordinamento;
· raccomanda la Consiglio di affidare all’Unità di Primo Allarme il compito di analizzare e individuare casi di possibile impiego di un CPCE,
· raccomanda al Consiglio di riferirgli in merito all’ECMM presentando una piena valutazione del ruolo di questo organismo e delle sue future prospettive nonché dei suoi limiti;
· raccomanda al Consiglio e alla Commissione, nell’ambito di questo studio di fattibilità, di organizzare un’audizione per valutare in profondità il ruolo che le ONG hanno svolto nella soluzione pacifica dei conflitti e nella prevenzione della violenza nella ex Yugoslavia e in Caucasia;
· Incarica il suo Presidente di trasmettere la presente raccomandazione al Consiglio e, per conoscenza alla Commissione.
MOTIVAZIONE
Il concetto di un Corpo di Pace Civile Europeo (CPCE)
Introduzione
La nuova situazione di conflitto venutasi a creare alla fine della “guerra fredda” è stata caratterizzata da un numero crescente di conflitti intrastatali con sempre maggiori implicazioni internazionali di carattere politico, economico, ecologica e militare. Tale evoluzione ha portato ad una crescente necessità e legittimità di un intervento esterno, ponendo le organizzazioni internazionali come l’Unione Europea (UE) di fronte a una sfida sempre maggiore. Tuttavia dato il carattere multiforme di questi conflitti, esse debbono affrontare il problema della loro comprensione e gestione. Si registra una mancanza di adeguati concetti, strutture, metodi e strumenti, (ivi compresi i mezzi materiali e personale preparato). E’ ovvio ormai che avvalersi unicamente delle risorse tradizionali associate alle strategie diplomatiche o militari non basta più. E’ necessario pertanto un approccio globale inteso a creare la pace, che comprenda gli aiuti umanitari, la cooperazione allo sviluppo e la soluzione dei conflitti. Gli interventi debbono essere coordinati a livello internazionale; riferirsi ai bisogni della popolazione nella zona di conflitto; essere compatibili con la società civile e con gli altri attori sul campo; essere nonviolente e distinti dalle azioni coercitive, flessibili e pratici; essere altresì in grado di contrastare fin dall’inizio l’escalation della violenza. La relazione Bourlanges – Martin approvata dal Parlamento Europeo nella seduta del 17 maggio 1995, a Strasburgo, ha riconosciuto per la prima volta questa necessità affermando che “un primo passo per contribuire alla prevenzione dei conflitti potrebbe consistere nella creazione di un Corpo Civile Europeo della Pace (che comprenda gli obiettori di coscienza) assicurando la formazione di controllori, mediatori e specialisti in materia di soluzione dei conflitti”. Da allora, il Parlamento Europeo ha ripetutamente confermato tale affermazione, da ultimo nella sua più recente relazione sull’attuazione della PESC. Nel frattempo è stato previsto di configurare il Corpo di Pace Civile Europeo nel modo seguente;
OBIETTIVI
La principale priorità del CPCE sarà la trasformazione delle crisi provocate dall’uomo, per esempio la prevenzione dell’escalation violenta dei conflitti e il contributo verso una loro progressiva riduzione. In ogni caso, i compiti del CPCE avranno un carattere esclusivamente civile. Un particolare accento sarà posto sulla prevenzione dei conflitti, in quanto più umana e meno onerosa rispetto alla ricostruzione del dopoconflitto. Tuttavia, il Corpo potrebbe svolgere altresì compiti umanitari in seguito a catastrofi naturali. Il coinvolgimento del CPCE non dovrebbe limitarsi ad una data regione (per esempio l’Europa).
Il CPCE si baserà su di un approccio olistico, che comprenderà inter alia sforzi politici ed economici e l’intensificazione della partecipazione politica e del contesto economico delle operazioni. Dal momento che gli sforzi intesi a trasformare il conflitto debbono riguardare tutti i livelli di conflitti che si protraggono nel tempo, il CPCE assumerà compiti multifunzionali. Esempi concreti delle attività del CPCE intese a creare la pace sono la mediazione e il rafforzamento della fiducia tra le parti belligeranti, l’aiuto imanitario (ivi compresi gli aiuti alimentari, le forniture d’acqua, medicinali e servizi sanitari), la reintegrazione (ivi compresi il disarmo e la smobilitazione degli ex combattenti e il sostegno agli sfollati, ai rifugiati e ad altri gruppi vulnerabili), il recupero e la ricostruzione, la stabilizzazione delle strutture economiche (ivi compresa la creazione di legami economici), il controllo e il miglioramento della situazione relativa ai diritti dell’uomo e la possibilità di partecipazione politica (ivi comprese la sorveglianza e l’assistenza durante le elezioni)n l’amministrazione provvisoria per agevolare la stabilità a breve termine, l’informazione e la creazione di strutture e programmi in materia di istruzione intesi ad eliminare i pregiudizi e i sentimenti di ostilità, e campagne d’informazione e d’istruzione della popolazione sulle attività in corso a favore della pace. Nulla di tutto ciò può essere imposto direttamente alle parti, tuttavia la loro cooperazione può essere agevolata attraverso il sostegno politico proveniente dall’esterno.
La riuscita nell’adempimento di questi compiti dipenderà dal grado in cui il CPCE sarà capace di migliorare le relazioni tra gli aiuti umanitari, il rafforzamento della fiducia e la cooperazione economica. Il sostegno a questi settori non potrà avere un risultato positivo se non sarà messo in relazione agli altri; per esempio il successo degli aiuti umanitari e la ricostruzione dopo una guerra dipendono dal grado di fiducia che viene a crearsi tra le parti belligeranti. La ricostruzione materiale ha pertanto il compito di coinvolgere i belligeranti in progetti comuni.
Il CPCE dovrebbe essere un organo ufficiale, istituito dall’Unione Europea e operante sotto gli auspici della stessa. Con riferimento agli organi e agli Stati membri dell’UE, il CPCE dovrebbe garantire che:
· I fondi dell’UE siano utilizzati per progetti compatibili con gli interessi dell’UE;
· Il sotegno dell’UE sia reso visibile:
· Gli Stati membri dell’UE siano sotenuti nella preparazione e nell’assunzione del personale delle missioni;
· Il coordinamento tra gli Stati membri e gli altri attori beneficiari dei fondi per attività finalizzate alla pace sia agevolato e siano vietati i doppioni;
· I fondi dell’UE siano utilizzati in maniera efficiente.
Il CPCE opererà soltanto con un mandato sostenuto dall’ONU o dalle sue organizzazioni regionali: OSCE, OUA, OAS. Esso contribuirà a crreare i necessari collegamenti tra le attività diplomatiche, da un lato, e la società civile dall’altro. Quale organo a favore della pace, il CPCE svolgerà attività diverse da quelle svolte in tal senso a livello diplomatico. Le missioni del CPCE si baseranno sull’assenza di operazioni militari violente, su una specie di accordo di cessate il fuoco e sul consenso delle principali parti interessate. Quale organo ufficiale il CPCE si distinguerà dalle ONG. Le sue attività si baseranno tuttavia su un’efficiente ccoperazione con le ONG e rafforzerà e legittimerà il loro lavoro. L’attività del CPCE darà strutturata ed organizzata indipendentemente dagli organi militari, pur basandosi sulla cooperazione con i militari laddove le missioni del CPCE coincideranno con le operazioni per il mantenimento della pace.
PP.
PERSONALE E STRUTTURA
Il CPCE consisterà in due parti:
1.) un nucleo costituito da personale qualificato atempo pieno che svolgerà compiti di gestione ed assicurerà la continuità (vale a dire un segretariato con compiti di amministrazione e gestione, assunzione, preparazione, intervento, rapporto di fine missione e collegamento);
· un gruppo costituito da personale specializzato da destinare alle missioni (ivi compresi esperti, con o senza esperienza, tuttavia perfettamente addestrati), chiamato a compiere missioni specifiche, assunto a tempo parziale o con contratti a breve termine in qualità di operatori sul terreno (ivi compresi gli obiettori di coscienza su base volontaria o volontari non remnerati). Il reclutamento si baserà su una rappresentanza proporzionale tra gli Stati Membri dell’Unione Europea.
PREPARAZIONE GENERALE
Tutto il personale sarà preparato tenuto conto delle condizioni generali della missione (per esempio carenza di adeguate infrastrutture materiali, forti pregiudizi e sentimenti di ostilità, tendenza alla violenza, servizi sanitari inadeguati, sistemi di forniture che mettono a dura prova il personale e le sue capacità sociali, dovendo cooperare in scenario multiculturale alieno alla propria vita normale. La preparazione generale svilupperà le capacità di far fronte a condizioni estreme ed applicabili ad una vasta gamma di situazioni di conflitto. Avrà lo scopo di creare un terreno d’intesa comune che comprenderà l’apprendimento di un modo di comunicazione comune e fornirà un approccio generale per il personale dell’UE proveniente da esperienze professionali e culturali diverse, che gli consentirà di operare in paesi con popolazioni di diverse culture. Nel corso della preparazione generale, ai tirocinanti verranno impartite nozioni di base sulle attività intese a stabilire la pace e sulle organizzazioni interessate (ONU, OSCE, ONG).
PREPARAZIONE CON RIFERIMENTO ALLE FUNZIONI
Dato che il carattere multidimensionale dei conflitti rende molto ardue la loro comprensione e gestione, le esperienze professionali debbono riferise alle strategie per la trasformazione dei conflitti e alle specificità delle varie funzioni da svolgere. Indipendentemente dalla missione cui il personale sarà assegnato, esso dovrà ricevere una preparazione specifica e circostanziata relativa alle funzioni da svolgere su almeno uno dei principali compiti della missione.
PREPARAZIONE CON RIFERIMENTO ALLA MISSIONE
Il personale della missione dovrà essere messo al corrente delle condizioni specifiche in cui verrà a trovarsi in talune missioni e delle particolari funzioni che dovrà svolgere. Si rende pertanto necessaria una preparazione con riferimento specifico alla missione da effettuare, sia prima dell’intervento che sul terreno.
RAPPORTO DI FINE MISSIONE
Il rapporto di fine missione è importante per il personale e per il CPCE per valutare e integrare le esperienze e per migliorare la preparazione e le operazioni sul terreno.
ASSUNZIONE
Al fine di garantire che venga assunto soltanto personale qualificato è necessario che il CPCE stabilisca:
· una base generale di dati relativa al personale disponibile che comprenda organigrammi compatibili in tutti gli Stati membri e Istituzioni di formazione dell’UE;
· procedure generali di assunzione che consentano la trasmissione periodica di informazioni sul personale qualificato tra le istituzioni interessate;
· una base per l’assunzione negli Stati membri, tramite la pubblicazione dei vantaggi della partecipazione del CPCE agli sforzi intesi a creare la pace, e l’adozione di misure sul piano giuridico e finanziario per garantire la sicurezza del posto di lavoro e predisporre misure sanitarie in vista delle missioni.
INTERVENTO
E’ necessario provvedere all’organizzazione dell’intervento conformemente al mandato di una data missione. Il mandato deve essere definito in termini chiari e fattibili con riferimento alle risorse disponibili. Si deve altresì provvedere all’equipaggiamento necessario, alla copertura assicurative e all’organizzazione della dislocazione del personale.
FINANZIAMENTO
L’UE e i suoi Stati membri provvedono al finanziamento. Al fine di agevolare la creazione del CPCE in base alle risorse disponibili, da un lato, e far fronte all’insieme delle esigenze, dall’altro, è previsto un continuo ampliamento del CPCE, iniziando con un progetto pilota seguito da costanti operazioni di controllo e da adeguamenti perfettamente sincronizzati.
QUADRO ISTITUZIONALE
Il CPCE dovrebbe essere creato quali servizio specifico nell’ambito della DG I° della Commissione, con un direttore generale responsabile nei confronti del Commissario per gli Affari Esteri e dell’Alto rappresentante del PESC che dovrà essere insediato tra breve presso il Consiglio. Onde garantire la sua necessaria flessibilità operativa sarebbe opportuno strutturarlo sul modello di ECHO.
CONCLUSIONI
Il ruolo potenziale dei civili nel campo della prevenzione e della soluzione pacifica dei conflitti deve essere ancora valutato in tutti i suoi elementi. Al termine di una missione militare per il mantenimento della pace si registra spesso una recrudescenza del conflitto, in quanto le ragioni interne che sono state all’origine della violenza non sono state pienamente affrontate e risolte. La risposta militare, per qunto necessaria per porre fine al confronto violento, non è sufficiente a creare un’effettiva riconciliazione tra le parti. A tale riguardo, l’idea del CPCE dovrebbe essere presa in considerazione daal’UE quale ulteriore mezzo per accrescere e rendere la sua azione ancora più efficace. Agevolare il dialogo e riprestinare le condizioni di reciproca fiducia sono compiti troppo spesso trascurati che dovrebbero far parte di ogni missione di pace. Solo perseguendo un reale processo di riconciliazione si potrà raggiungere una pace durevole. La diplomazia civile, meno dura e più flessibile, dovrebbe essere usata per affiancare, continuare o concludere azioni militari per il mantenimento della pace. L’UE ha una straordinaria occasione di rafforzare la sua politica estera e di sicurezza comune creando un nuovo strumento pratico che potrebbe essere messo a disposizione delle parti belligeranti, prevenire l’escalation della violenza e apportare una soluzione pacifica alle crisi.
ALLEGATO B4 – 0791/98
RACCOMANDAZIONE SUL CORPO CIVILE DI PACE EUROPEO
Il Parlamento Europeo,
· visto l’articolo J.7 del traattato dell’Unione Europea,
· visto l’articolo 46 paragrafo 1 del suo regolamento,
· considerando che il Parlamento Europeo ha adottato varie risoluzioni concernenti l’eventuale istituzione di un Corpo Civile di Pace Europeo,
· persuaso che tale Corpo di Pace possa contribuire positivamente alla politica estera e di sicurezza comune, ed in particolare rafforzare la capacità dell’Unione di evitare che i conflitti negli Stati terzi, o tra Stati terzi, degenerino in violenze,
· raccomanda al Consiglio:
· di dare seguito alla espressa richiesta del Parlamento di procedere senza indugio ad incaricare la Commissione Europea di realizzare uno studio fi fattibilità sull’istituzione di un Corpo di Pace Civile Europeo entro, al più tardi, la fine del 1999;
· di avviare, in caso di esito positivo del suddetto studio, un progetto pilota che costituisca il primo passo per l’istituzione di un Corpo di Pace Civile Europeo.
· incarica il suo Presidente di trasmettere la presente raccomandazione al Consiglio e, per conoscenza, alla Commissione.
28 gennaio 1999
PARLAMENTO FRANCESE,
Parigi 26 - 27 ottobre 2000
· “L’intervention Civile: une Chance Pour La Paix”
di Alberto Labate; Berretti Bianchi
Si è tenuto a Parigi nei giorni 26 e 27 ottobre 2001 nella Sala Colbert del Parlamento Francese, un Convegno su “L’INTERVENTION CIVILE: UNE CHANCE POUR LA PAIX” (Intervento civile di pace: una opportunità per la pace). Il colloquio era organizzato dal Comitato Francese per l’intervento civile di pace, e dall’Istituto di Ricerca sulla Risoluzione Non-violenta dei conflitti. Quest’ultimo è un centro di ricerca diretto da J.M. Muller, ed al quale partecipano altri noti studiosi francesi come J. Semelin. Del Comitato fanno parte: il Comitato Cattolico contro la Fame e lo Sviluppo; il Coordinamento dell’Azione Nonviolenta dell’Arca (fondata da Lanza del Vasto); la Delegazione Cattolica per la Cooperazione; l’Associazione Democrazia e Spiritualità; le Squadre francesi per la Pace nei Balcani; l’Istituto di Ricerca per la Risoluzione Non-violenta dei Conflitti; il Foro di Delfi; il Movimento per una Alternativa Nonviolenta; Pax Christi; i Verdi. Aderiscono al progetto l’Azione Cristiana per l’Abolizione della Tortura; Le Brigate Internazionali di Pace, la Commissione Giustizia e Pace; la Rete Speranza. L’incontro è stato reso possibile grazie a contributi del Ministero degli Affari Esteri francese, e delle Fondazioni “Un mondo per tutti” e “C.L. Meyer per il progresso dell’uomo”.
Nel depliant di presentazione del colloquio si dice: “L’anno 2001 è il primo del decennio internazionale dell’ONU sulla “promozione di una cultura della non-violenza e della pace per i bambini del mondo” votato dall’Assemblea Generale, il 10 novembre 1998, in seguito ad un appello di premi Nobel per la pace. A livello internazionale resta ancora molto da studiare ed ancora di più da sperimentare in materia di regolamento dei conflitti. Ma la nozione d’intervento si è molto sviluppata dalla fine del XX secolo, con la “cannoniera” che ha lasciato sempre più il posto all’intervento umanitario e ad altre forme di ingerenza non militare, o poco militarizzata. Così è nato il concetto di “intervento civile non-violento” progressivamente sperimentato da più di 20 anni in America Latina e Centrale da ONG come le Brigate Internazionali di Pace (PBI), o come la Squadra di Intervento nei Balcani (Balkan Peace Team) nella ex-Jugoslavia, negli anni 90. Il colloquio si propone di fare il punto della ricerca in Francia su questo tema e di presentare gli impegni e la necessità di una formazione all’intervento civile di pace”.
Il colloquio si è sviluppato in tre diverse sessioni. La prima, il venerdì mattina, su “ Intervenire per la pace: ma a nome di chi e per quale ragione?; la seconda, il venerdì pomeriggio su “Natura e ruolo dell’intervento civile di pace”; la terza, nella mattinata del sabato, su “L’impegno per la formazione dei volontari e l’avvenire dell’intervento civile di pace”. Il colloquio si è concluso con una tavola rotonda su: “Quale posto per l’intervento civile: complementarietà, opzione o alternativa?”. I presenti erano soprattutto francesi ma c’era qualche ospite d’oltralpe come il sottoscritto, incaricato, nella seconda sessione, di parlare della situazione italiana sui corpi civili di pace (in allegato la relazione da me presentata), e come assistente di Luc Reychler, presidente di una nota organizzazione per la diplomazia di base del Belgio, incaricato di parlare su una architettura per una pace duratura; altri stranieri erano invece presenti in rappresentanza di vari organismi internazionali che hanno partecipato e contribuito all’iniziativa. Il colloquio è stato infatti contraddistinto da una partecipazione ed anche un dibattito molto chiaro e preciso tra le organizzazioni non governative organizzatrici , o invitate (Medici senza frontiere, Handicap Internazionale) all’incontro e le istituzioni sia francesi che internazionali che hanno contributo ad animare il convegno. Tra queste in particolare, il Ministero degli Affari Esteri, con la partecipazione di un membro della Commissione Parlamentare su questi temi, il Ministero francese della Difesa, che ha inviato due suoi esperti, la Comunità Europea, e l’OSCE che hanno inviato a relazionare due loro dirigenti. Non mi è possibile, per mancanza di tempo, dare atto di tutti gli elementi interessanti emersi dal dibattito che sarà pubblicato a cura degli organizzatori. Molte le valide esperienze presentate da organizzazioni impegnate in questo settore come quelle del BPT o delle PBI, ed estremamente interessanti anche l’analisi giuridica delle possibilità ed i limiti di questo tipo di interventi, o dei problemi psicologici che nascono nelle persone impegnate in questo tipo di attività. Interessante anche una tavola rotonda in cui alcune organizzazioni umanitarie ospiti si sono confrontate con quelle organizzatrici del colloquio per rimarcare le reciproche differenze e la separatezza tra questi due tipi di intervento (umanitario ed intervento civile di pace) ma anche la loro sempre più importante complementarietà.
Ma vorrei sottolineare solo alcuni elementi emersi dalle relazioni e soprattutto dal dibattito molto franco tra le componenti istituzionali e quelle delle ONG che mi sembrano molto istruttivi. Il Ministero della Difesa francese ha preso atto della importanza dell’intervento civile tanto da creare al suo interno anche un dipartimento sull’intervento civile-militare o militare-civile. Ma concepisce questo tipo di intervento come subordinato a quello militare. Nelle parole di un suo rappresentante “l’intervento civile è spesso fatto grazie a mezzi ed attrezzature messe a sua disposizione dai militari”. Mentre le ONG organizzatrici insistono sulla necessità di una completa autonomia dell’intervento civile da quello militare che partono, nelle parole di J.M. Muller, “da due logiche completamente diverse”, non escludendo una loro complementarietà e collaborazione, ma sullo stesso piano e non subordinando quelle civili a quelle militari. Questo problema è emerso chiaramente anche nel dibattito tra uno dei due esperti di questo ministero ed il pubblico. Nella sua relazione questi aveva detto chiaramente che nei momenti di crisi internazionale si possono ipotizzare tre fasi:
· la prima è quella dell’intervento armato;
· 2) la seconda quella della ricerca di soluzioni politiche;
· 3) la terza quella della ricostruzione.
L’intervento dei civili viene visto come importante soprattutto nella seconda e nella terza fase.
Alle rimostranze di alcuni dei partecipanti al colloquio sul fatto che così si metteva del tutto in secondo piano una delle fasi più importanti del conflitto, quella nel quale l’intervento di corpi civili di pace può essere più cruciale, e cioè la prevenzione dall’escalation del conflitto e dell’esplodere del conflitto armato, che deve venire prima delle tre fasi su delineate, l’esperto in questione prima non ha risposto, glissando sull’argomento; poi, sollecitato a voce dal pubblico presente a dire la sua su questo argomento, ha riconosciuto l’importanza del problema ma ha detto che questo è un problema politico che deve essere risolto in sede parlamentare e governativa. Ha anche aggiunto che, secondo lui, il dibattito politico sull’intervento militare o meno e sulla prevenzione dei conflitti armati è estremamente carente a livello del Parlamento Francese e che loro (i militari) avrebbero preferito un maggiore approfondimento di questa tematica che sembra invece messa in secondo piano anche dagli stessi politici. Se pensiamo al dibattito di ieri alla nostra Camera ed all’appiattimento del nostro Parlamento, a stragrande maggioranza, su posizioni di appoggio all’intervento del nostro paese nella guerra in Afganistan, non c’è che da dargli ragione e vedere la pochezza di questo dibattito anche nel nostro paese. Ma questa emarginazione del tema dal dibattito generale politico e soprattutto dalla volontà dei paesi europei è emerso anche dagli interventi dei rappresentanti della Comunità Europea e dell’OSCE. La Comunità Europea sta infatti lavorando nella messa a punto di un esercito europeo ed anche di una polizia europea di varie migliaia di persone, ma nessuno accenno alla proposta di Alex Langer, già approvata dal Parlamento Europeo nel 1995 e ribadita nel 1999, sulla costituzione di corpi civili di pace europei. Alla domanda, fattagli in privato per mancanza di uno spazio adeguato di dibattito pubblico in questa sessione, sul perché di questa assenza, il rappresentate della C.E. ha risposto che si era informato prima di venire al convegno su questo tema ma che gli era stato suggerito di glissare su questo argomento perché considerato, in questo momento, di secondo piano rispetto alla costituzione della forza militare europea e di quella di polizia. Anche qui sembra cioè emergere la volontà dei governi, e dei militari, di costituire prima l’intervento militare e quello della polizia e poi, in subordine, quello civile. Questo è stato ulteriormente confermato dalla rappresentante dell’OSCE che nella sua relazione non ha fatto alcun accenno alla delibera di Istambul dell’OSCE nella quale si insisteva sulla importanza della costituzione di corpi civili di pace. Questa informazione ci era stata data da Kessler, un ex giudice antimafia italiano che è stato vicedirettore del corpo OSCE di verificatori degli accordi di pace in Kossovo prima della guerra, e che ora è deputato alla Camera per l’Ulivo. Alla richiesta del perché di questa trascuratezza l'esperta in questione non ha risposto dando solo le coordinate per la ricerca in internet di questa delibera di cui lei è sembrata essere del tutto all’oscuro, almeno per gli aspetti riguardanti questo tema che era quello principale del convegno a cui era stata inviata.
In complesso si può dire che il dibattito è stato molto utile anche perché ha messo a nudo le resistenze dell’establishment nei riguardi di questo tipo di intervento che viene sì considerato sempre più importante (tanto da riconoscergli lo spazio di dibattito all’interno del Parlamento stesso), ma che viene anche subordinato a quello militare considerato come quello fondamentale che deve dirigere anche l’altro. E questo sottolinea il grande lavoro ancora da fare non solo in Francia ma anche nel nostro paese ed a livello europeo per far comprendere la necessità della autonomia e della non subordinazione dell’intervento civile a quello militare, che possono e devono sempre più collaborare reciprocamente, ma senza subordinare quello civile a quello militare come sottolineato ripetutamente dagli organizzatori del colloquio stesso. A questa sottovalutazione ed a questa mancanza di comprensione è da imputare anche il fatto emerso dal dibattito nell’ultima sessione che tutta la formazione dei volontari in questo campo è lasciata alle ONG, con grande impegno di energie umane ed economiche, mentre non c’è un finanziamento pubblico di questo aspetto come invece richiesto dagli organizzatori del convegno stesso. C’è solo da sperare che il franco dibattito emerso dal colloquio convinca le istituzioni francesi, in particolare il Ministero degli Esteri che è trai finanziatori ed organizzatori del colloquio, di accettare questa proposta e di dare maggiore importanza, in futuro, anche a questo aspetto.
Firenze 8 novembre 2000
PRIMO INCONTRO CORPI CIVILI DI PACE
Impruneta 26 - 27 gennaio 2001
· Discussione sulle Aspettative e gli Orientamenti
PAOLO BERGAMASCHI – Gruppo Verde del Parlamento Europeo
Dal 1995 abbiamo cominciato a lavorare con A. Langer nel Parlamento Europeo per una proposta di creazione dei Corpi Civili di Pace.
Dalla primavera del 1999 l’U.E. ha dato vita alla cosiddetta politica estera di sicurezza comune: incentrata all’inizio sugli aspetti militari, dopo le proteste dei 4 paesi neutrali e della sinistra la questione viene affrontata non solo da un punto di vista militare ma anche civile attraverso una serie di organi in via di definizione:
Un comitato militare, in quanto l’esercito UE non deve essere una duplicazione della Nato.
Un organismo per la gestione civile dei conflitti (politiche sociali economiche ecc.) che introduce il concetto di azioni strutturali in un quadro comune (è stata fatta una comunicazione della commissione dove non era prevista la costituzione dei Corpi Civili di Pace, ma è stata rispedita al mittente e dovrà essere integrata.
DAVIDE CAFORIO – Etieconomia
Sulla natura dei Corpi Civili di Pace, nella bozza si leggeva che era prevista una sorta di collaborazione con le autorità militari.
PAOLO ZAMMORRI – Berretti Bianchi
Costruiamo il nostro corpo civile o interveniamo sulla costruzione Corpi Civili di Pace istituzionali europei?
EDI RABINI – MIR
Sarebbe interessante passare dalle specificità di quello che è stato fatto finora a un progetto che si confronta con il mondo istituzionale che deve diventare proposta politica.
LISA CLARK – Beati i Costruttori di Pace
Essere ponte, due tipi di ponte:
Il ponte tra la teoria e la pratica, per evitare la scissione fra queste due cose. Il ponte tra le realtà diverse che già sono attive: ad esempio i GAN e il GLT nonviolenza della Rete Lilliput.
ODILLA DAL SANTO – Donne in Nero
Per gli obiettori di coscienza sembra essere prevista una figura gestita dai militari che potrebbe sovrapporsi ai corpi civili di pace come li intendiamo noi. Sorge la necessità di distinguersi e quindi avere una cosa come i GAN da cui partire
MAO VALPIANA – Azione non Violenta
Esiste il piano politico istituzionale ed esiste il piano delle esperienze personali. Non sono d’accordo a mischiare le cose, es. i GAN sono l’azione tradizionale delle Associazioni mentre una formazione specifica per Corpi Civili di Pace è cosa diversa. Diversamente si entra nella genericità. Sull’organizzazione dal basso della formazione, non dobbiamo inventare nulla, si parte dall’esperienza di quello che si è fatto in questi anni. Siamo in ritardo rispetto alle acquisizioni già realizzate in ambito politico.
SILVANO TARTARINI – Berretti Bianchi
D’accordo sul fatto che dobbiamo mantenere il vecchio, le istituzioni hanno fino ad ora odorato queste tematiche. Esiste l’esigenza di costruire qualcosa ma minimale, non siamo indietro siamo avanti. Le Organizzazione non possono essere escluse, facciamo uno sforzo comune: piuttosto dell’ipotesi bicamerale (coordinamento di GAN + coordinamento di ONG) vedo meglio un unico coordinamento che al suo interno veda rappresentanti dei GAN e delle ONG.
ALBERTO L’ABATE – Università di Firenze
I corpi civili sono qualcosa di strutturato e professionale mentre i Gan sono meno strutturati. Ma il fatto che esistono persone che istituzionalmente organizzano il corpo civile non impedisce la partecipazione del movimento di base.
LISA CLARK - Beati i Costruttori di Pace
Nelle missioni di osservazione (i facilitatori di pace) non sono Corpi Civili di Pace, ma perlopiù militari.
PAOLO BERGAMASCHI – Gruppo Verde del Parlamento Europeo
Essi sono stati inviati in modo lottizzato dai vari paesi europei, senza una formazione comune, e hanno svolto piuttosto un servizio di “spionaggio” per i rispettivi paesi. Ma si tratta comunque di esperienze sul campo riutilizzabili e riconvertibil.
EDI RABINI – MIR
Noi possiamo valorizzare quello che abbiamo fatto, non siamo più nel 1993, quando non si era mai sentito parlare di Corpi Civili di Pace. Adesso il livello di consapevolezza al livello di UE è alto. Per quanto riguarda i processi formativi, la formazione deve partire dalle regioni. A parte Germania e Austria, anche diverse università Italiane si pongono questo obiettivo, Pisa, Firenze, un master a Trento per la risoluzione dei conflitti nei Balcani.
I giovani, non vanno classificati anche involontariamente in buoni e cattivi se fanno o non fanno obiezione di coscienza. Occorre guardare all’importanza della formazione comune tra militari e civili. Guardare a chi fa professionalmente protezione civile.
MAO VALPIANA – Azione Nonviolenta
Non facciamo confusione tra interventi politici – umanitari e Corpi Civili di Pace. I Corpi Civili di Pace, in prospettiva, devono essere dei professionisti.
ALBERTO L’ABATE – Università di Firenze
Creazione di una struttura efficace che si occupi di Formazione.
SANDRO MAZZI – Centro Studi Difesa Civile
Creare una struttura efficace e snella che riesca a non impantanarsi nei processi decisionali, il Centro Studi Difesa Civile ha creato, nel 1999, una cooperativa che vuole fare formazione e presenta progetti presso gli EE.LL ed acquisisce esperienze nella ricerca di fondi e finanziamenti.
· Relazione del Coordinatore della Segreteria Tecnica
di Silvano Tartarini, Berretti Bianchi
Cari amici, vi invio questa mia relazione sull’incontro di Impruneta, fatta sulla base degli appunti di Enrico Euli, che ringrazio per tutto il lavoro interamente gratuito, che ha fin qui svolto. Preciso che ho solo cercato di mettere assieme quello che era sparpagliato nei vari interventi assieme alle decisioni prese.
C’è stata una introduzione di Alberto L’Abate, che ha chiarito le ragioni dell’incontro e quello che si intendeva promuovere, ricordando che da una precedente riunione a Perugia era nata l’esigenza di lavorare alla stesura di una prima bozza di statuto, di cui si era occupata Antonella Sapio. La bozza di statuto era stata inviata a tutti i partecipanti all’incontro per fornire una possibile traccia organizzativa su cui riflettere e discutere, poiché si avvertiva l’esigenza di una struttura interna che potesse fornire maggiori garanzie di buon funzionamento, in grado di contenere e valorizzare tutta la diversità delle presenze in Italia attive in questo campo. In sostanza si è rilevato che l’urgenza imposta dalla situazione di "guerra globale" richiede una sinergia tra le varie organizzazioni impegnate sui tempi della prevenzione e dell’opposizione alla guerra diretta alla realizzazione concreta di un primo Corpo Civile di Pace. Si intende lavorare ad una struttura efficace, in grado di costruire in pari tempo formazione e azione.
Su questa premessa si è aperto il dibattito che ha anche finito per fare il punto sulla situazione legislativa sul tema e ha dato informazioni sui rapporti e contatti istituzionali rilevando come già dal 1995, grazie ad A. Langer, si è cominciato a lavorare a una proposta sui corpi civili di pace.
Successivamente, dalla primavera del ’99, la UE ha dato vita alla cosiddetta politica estera di sicurezza comune incentrata all’inizio sugli aspetti militari, ma che, dopo le proteste dei 4 paesi neutrali e della sinistra, viene affrontata ora non solo da un punto di vista militare ma anche civile attraverso una serie di organi in via di definizione.
Rispetto al problema se costruire un Corpo Civile di Pace dal basso o intervenire sulla realizzazione dei Corpi Civili di Pace istituzionali, la decisione emersa è stata quella di partire dal lavoro fatto e dalla nostra specificità per arrivare a costruire una prima realtà operativa dal basso e una proposta politica in grado di confrontarsi con le istituzioni ai vari livelli, anche sul terreno della formazione. Qui va rilevato che è stata ipotizzata anche una formazione comune tra civili e militari. Poiché, i precedenti osservatori italiani in Kossovo per conto della OECE erano per lo più militari in borghese e dato che i militari tendono a vedere i Corpi Civili di Pace come subordinati alle loro direttive, e dal momento che non è possibile pensare a Corpi Civili di Pace che intervengano con la nonviolenza all'estero senza averla applicata anche nelle nostre città e nelle situazioni in cui viviamo normalmente si è ritenuto necessario lavorare anche allo sviluppo di Gruppi di Azione Nonviolenta (GAN), che operino sul territorio nell’ottica della costruzione dei Corpi Civili di Pace.
SEMINARIO NAZIONALE VERSO LA COSTRUZIONE DEI GRUPPI DI AZIONE NONVIOLENTA
Roma 27-29 settembre 2001
· Esperienze di Nonviolenza nei Movimenti Italiani di Cambiamento Sociale
di Alberto Labate; Berretti Bianchi
La relazione si è sviluppata in 7 considerazioni generali e quattro esempi concreti.
1. la prima considerazione riguarda la generale incultura della nonviolenza , che traspare da molti opinionisti, anche molto famosi, che confondono pacifismo e nonviolenza, e che continuano a considerare quest’ultima come passività, come accettazione supina delle ingiustizie, come vigliaccheria, ecc.
2. La seconda considerazione riguarda la distinzione tra movimento pacifista e movimento nonviolento. Come accennato prima spesso questi vengono considerati essere la stessa cosa. In realtà tra loro c’è una differenza notevolissima. Infatti il movimento per la pace è semplicemente re-attivo.. Si mette in moto quando si prevede o sta per iniziare una guerra. Allora molte migliaia di persone, che molto spesso prima non hanno mosso un dito per evitare che la situazione si incancrenisse, si mettono in moto, fanno grandi manifestazioni di massa, protestano e scrivono contro la guerra. Ma di solito, appena la guerra è iniziata, oppure si è conclusa, il movimento sparisce del tutto. Il movimento nonviolento è invece pro-attivo. E cioè si mette in moto molto prima (in numeri molto minori, e perciò meno visibili, ma in modo continuato e approfondito) per prevenire il conflitto armato, per cercare soluzioni nonviolente, oppure, durante la guerra, per interporsi in modo nonviolento e far terminare il conflitto armato, e mettere gli avversari ad un tavolo di trattative, oppure dopo la guerra, per ristabilire i rapporti umani tra i due contendenti, e trovare forme di riconciliazione tra di loro. La ragione principale di questa differenza è il fatto che nella nonviolenza ci sono due armi principali: l’azione diretta nonviolenta, che ci dà strumenti per contrastare quanto c’è di sbagliato (tanto) nella società attuale, ed il progetto costruttivo, che ci indica dove vogliamo andare, che tipo di società vogliamo mettere in vita, ecc. Le battaglie nonviolente vincenti hanno sempre utilizzato ambedue queste “armi”, o se non vogliamo usare una terminologia militare, “strumenti” di cambiamento sociale, in modo interrelato ed in simbiosi l’uno con l’altro.
3. Ci sono studiosi , come Bobbio, che pur molto simpatetico verso la nonviolenza, esprime dei dubbi sulla sua efficacia. In realtà ci sono moltissimi esempi di come questa, se ben utilizzata, possa essere molto efficace. Io ne citerò solo quattro, ma se ne potrebbero presentare molte di più:
3.1 Vari anni fa, a Genova, c’era programmata ogni anno una mostra navale bellica, per vendere meglio le armi prodotte dalle nostre industrie. Dalle organizzazioni di base di Genova fu organizzato un blocco alla mostra che, nella mattina, coinvolse svariate migliaia di persone, ma che, nel pomeriggio, vide la partecipazione ad una manifestazione nonviolenta (serpentone) di moltissime migliaia di persone. A mia conoscenza è stata una delle più belle manifestazioni nonviolente mai svolte in Italia. L’obbiettivo era quello di far chiudere quella che era stata definita, dai Genovesi “la mostra dei mostri”.. In effetti, dopo questa manifestazione, la mostra fu sospesa e trasferita in mezzo al mare, su una nave militare raggiungibile solo con elicotteri. Ma dopo qualche anno i costruttori di armi italiani tornarono alla carica, chiedendone di nuovo l’apertura a Genova. La loro argomentazione era che l’Italia, a causa di questa limitazione, era passata dal 5° posto tra i venditori di armi del mondo, al 13° posto. Non so se questo sia vero, ma è certo che se le nostre iniziative sono riuscite a ridurre talmente il nostro commercio di armi, non possiamo certo dire che la nonviolenza sia inefficace. Con quella argomentazione i costruttori e venditori di armi nostrane sono riusciti a far riaprire la mostra a Genova, ma dopo un secondo blocco, cui ha partecipato pure una buona parte della popolazione genovese, la mostra è stata riportata nella nave militare.
3.2 Il secondo esempio è preso dalla lotta e dal lavoro di Danilo Dolci in Sicilia. Dopo una serie di sue denuncie (si pensi al suo libro “Banditi a Partinico”) sul fatto che lo stato italiano spendeva soldi solo per la repressione di coloro che si “ribellavano” al loro stato di miseria (spendendo perciò notevoli cifre per l’apparato repressivo : carabinieri, polizia, militari, giustizia, carceri, ecc.) ma quasi niente per aiutare le popolazioni di quella regione a svilupparsi economicamente e socialmente, grazie al premio Lenin per la Pace, ed al sostegno di molti gruppi di amici organizzatisi in varie parti del mondo, ha messo su, lui stesso, un lavoro di sviluppo di comunità (con tecnici vari, assistenti sociali, infermieri, agronomi, economisti pratici, ecc.), attuando forme di programmazione partecipata - dal basso (da lui definita maieutica reciproca, perché la partecipazione della popolazione stessa della zona arricchiva la presa di coscienza dei problemi reali e delle possibili soluzioni), e grazie al suggerimento di un contadino della zona, e vari anni di studi e lotte, è riuscito a far costruire una diga del fiume Iato, che dà acqua alle zone vicine (anche a Palermo), ha aumentato notevolmente il reddito delle campagne circostanti, e che viene gestito (contrariamente alle altre dighe della Sicilia strettamente controllate dalla mafia, e perciò con prezzi dell’acqua esorbitanti) da una cooperativa formata dai piccoli proprietari e contadini di quell’area. Ma se si va a vedere a fondo l’influenza di Dolci non è stata solo locale. Un notevole numero dei leaders studenteschi del 1968 erano stati, come me, a lavorare come volontari con Danilo Dolci. E questo aveva dato loro la forza di portare avanti una lotta, come quella studentesca, che grazie anche ad Aldo Capitini che aveva preconizzato molte delle idee che saranno riprese dal movimento, almeno di quella parte di questo che si ispirava alla nonviolenza (l’importanza della partecipazione dal basso- del “potere di tutti”, e di metodi decisionali consensuali – l’ ”assemblea”, ad esempio) ha contribuito sicuramente a far prendere coscienza ad una gran parte della popolazione italiana (si pensi allo sviluppo, tra gli operai, della “scienza operaia” e della “non delega della salute”) ed ha notevolmente contribuito anche a far attuare, dopo qualche anno, la nascita delle Regioni, che erano iscritte nella nostra Carta Costituzionale, ma che, fino ad allora, nessuna forza politica si era sentita di realizzare .
3.3 Il terzo esempio, dell’efficacia della lotta nonviolenta, viene dalle lotte contro le Centrali nucleari della Maremma Toscana e Laziale.. Oltre alla Centrale Nucleare di Montalto, nella Maremma Laziale, che era già stata decisa ed in costruzione, c’era il progetto di farne un’altra a Capalbio, nella Maremma Toscana. La sua realizzazione avrebbe portato la Maremma ad essere una delle zone italiane a più alta concentrazione di centrali nucleari, una vera e propria “mecca” del nucleare. Ma la popolazione si organizzò e, per opporsi a questo progetto, bloccò la linea ferroviaria Pisa-Roma per circa due
ore. La polizia prese molte foto del blocco, e denunciò per questa manifestazione non autorizzata circa una quarantina di persone, alcuni dei quali erano gli stessi organizzatori, ma altri erano invece cittadini comuni che avevano partecipato al blocco, ma che erano in condizioni di difficoltà ad affrontare un processo (uno, ad esempio, aspettava di essere assunto dalle Ferrovie dello Stato, un altro aveva una licenza per vendita ambulante e rischiava che gli venisse tolta, e così via). Così quando si arrivò al processo la difesa cercò di diminuire l’importanza del blocco sostenendo che non c’era stata la volontà di farlo, ma che i treni erano stati bloccati per iniziativa del Capostazione di Capalbio che aveva paura che potesse succedere un incidente ai manifestanti. E molti di questi sostennero che non erano andati nelle rotaie per fare il blocco, ma solo per vedere degli amici, o per traversarle per altre ragioni. Ed i giudici assolsero i manifestanti per “insufficienza di prove” sulla volontà di voler fare un blocco. Ma Don Sirio Politi, un prete operaio che gestiva una chiesetta nel porto di Viareggio, ed era stato, per molti anni, il Presidente del Movimento Italiano per la Riconciliazione, ed il sottoscritto, che eravamo stati chiamati come testimoni, abbiamo invece dichiarato ai giudici che non eravamo solo presenti ma che avevamo partecipato anche al blocco. Ma varie altre persone (9) che avevano partecipato alla manifestazione si auto-incriminarono per la stessa azione, non tutte insieme ma progressivamente . Si arrivò così al nostro processo che si prolungò per oltre un anno, in tre diverse sessioni, perché ogni volta i giudici si trovavano di fronte ad altre auto-denunce e rimandavano il processo per unificarlo. Ma ad ogni incontro noi, la sera prima, organizzavamo un contro processo al quale erano invitati a parlare quelli che poi, il giorno dopo, avrebbero dovuto testimoniare in Tribunale a nostro favore. Tra i conferenzieri e testimoni a favore abbiamo avuto alcuni dei più noti studiosi italiani su questi temi (come Gianni Mattioli, Massimo Scalia, Enzo Tiezzi, Giorgio Cortellessa, Giorgio Nebbia, ecc.). Gli imputati avevano, inoltre, scritto una lettera aperta ai giudici nella quale ammettevano la loro colpa ma sostenevano che il blocco era stato fatto per evitare dei danni alla salute della popolazione di quella area, ed avevano raccolto su questo aspetto una notevole documentazione che veniva messa a disposizione sia della stampa che dei giudici. Ed gli avvocati difensori, coordinati da Enzo Enriquez Agnoletti, che era stato vice sindaco di Firenze ai tempi di La Pira, e che era Vice Presidente del Senato, sostennero che avevamo agito in ottemperanza all’art: 6 della nostra Costituzione che dichiara la protezione della “Salute” come diritto fondamentale di ogni cittadino italiano. La stampa locale dette moto risalto a queste nostre tesi, ed a poco a poco, man mano che ci si avvicinava alla seduta finale del processo, l’appoggio da parte della popolazione alle nostre posizioni crebbe notevolmente. Tanto che il giorno del processo finale gli studenti di molte delle scuole superiori di Grosseto, il luogo dove si svolgeva il processo, non andarono a scuola per venire ad assistere all’udienza. E la sentenza fu molto coraggiosa, fummo assolti .per aver agito in “stato di necessità putativa”. E cioè perché credevamo che non ci fossero altri mezzi per salvare la popolazione da quel possibile rischio. La sentenza era così innovativa che la sera stessa, al giornale Radio 1, ne dettero notizia dicendo che era la prima volta che veniva utilizzata la motivazione di “stato di necessità” per la difesa di un diritto pubblico, come la salute, e non per la difesa di interessi personali, o di beni privati (come quando, per difendersi da un ladro, il padrone lo colpisce e ferisce). Ma in modo molto strano, per la giustizia italiana, in cui di solito tra il processo di primo grado e quello di secondo, passano vari anni, dopo nemmeno sei mesi c’è stato l’appello a Firenze, in cui i giudici non hanno voluto ascoltare nessun testimone di difesa ed è stata rivista la sentenza condannandoci a sei mesi per manifestazione non autorizzata. Sentenza poi confermata qualche anno dopo dalla Cassazione a Roma. La motivazione della condanna era stata che avremmo dovuto ricorrere a mezzi legali, come il referendum, per opporsi alla costruzione della centrale. Ma una smentita a questa motivazione c’è stata, nemmeno sei mesi dopo questa sentenza , quando la richiesta di referendum, già presentata da molte organizzazioni ambientaliste, era stata bocciata perché ritenuta non accettabile. C’è voluto, qualche anno dopo, il disastro di Cernobyl, con la caduta di particelle dell’incendio ivi divampato anche nel nostro paese ed il divieto, per molti mesi, di mangiare le verdure e l’insalata, o bere il latte delle nostre mucche, perché la situazione cambiasse e venisse approvata la nuova richiesta di referendum, poi, com’è noto, vinto dagli antinucleari, con l’affossamento definitivo del progetto della seconda centrale a Capalbio, e la riconversione di quella già costruita a Montalto. In questo caso la lotta nonviolenta, anche se non ha portato direttamente a risultati positivi alla fine della stessa, ha sicuramente influito in modo non indifferente sulla vittoria finale del referendum.
3.4 Il quarto esempio sono le lotte di Comiso contro la riconversione di quel vecchio aereoporto dismesso in una base per il lancio di missili nucleari Cruise. Questi sono missili detti “di primo colpo”; sono infatti missili molto precisi, e non facilmente individuabili, perché volano basso fuori dell’orbita dei radar, ma sono molto lenti, perciò sono utilizzabili solo in caso di guerra preventiva, prima che quelli del nemico siano stati già lanciati. Per questa ragione sono considerate arme di attacco e non di difesa. Infatti, nei vari processi che si sono tenuti contro i manifestanti che si opponevano al loro impianto, gli avvocati hanno fatto riferimento all’articolo 11 della nostra Costituzione che vieta la guerra di attacco, e riconosce solo quella di difesa. In realtà l’aeroporto è stato convertito in una base di missili, ma dopo alcuni anni si è arrivati al trattato Salt, tra Russia ed Stati Uniti, che vietava i missili a lunga gettata, come quelli Cruise., e la base è stato destituita come tale ed è servita per usi civili (come, ad esempio, per ospitare un certo numero di profughi dal Kossovo). E’ attualmente allo studio il suo ripristino ad aeroporto, ma per usi civili, e non militari. Il collegamento tra le nostre lotte ed il trattato Salt può essere considerato più tenue. Ma le nostre lotte non sono state le sole: in Inghilterra, in Olanda, in USA, ci sono state lotte altrettanto strenue, e qualche volta anche di più.., contro basi simili. Una domanda che mi sono posto spesso è questa: “Siamo proprio sicuri che il fatto che in Occidente ci fossero queste lotte contro gli impianti di missili di questo tipo, di attacco, non abbiano avuto alcuna influenza sulla proposta di “Disarmo nucleare unilaterale” fatta da Gorbaciov (che sapeva di avere dalla sua almeno una parte della popolazione dell’Occidente) e non abbiano influenzato anche l’accettazione della proposta fatta dal Presidente degli Stati Uniti , Ronald Reagan?”.. Io non ne sono affatto sicuro, per questo credo che queste lotte nonviolente siano state un successo.
4. Ma credo sia importante riferire anche di analisi storico-comparative fatte dal mio seminario di “Ricerca per la Pace” presso l’Università di Firenze. Queste avevano l’obiettivo di verificare l’efficacia comparativa di lotte nonviolente e di lotte armate ai fini del mutamento sociale.
I casi analizzati sono stati quattro:
4.1 Le lotte tra Israele e Palestina;
confrontando i risultati del periodo precedente alla Prima Intifada, durante il quale la strategia prevalente era quella di azione violente, normalmente definite “terroristiche” perché spesso non dirette contro i militari ma anche contro i civili, e quelle della Prima Intifada, che aveva usato la non collaborazione, l’obiezione di coscienza, il rifiuto di pagare le tasse, ed anche il lancio di pietre da parte di bambini, che, confrontate all’uso di carri armati e di mitra da parte dei soldati israeliani, sono state definite (Sharp) a “bassa intensità di violenza”;
4.2 La lotta contro Marcos nelle Filippine;
anche qui confrontando le azioni terroristiche precedenti, con quelle nonviolente portate avanti dalla popolazione civile guidata da Cory Aquino.
4.3. Le lotte studentesche di Piazza Tien an Men, a Pechino;
Il confronto in questo caso era tra la lotta nonviolenta degli studenti cinesi, e la risposta armata data dal governo;
4.4 Il confronto tra i risultati ottenuti dalle lotte armate delle “Brigate Rosse” e “Prima Linea”, con quelle nonviolente; in particolare della Campagna per l’Obiezione di coscienza alle Spese militari.
Le ipotesi che la ricerca ha potuto confermare, (esposte qui in modo molto sintetico), attraverso una analisi approfondita dei casi su citati, sono state quelle che la lotta nonviolenta tende a spaccare l’avversario tra una parte che appoggia quelli che lottano con la nonviolenza, e quelli invece che li contrastano comunque, senza tener conto della forma della lotta. Invece la lotta violenta ha l’effetto opposto, tende ad integrare l’avversario in un fronte unito contro quelli che usano questa strategia armata. Inoltre la lotta nonviolenta tende a trovare alleati anche nei paesi terzi, che possono svolgere un ruolo di mediatori, mentre quella armata tende a distaccarli ed allontanarli. Per questo la conclusione della ricerca, che è durata un anno, è stata quella che la lotta nonviolenta, in questi casi, è stata più efficace nel provocare mutamenti sociali di quella armata.
5. Una quinta considerazione riguarda invece il cambiamento all’interno della politica del nostro paese., attraverso un confronto tra il voto e le lotte nonviolente. Se si pensa al voto come strumento di cambiamento c’è da essere abbastanza delusi. Più le sinistre si sono avvicinate al potere, più queste hanno portato avanti politiche che prima venivano definite di destra. Ad esempio con l’impianto dei missili Cruise a Comiso, fatto durante il primo governo Craxi, oppure con la guerra Jugoslava, fatta dal Governo D’Alema. In complesso hanno portato avanti una politica di privatizzazione e di supremazia del mercato, abbandonando quasi del tutto i principi e le idee della programmazione, non solo quella di Dolci, dal basso, partecipata, ma anche quella più tradizionale, centralizzata. Le lotte nonviolente, con i tanti processi (spesso vinti), hanno portato a vittorie che si possono definire storiche, come l’equiparazione, nel tempo della durata, tra il servizio militare e quello civile, o come la sentenza della Corte Costituzionale (n. 165, del 24-5/1985) che ha dichiarato che la difesa della Patria può essere fatta anche senza l’uso delle armi, oppure, con la legge n.230 del 1998, con il riconoscimento che l’obiettore di coscienza può essere utilizzato per sperimentare e ricercare “forme di difesa civile non armata”, oppure che può prendere parte a missioni non armate all’estero. Tutto questo ha fatto si che il nostro paese sia uno dei paesi d’Europa più avanti, in Europa, nel riconoscimento istituzionale dei “Corpi Civili di Pace” che possano operare, nonviolentemente, per la prevenzione, il superamento dei conflitti armati, e la riconciliazione dopo la guerra.
6. La sesta considerazione riguarda un certo numero di indicazioni metodologiche che possiamo derivare dalle esperienze italiane di lotte nonviolente fatte finora, se si vogliono portare vanti lotte nonviolente vincenti: I, l’importanza della raccolta di documentazione alternativa, prima e durante la lotta (si pensi al ruolo di queste nel processo di Grosseto); II, a questo collegato c’è l’importanza del lavoro di informazione e di contro informazione; III, l’importanza del lavoro di formazione, indispensabile se si vogliono portare avanti lotte nonviolente che possono comportare situazioni di rischio ed eventuali processi; IV, importanza di un equilibrio tra quantità e qualità.. Spesso si cerca di essere in tanti senza preoccuparsi della qualità della partecipazione. In molti casi è meglio essere in meno ma avere persone ben preparate, che accettino le eventuali condanne di un processo, e che riescano a portare avanti manifestazioni creative ed innovative, e non le solite manifestazioni di massa, ma spesso banali; V, questo porta all’indicazione successiva, e cioè dell’importanza dell’allargamento del consenso a gruppi esterni, allargamento che spesso è strettamente collegato al fatto di riuscire a colpire la loro immaginazione con metodi di lotta diversi da quelli utilizzati normalmente, spesso accettando i rischi della propria azione sulla propria pelle; VI, da questo punto di vista è fondamentale il ruolo della stampa e dei media. Purtroppo attualmente la stampa sembra più interessata a parlare di morti, guerre, conflitti armati, che di pace e di nonviolenza. Ma la formazione di giornalisti nonviolenti è sicuramente un obiettivo importante da perseguire; VII, Ma per avere dei cambiamenti reali è importante saper organizzare bene, e portarle avanti, azioni dirette nonviolente, forme di obiezione di coscienza (al militare , alle tasse militari, alla costruzione di armi, ecc.), forme di non collaborazione alle ingiustizie, e disobbedienza civile di fronte a governi che portino avanti politiche ingiuste, o minaccino la democrazia; VIII, ma come accennato prima, per resistenza alle ingiustizie si deve lavorare anche ad un progetto costruttivo. In caso contrario, come successo in molti paesi dell'Est, e nelle stesse Filippine, i successi delle lotte non violente ( o a-violente) rischiano di svuotarsi trasformando le precedenti dittature comuniste o fasciste, in una dittatura di un mercato controllato inoltre dalla mafia; IX, ma un ulteriore insegnamento è quello di non illudersi. Ci sono fortissime resistenze al cambiamento anche se nonviolento (si pensi all’importanza, nelle economie nazionali, della costruzione e della vendita delle armi); X, una ulteriore indicazione è quella di saper cogliere le condizioni esterne facilitanti (come ad esempio il disastro di Cernobyl che ha fatto cambiare idea a molte di quelle persone che si lasciavano abbindolare facilmente dalla propaganda che insisteva sulla non rischiosità del nucleare civile); XI, la penultima indicazione è quella di saper istituire dei validi collegamenti internazionali che possano contrapporsi alla globalizzazione dei mercati, nell’interesse dei G8 o di poche industrie multinazionali, con una globalizzazione dal basso, nell’interesse di un “mondo diverso”, pacifico; XII, l’ultima indicazione è quella dell’importanza di una strategia dal doppio binario, all’interno delle istituzioni, ma senza lasciarsi bloccare dalle “regole del gioco” interne ma cercando di innovarle, ma anche al loro esterno, perché senza una pressione dal basso, esterna alle istituzioni, come quelle che hanno portato la Regione Toscana (vedi lotte di Capalbio) a passare dal primo posto nella scelta del nucleare civile, all’ultimo posto tra le regioni disposte ad accettarlo, è molto difficile cambiare realmente qualche cosa.
7. Ma l’ultima considerazione riprende un commento di Galtung, uno dei più profondi studiosi delle lotte nonviolente. Galtung sostiene che non si può sapere se la lotta nonviolenta funziona sempre, ed in tutte le circostanze, che la sua efficacia è incerta, e che dipende molto da come queste vengono portate avanti. Ma che quello che è invece è sicuro è che la violenza è fallita perché invece di eliminare l’altra violenza la porta ad accrescersi ed aumentarla in forma spirale, aumentando sempre più l’odio tra gruppi e le guerre.
· I GAN: un progetto di azione per la Rete Lilliput
di Pasquale Pugliese, Gruppi di Azione Nonviolenta di Rete Lilliput
Il sistema nel quale viviamo è profondamente in crisi dal punto di vista energetico, ecologico e sociale. E’ in atto un drammatico conflitto tra il modello economico dominante e la biosfera. Il potere imperiale che governa il pianeta sta operando una trasformazione violenta di questo conflitto, sovrapponendo alla violenza strutturale, sulla quale è fondato, la violenza diretta della repressione verso il dissenso interno e della guerra permanente verso l’esterno. In questa fase di conflitto l’uso della violenza diretta ha anche, e forse soprattutto, la funzione mimetica di nascondere le ragioni della crisi e puntare tutte le attenzioni sul/sui “nemico/ci”, causa di tutti i mali.
Ciò pone ai movimenti di resistenza e costruzione delle alternative una doppia sfida, una doppia alternativa:
di contenuto: ridurre l’impatto del sistema energetico-economico-sociale sulla biosfera, ossia ridurre l’impronta ecologica e sociale, per uscire della crisi planetaria;
di metodo: ribaltare la trasformazione violenta del conflitto operando la sua trasformazione in senso nonviolento, per svelare ed affrontare le vere ragioni del conflitto.
In questo quadro, sono almeno due le ragioni principali per operare la scelta consapevole della nonviolenza:
1) per superare la scissione tra etica e azione politica (macchiavellicamente “il fine giustifica i mezzi”) e reinserire l’etica nella politica (gandhianamente “il mezzo sta al fine come il seme sta all’albero”);
2) perché può essere efficace, per le seguenti ragioni:
a) la nonviolenza interviene sui processi per modificare le strutture profonde della società e non solo sugli eventi indotti. E’ pro-attiva pittosto che re-attiva. Ha una propria agenda che cerca di realizzare, anche attraverso il lavoro al “programma costruttivo”, e non risponde solo ad input esterni;
b) ha un approccio complesso al conflitto nel quale non considera solo i due soggetti esplicitamente avversari – oppresso ed oppressore - ma tiene conto delle fondamentali terze parti, delle quali cercare la simpatia, il consenso ed infine l’alleanza.
E’ quest’ultimo un punto cruciale sul quale soffermarsi.
Già nel ‘500 Etienne de La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria, ha evidenziato come le vere radici del potere stanno nella “complicità” di chi lo subisce. Secondo Sharp le ragioni dell’obbedienza sono l’abitudine, la paura delle sanzioni, l’obbligo morale, l’interesse personale, l’identificazione psicologica con il governante, le “zone d’indifferenza”, la mancanza di fiducia in se stessi. Ciò è ancor più vero nel sistema capitalista nel quale il sostegno principale al sistema non è dato tanto dall’esercito o dalla polizia quanto da quel venti per cento di cittadini del mondo ricco che da un lato dissipa le risorse economiche, ecologiche ed energetiche di tutti e dall’altro comincia, per lo più inconsapevolmente, a pagarne le conseguenze.
“Il capitalismo è sostenuto più dall’adesione passiva che dalla forza. - spiega Brian Martin nel suo “nonviolenza contro capitalismo” - Nelle società capitalistiche le persone vivono la loro vita quotidiana invischiate in una rete di credenze e di piccole azioni che costantemente ripresentano loro ciò che è possibile e desiderabile. Quando la gente consuma un pasto pronto, vede e ascolta la pubblicità, indossa abiti firmati, aspira a ulteriori possessi materiali e si adatta a competere in un mercato del lavoro rigido, ecco che si trova coinvolta in comportamenti e sistemi di credenze che riflettono e riproducono uno stile di vita dominato dal capitalismo. Se molti disobbedissero alle leggi, l’intervento della polizia o dell’esercito potrebbe essere controproducente o inutile, ma il fatto è che quasi tutti si adeguano al sistema, anche coloro che gli sono contrari. Si tratta dunque di elaborare una politica che distrugga le credenze del capitalismo e che dia impulso ed espansione a una nuova sfida”
Si tratta, pertanto, di agire parallelamente nei confronti del potere e delle ”terze parti” che, consapevolmente o meno, lo sostengono. E dunque anche su noi stessi.
Ma, nella situazione data, affinché la scelta della nonviolenza da parte di Rete Lilliput sia effettivamente efficace bisogna soddisfare tre condizioni di efficacia:
1) uscire dal generico della a-violenza e della non violenza ed entrare nello specifico della nonviolenza, ossia del metodo satyagraha come proposto dai movimenti gandhiani. Ciò significa che non si tratta di non rompere le vetrine durante un corteo pacifico, ma di appropriarsi di un metodo complessivo di azione che ha propri principi, strategie (nel senso di agire su più strati), tattiche e tecniche;
2) passare dal dire nonviolenza al fare nonviolenza. Ossia cominciare a praticare ciò che scriviamo sui nostri documenti, considerando che nella suddivisione dei saperi – sapere, saper essere, saper fare – in ambito lillipuziano siamo probabilmente abbastanza concentrati sui primi due (di più sul secondo che sul primo), ma assolutamente in ritardo sul terzo, cioè sul saper fare nonviolenza;
3) avviare seri e diffusi percorsi di formazione teorico-pratica alla nonviolenza.
L’insieme di queste tre condizioni ci consentirebbe di acquisire la nonviolenza come metodo, ossia di passare da una dimensione puramente ideale della nonviolenza ad una metodologica. Perché la nonviolenza è metodo ed è metodo sperimentale, nel quale la teoria si confronta sempre con la pratica e in questo confronto il metodo stesso evolve, arricchendosi di sempre nuove dimensioni e producendo imprevedibili risultati.
I Gruppi di Azione Nonviolenta possono diventare lo strumento lillipuziano per l’uso consapevole e complessivo del metodo nonviolento.
Denominare GAN i nascenti gruppi lillipuziani, che s’affacciano oggi sulla strada della nonviolenza, significa non partire da zero – vizio spesso diffuso nei nostri gruppi e movimenti - ma riallacciarsi ad una storia che è all’origine della diffusione in Italia della nonviolenza attiva. Infatti, nella nonviolenza italiana GAN non è una sigla nuova: nei primi anni ’60 un gruppo di sei giovani di diverse città, coordinati da Pietro Pinna, diedero vita al primo Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta che sparse i semi per l’introduzione anche in Italia delle tecniche di azione nonviolenta, già da tempo sperimentate all’estero. Il gruppo confluì poi nel nascente Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini (2).
L’obbiettivo è quello di avere nei prossimi anni un GAN per ogni nodo Lilliput, allo scopo di poter mettere in campo una vera strategia lillipuziana, reticolare e nonviolenta.
Lillipuziana: perché si attiva dal basso, dai territori locali nei quali si comunica a viso aperto con i propri concittadini, utilizzando al meglio la dimensione comunicativa delle azioni dirette nonviolente, e dove si può lavorare concretamente ed efficacemente alla realizzazione dei programmi costruttivi;
reticolare: perché la costituzione dei GAN presso i nodi consente di sviluppare una rete di attivisti diffusa su buona parte del territorio nazionale capace, se opportuno o necessario, di attivarsi anche sincronicamente;
nonviolenta: perché usa il metodo nonviolento come propria specifica modalità di attivazione, gestione e trasformazione dei conflitti, ed in particolare le azioni dirette nonviolente.
Il Gruppo di Lavoro Tematico Nonviolenza e conflitti indica ai nodi i seguenti quattro possibili ambiti d’intervento dei GAN, quattro possibili piste di lavoro o sentieri da esplorare, che non ne esauriscono le possibilità ma propongono dei punti di avvio.
"- i GAN sarebbero lo strumento di azione attraverso il quale le campagne lillipuziane possono agire con il metodo nonviolento, attivando, tra l’altro, la gandhiana "legge della progressione" che prevede il passaggio graduale dalle forme più blande di azione a quelle via via più incisive e radicali fino alla realizzazione dell’obbiettivo essenziale stabilito, per passare poi ad un nuovo obbiettivo…;
- i GAN agirebbero, nei propri territori, sulle conseguenze nel tessuto locale dei fenomeni globali, attivando un conflitto sul tema più sentito nelle proprie comunità con il metodo nonviolento che prevede parallelamente l’azione diretta ed il "programma costruttivo";
- una rete di GAN diffusa sul territorio nazionale sarebbe di fatto un presidio democratico di fronte alle involuzioni autoritarie alla quale stiamo assistendo in Italia, e non solo, una volta acquisite le capacità di attivarsi come "difesa popolare nonviolenta" da un aggressore interno alle istituzioni democratiche.
- i GAN potrebbero divenire gruppi d'appoggio e di supporto per i Corpi Civili di Pace in missione in situazioni di guerra.”
Naturalmente tutto ciò potrà avvenire solo nella misura in cui i nodi ed i singoli lillipuziani decideranno di dare testa e gambe a questo progetto, all’interno delle realtà locali. Ricordando che la Rete Lilliput, e dunque di tutti noi, ha una doppia responsabilità: una responsabilità nei confronti degli altri movimenti, che hanno delle attese rispetto alla nonviolenza che la Rete ha avuto il coraggio di scegliere e proclamare, e adesso deve fare e dimostrare; una responsabilità verso la deriva violenta del conflitto strutturale in corso, che se non proviamo a trasformare noi in senso nonviolento, e prima che sia troppo tardi, nessun altro, almeno in Italia, potrà farlo.
· GAN: Gruppi di appoggio ai Corpi Civili di Pace all’estero?
di Lisa Clark, Beati i Costruttori di Pace
Il gruppo ha cominciato cercando di fare chiarezza al suo interno su cosa si intendesse per "Corpi Civili di Pace", visto che c'erano chiaramente percezioni diverse. Cosa sono i Corpi Civili di Pace?
Un insieme di persone che, in modo organizzato, con la nonviolenza, agiscono prima, durante e dopo un conflitto armato per prevenire, ridurre gli effetti e la durata del conflitto stesso e per favorire la riconciliazione. Esiste la nozione ed il progetto per un Corpo Civile di Pace istituzionalizzato, proposto tra gli altri da Alex Langer ed approvato in risoluzioni del Parlamento Europeo. Molto lavoro è stato fatto verso la creazione di Corpi Civili di Pace inquadrati nelle istituzioni, ma ad oggi c'è poco di concreto. Nel quadro di questo processo, nel gruppo di lavoro si è espresso il timore che i CCP possano presentare il rischio di una eccessiva professiona-lizzazione, perdendo uno degli elementi caratterizzanti l'intervento dei civili nei conflitti, e cioè la vicinanza con la popolazione civile. Inoltre, è necessario che qualsiasi ipotizzata forma di CCP "ufficiali" possano godere di totale autonomia decisionale ed operativa rispetto alle tradizionali forme di intervento statuale nei conflitti armati (cioè Forze Armate, Forze di Polizia), pur mantenendo rapporti di collaborazione con queste.
Una misura che potrebbe essere introdotta, nel frattempo, per favorire l'azione di CCP organizzati da realtà di società civile è di offrire sostegno istituzionale ad associazioni e gruppi di volontari (es: concessione di aspettativa dal posto di lavoro, ecc.). Ma, se il progetto per i CCP istituzionali fatica ancora a concretizzarsi, esistono molte esperienze, passate e in corso, di corpi civili di pace dal basso (che chiameremo i "ccp" minuscolo). Sulla base di questi, abbiamo cercato sinteticamente di tracciare le caratteristiche che un intervento di "ccp" deve avere.
Intervento di "ccp" formati da internazionali, cioè persone esterne al conflitto:
- devono essere "chiamati" ad intervenire da una o più delle parti coinvolte; non possono imporsi dall'esterno senza che l'intervento sia in qualche modo richiesto; anche se sono "chiamati" solo da una parte, devono rapportarsi con tutte le parti, anche semplicemente informando del proprio lavoro, senza cioè richiedere specifiche autorizzazioni, ma mai lavorando in modo "nascosto" o clandestino;
- l'intervento dovrà essere caratterizzato dai principi della nonviolenza;
- condivisione dello stile di vita della popolazione locale;
- le azioni che i "ccp" possono compiere sono molte e varie: accompagnamento di popolazioni, interposizione tra forze contrapposte, intercessione (dare voce ad una parte debole nel rapporto con una parte forte), protezione di luoghi anche simbolici, vigilanza di confini o aree di demarcazione, aiuto al dialogo tra le parti, monitorare il rispetto di diritti umani e di accordi, informazione verso l'esterno, azioni di lobbying nei confronti di istituzioni locali, nazionali, internazionali;
- il rapporto con le parti in conflitto dovrà essere il più possibile al di sopra delle parti e nell'interesse superiore della risoluzione del conflitto in corso, senza per questo ritrarsi dalla denuncia di situazioni di oppressione da una parte o dall'altra; la posizione dei "ccp" si può descrivere come "non-partigianeria";
- i "ccp" possono essere composti da poche persone per operazioni di formazione di persone del luogo, per aiuto al dialogo, per intercessione, riconciliazione, ecc.;
- i "ccp" possono anche essere formati da grandi numeri per realizzare delle iniziative simboliche, azioni nonviolente, ecc.
Sono state citate ed esaminate molte esperienze, tra cui: presenze ed azioni di Operazione Colomba, Beati i costruttori di pace, Balkan Peace Team, Gulf Team, Mennoniti, Christian Peacemaker Teams, PBI, Voices in the Wilderness, Ambasciata di Pace, Donne in Nero, Un ponte per ... Action for Peace, Berretti Bianchi e le grandi manifestazioni come Sarajevo 1, Mir Sada, Anch'io a Bukavu, Kosovo "I Care!" 1998. Esistono anche gli interventi di "ccp" composti da elementi delle società civili interne al conflitto in corso, gruppi che si fanno promotori di pace, famiglie delle vittime, ecc.
Emerge da questo quadro l'importanza del collegamento tra esterno ed interno, con il ruolo cruciale che possono svolgere i gruppi di appoggio all'esterno per fungere da catalizzatori, mediatori, ponti ecc. L'efficacia di ogni forma di "ccp" dipende molto dall'attività dei gruppi di appoggio locali.
Si ribadisce che per qualsiasi intervento di "ccp" è importante avere dei momenti di formazione ad hoc.
Nella seconda sessione, il gruppo di lavoro ha cercato di sintetizzare quali debbano essere i compiti dei gruppi di appoggio locali (in Italia, cioè) ai "ccp" operanti all'estero. Il coordinamento del lavoro all'estero dei "ccp", cioè la preparazione dei volontari, la raccolta fondi, lo sviluppo delle linee guida e degli obiettivi politici, viene portato avanti a livello contralizzato dal raggruppamento di associazioni o movimenti che promuovono l'intervento, ma c'è un importante ruolo anche per gruppi locali d'appoggio:
- fare informazione sul progetto e tessere contatti con i media;
- sostegno morale (comunicazione con i volontari, ma anche diffondere le comunicazioni dei volontari);
- sostegno finanziario (raccolte fondi locali),
- reclutamento di volontari e formazione di base (quella ad hoc dovrà essere gestita dal coordinamento promotore);
- azioni dirette nonviolente per fare informazione;
- manifestazioni fatte con creatività, forme nuove di fare informazione;
- sensibilizzazione della società civile (tutta);
- azioni di lobbying nei confronti delle autorità locali;
- contribuire alle azioni di lobbying lanciate dal coordinamento promotore (fax, e-mail, lettere alle istituzioni nazionali ed internazionali).
Dal lavoro del gruppo emergono le seguenti raccomandazioni:
1. Necessità di un coordinamento a livello nazionale per le diverse aree di intervento.
2. Importanza di proporre all'Assemblea Nazionale della Rete di Lilliput la partecipazione al coordinamento "Verso i Corpi Civili di Pace".
3. Cercare di trovare spazi validi per le tematiche della nonviolenza nel prossimo ESF di Firenze senza disperdersi.
SOCIAL FORUM EUROPEO, WORKSHOP SU CCP
Firenze 8 novembre 2002
· Civili e Costruttivi: I Corpi di Pace a Firenze
Uno dei workshop del Social Forum rilancia i Corpi Civili di Pace
di Alessandro Rossi, Centro Studi Difesa Civile
Gestione costruttiva dei conflitti, Parlamento Europeo, Alexander Langer, scarsità di risorse per gestire la riconciliazione. Queste alcune delle parole chiave emerse dall’introduzione del Prof. Alberto L’Abate al workshop dello European Social Forum di Firenze sui Corpi Civilidi Pace, lo scorso 8 novembre 2002.
Il workshop, organizzato da Associazione per la Pace e Centro Studi Difesa Civile (CSDC), ha mirato, nelle parole del conduttore Alessandro Rossi, “a rafforzare la rete di individui e organizzazioni che cercano di aumentare gli spazi per la gestione nonviolenta dei conflitti, in un circolo virtuoso che parta dalla ricerca passi per la formazione e si traduca nell’intervento dal basso sia locale che internazionale arrivando a conseguire anche uno spazio istituzionale”.
Dal dibattito sono emersi anche segni di speranza e alcune piste di un possibile lavoro e congiunto con i coordinamenti internazionali che intervengono in modo costruttivo all’interno dei conflitti:
1- lo European Network of Civil Peace Services, il coordinamento europeo dei “servizi civili di pace”, che mantiene vivo lo scambio tra le esperienze di intervento civile dal basso e della relativa formazione, e che mira a un progetto comune a Cipro il prossimo anno;
2- la European Platform for Conflict Prevention and Transformation, una grande piattaforma europea che raccoglie circa ducento organizzazioni e che mira, grazie a un forte peso accademico, anche a influenzare le politiche europee in materia;
3- la Nonviolent Peace Force, lanciata nel 1999 in occasione dell’Appello Mondiale per la Pace (in cui centinaia di organizzazioni si sono date l’obiettivo di rendere la guerra alla fine del XXI secolo uno strumento obsoleto) e che mira ad organizzare, indipendentemente dalla disponibilità di fondi pubblici un corpo di intervento civile nei conflitti; la nascita ufficiale a livello mondiale dell’organizzazione avverrà a fine mese in India e l’Italia sarà rappresentata dal pof.Francesco Tullio (presidente onorario del CSDC), e da Maria Carla Biavati (rappresentante dei Berretti Bianchi).
Se a ciò aggiungiamo le battaglie nelle istituzioni europee per i Corpi Civili di Pace e per una coerente politica UE per la prevenzione dei conflitti armati (per la quale ora la Commissione ha istituito uffici propri) di vie da percorrere per un lavoro comune ce ne sono molte.
“Un’alternativa alla guerra è possibile! Ciascuno di noi può fare qualcosa”
Roma 20/11/2002
· Riflessione sulla Formazione
alla luce dell’incontro del 23 febbraio 2003 a Firenze
a cura del Centro Studi Difesa Civile
Per quanto il Forum Sociale Europeo di Firenze abbia risvegliato in molti una coscienza critica e una esigenza di rinnovato impegno sociale, è pur tuttavia evidente che tale impegno non può che passare attraverso una maturata chiarezza del proprio dissenso critico per poter poi davvero modificare positivamente la realtà. E quindi proprio dal radicamento locale, come dall’attenta lettura dei contesti territoriali e culturali è indispensabile partire per giungere ad una azione nonviolenta che miri al cambiamento politico e sociale. Il progetto di formazione si propone per questo, anche agli stessi formatori, come occasione di ‘insediamento’ dei loro saperi nei ‘saperi del luogo’, in un intreccio che non dovrà limitarsi ad un intervento tecnicamente competente, ma capace di sostare nelle culture delle persone che hanno scelto di convocarli.
Di certo mai come in questo momento emerge un bisogno diffuso di formazione alla nonviolenza attiva e mai come ora, dentro questo stato di guerra infinita, cresce e si manifesta l'urgenza di una riflessione comune e coordinata di tutti i formatori. La nascita e lo sviluppo dei movimenti locali e globali che manifestano la loro protesta contro la monocultura del mercato e propongono alternative di vita improntate all'ecologia e alla giustizia sociale, attraverso l'elaborazione di strategie orientate alla pace e alla nonviolenza attiva, ci invitano quotidianamente ad un impegno rinnovato. Rispetto al passato l'interesse alla nonviolenza appare più diffuso ed attraversa persone, generazioni, aree di riferimento diverse da quelle coinvolte dai movimenti nonviolenti della tradizione (basti pensare ai lillipuziani, alle donne, ai disobbedienti ecc.). L’attenzione alle differenze di genere e alle dimensioni interculturali delle comunicazioni e delle relazioni, anche e soprattutto tra formatori e formatrici, appare essenziale. Il confronto, lo scambio, la condivisione delle differenze e delle distinzioni, insieme alla capacità di riconoscere affinità ed analogie, dovranno essere elementi costitutivi del nostro stile di lavoro comune. La ‘biodiversità’ del movimento ci chiama ad un’attenta ricerca delle dimensioni trasversali della formazione, in particolare quando il nostro impegno sarà rivolto a, o richiesto da, aree non provenienti dalla “tradizione nonviolenta,, quali ad esempio quella che fa riferimento a gran parte dei Social Forum e dei ‘disobbedienti’.
Partire dai bisogni personali e quotidiani, imparare a mettersi in gioco con tutto noi stessi, col corpo e con la mente, ad agire in prima persona, rivendicando la nostra ‘cittadinanza attiva’ contro qualunque violenza (diretta, strutturale e culturale), elaborando ed esprimendo progetti costruttivi ed alternativi che guardano ad un ‘altro mondo possibile’.
Le richieste formative che giungono da varie parti d'Italia derivano, a nostro avviso, sia dalla esigenza di un rinforzo positivo al dissenso, di fatto sempre più represso ed occultato dall'informazione ufficiale, sia dalla reale assenza, su scala nazionale, di una corrispettiva modalità organizzata di risposta.
ESPERIENZE E PROPOSTE
· Per una Strategia Lillipuziana Reticolare e Nonviolenta:
i Gruppi di Azione Nonviolenta
di Pasquale Pugliese, Gruppi di Azione Nonviolenta di Rete Lilliput
Un mondo in crisi.
L’11 settembre 2001 a New York non sono solamente morte 5000 persone, ma si è manifestata, in maniera tragica e simbolica, la crisi del sistema-mondo che l’Occidente ha costruito.Un sistema nel quale la minoranza ricca – della quale facciamo parte noi tutti - sperpera l’86 % delle risorse del pianeta costringendo alla morte, nel silenzio e nel buio delle televisioni, 35.000 bambini al giorno per fame; nel quale 200 persone possiedono una ricchezza pari a circa il prodotto globale lordo della metà più povera dell’umanità e nel quale ci illudiamo follemente di garantire la sicurezza non attraverso la giustizia per tutti ma la difesa militare dei privilegi per pochi. La risposta dei governi alla crisi è la guerra, che è tutta interna ed anzi aggrava la crisi stessa. La guerra ha come obbiettivo non certo di sconfiggere il terrorismo - è piuttosto il modo più efficace per alimentarlo - ma di garantire all’Occidente, ed agli USA in primo luogo, per qualche anno ancora, gli ultimi rifornimenti di petrolio dell’Asia centrale, prima che la “crisi sistemica globale”, innescata dall’esaurimento dei pozzi, entri nella fase acuta e faccia crollare, con una violenza infinite volte superiore a quella delle Due Torri, il mondo che abbiamo costruito sul profitto e sulla crescita (1). Ed i governanti del mondo, assolutamente irresponsabili, si preoccupano di terminare il proprio mandato elettorale garantendo, ai già garantiti, qualche altro anno di illusione di benessere, incuranti del muro dell’insostenibilità sociale ed ambientale contro il quale stanno portando velocemente - d’accordo con i decisori economici delle istituzioni internazionali e della multinazionali - a impattare l’umanità e il pianeta.
Le responsabilità dei popoli di Seattle, Porto Alegre e Genova
Di fronte alla incapacità imbelle di leggere i segni di crisi - mista alla volontà di perseverare sulle strade della violenza strutturale del sistema e della violenza diretta della guerra a sua difesa - da parte delle élite elette e non elette, la responsabilità di agire rimane tutta ai popoli della terra i quali, in questi anni, pazientemente, hanno costruito quel “movimento dei movimenti” che ha visto la sua emersione a Seattle e poi via via tutta una serie di mobilitazioni internazionali - passando per l’appuntamento costruttivo di Porto Alegre - fino alla contestazione del G8 di Genova nel luglio scorso (2).
Il conflitto sociale ed ecologico, che ha costantemente accompagnato il capitalismo in tutta la sua costruzione ed espansione, è dunque nuovamente assunto ed agito nelle strade e nelle piazze da parte di coloro che operano la resistenza alla sua violenza e ne costruiscono e, in molti casi, praticano le alternative. Oggi la posta in gioco è altissima e sempre più chiara e ravvicinata, ne va del futuro della terra e dei sui abitanti. Pertanto il movimento di lotta in atto non può permettersi di fallire nel suo obbiettivo di trasformare in senso nonviolento le strutture profonde, economiche e culturali, della società. Ma con i fatti di Genova - nella loro drammaticità e con le dolorose ferite fisiche e morali ancora aperte - il movimento è entrato nella fase acuta del conflitto. Nella fase in cui maggiormente corre, da un lato, il rischio di involuzione verso derive violente, oltretutto inefficaci e controproducenti e, dall’altro, specularmente, il rischio della criminaliz-zazione e della repressione feroce e illiberale. Entrambi i rischi possono condurre alla fine del conflitto, all’azzeramento del movimento e delle sue speranze di cambiamento, al peggioramento complessivo delle condizioni dell’ambiente e degli umani al Nord come al Sud, al via libera definitivo alle guerre per il petrolio prima, per l’acqua poi e di tutti contro tutti, infine, senza più nessun argine di resistenza e alternativa politica.
Servitù volontaria e sistema capitalista
Se già nel ‘500, come ci ricorda Gene Sharp (3), Etienne de La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria, ha evidenziato come le vere radici del potere stanno nella “complicità” di chi lo subisce, questo è ancor più vero oggi, in Occidente, nel sistema di capitalismo avanzato. Il sostegno principale al sistema non è dato tanto dall’esercito o dalla polizia quanto da quel venti per cento di cittadini del mondo ricco che da un lato dissipa le risorse economiche, ecologiche ed energetiche di tutti e dall’altro comincia a pagarne le conseguenze (mucche pazze, ogm, cambiamento climatico, insicurezza sociale, terrorismo ecc.).
“Il capitalismo è sostenuto più dall’adesione passiva che dalla forza. - spiega Brian Martin - Nelle società capitalistiche le persone vivono la loro vita quotidiana invischiate in una rete di credenze e di piccole azioni che costantemente ripresentano loro ciò che è possibile e desiderabile. Quando la gente consuma un pasto pronto, vede e ascolta la pubblicità, indossa abiti firmati, aspira a ulteriori possessi materiali e si adatta a competere in un mercato del lavoro rigido, ecco che si trova coinvolta in comportamenti e sistemi di credenze che riflettono e riproducono uno stile di vita dominato dal capitalismo. Se molti disobbedissero alle leggi, l’intervento della polizia o dell’esercito potrebbe essere controproducente o inutile, ma il fatto è che quasi tutti si adeguano al sistema, anche coloro che gli sono contrari. Si tratta dunque di elaborare una politica che distrugga le credenze del capitalismo e che dia impulso ed espansione a una nuova sfida”(4).
Ed esattamente questa è la sfida che ha di fronte il “movimento dei movimenti”: Continuare a rincorrere i vertici dei potenti, trasformati ormai in abili trappole, agendo un conflitto di piazza aspro, ed anche violento, che rimane in superficie perché tende a polarizzarsi nello scontro con le forze dell’ordine - consentendo alla gente di rimanere spettatrice di qualcosa che, sostanzialmente, sente lontano, estraneo e non capisce - oppure avviare una trasformazione del conflitto in senso nonviolento, meno spettacolare, forse, ma che mira più in profondità perché alla ricerca della comunicazione efficace con tutti, avendo come interlocutori principali i cittadini, terze parti fondamentali nel confronto tra il movimento ed il potere - perché di esso sono appunto il puntello - attraverso la messa in campo di strumenti di azione inediti che proprio i cittadini persuadano e coinvolgano sui loro territori.
Una strategia lillipuziana, reticolare e nonviolenta
La Rete di Lilliput è il soggetto politico interno al “movimento dei movimenti” che in Italia ha le carte in regola per provare a trasformare il conflitto in senso nonviolento. La storia delle associazioni aderenti, il radicamento sul territorio di molte realtà che ne costituiscono l’ossatura, l’organizzazione per nodi territoriali, la scelta chiara e definitiva della nonviolenza fanno si che essa possa svolgere, per tutto il movimento, un ruolo delicato ed insostituibile: percorrere la strada stretta che passa tra l’assenza del conflitto agito e la sua degenerazione violenta. Ossia operare la trasformazione e mantenere la gestione nonviolenta del conflitto ecologico e sociale attraverso la strategia che più le è congeniale: lillipuziana, reticolare e nonviolenta.
Si tratta, dopo Genova, di modificare il paradigma del conflitto: passare dalle grandi manifestazioni concentrate ed onnicomprensive alle azioni nonviolente sui territori e su obbiettivi specifici. A tal fine bisogna, per un verso, lasciare modalità di mobilitazione ormai usuali ma sempre più inefficaci o addirittura controproducenti: abbandonare la rincorsa dei vertici dei potenti per uscire dalla subalternità ai luoghi e ai tempi di manifestazione imposti dalle loro agende; uscire dalle logiche della uguaglianza nella diversità, e della contemporaneità, delle forme di lotta adottate a Genova perché le forme che non sono coerentemente nonviolente nei mezzi, nei fini, nella comunicazione, nell’immagine, fanno il gioco del potere; uscire dalla mistica del numero propria delle manifestazioni di massa che, in questa fase, sono il ricettacolo di coloro che intendono sfidare il potere sul piano, reale o simbolico, della violenza a tutto vantaggio di chi vuole criminalizzare il movimento (altro naturalmente è lo spirito ed il senso della marcia Perugia-Assisi). E, per altro verso, utilizzare le sinergie della rete per avviare una trasformazione profonda dei territori locali - dove la gente tutti i giorni vive-produce-consuma - mettendo in campo una strategia complessiva che preveda, nodo per nodo, un programma costruttivo ed un progetto di azioni nonviolente.
Per quanto riguarda il programma costruttivo, se i nodi della Rete Lilliput, che legano insieme soggetti che già operano per la trasformazione del proprio territorio - dalle botteghe del mondo ai coordinamenti per la pace, dalle m.a.g. ai comitati ecologisti, dai movimenti nonviolenti ai gruppi di acquisto solidale ecc. ecc.- lavorassero alla connessione dell’enorme quantità e qualità di competenze, energie e sensibilità che riescono ad esprimere finalizzandole alla realizzazione di progetti forti di cambiamento locali, potrebbero, agendo in rete, incidere in profondità, operando trasformazioni significative nelle pieghe delle nostre e della nostra società(5). “Se un tratto sembra caratterizzare tutte le più nuove ed efficaci azioni di resistenza e di contrasto agli effetti perversi dell’assolutizzazione dell’economia e della globalizzazione finanziaria – scrive a questo proposito Marco Revelli – è che esse muovono, per così dire, <
I Gruppi di Azione Nonviolenta
La strategia di trasformazione nonviolenta del conflitto passa anche attraverso le azioni dirette nonviolente, che fondano la loro efficacia ed incisività sulla capacità di comunicare a più persone le ragioni della propria iniziativa politica acquisendone la simpatia, il consenso ed infine l’alleanza. Esse agiscono tanto sull’avversario – le strutture da trasformare impersonate di volta in volta da coloro nei cui confronti si rivolge l’azione – del quale si cerca il cambiamento, quanto su coloro che si considerano neutrali – inconsapevoli del proprio essere i “servitori volontari” del sistema – dei quali si cerca la persuasione, la “conversione” ed infine la disobbedienza. Dopo la trappola di Genova, le azioni nonviolente possono consentire di tenere insieme la realizzazione degli obbiettivi essenziali con la possibilità democratica di agire liberamente tra la gente, la riduzione al minimo del rischio di degenerazioni violente delle mobilitazioni con la messa del potere nell’impossibilità – o nella difficoltà estrema - di dispiegare il suo apparato repressivo.
La struttura reticolare di Lilliput può garantire, inoltre, una diffusione capillare di azioni nonviolente sui territori che ha il vantaggio di incontrare più cittadini contemporaneamente, a viso aperto, senza la mediazione dei mezzi d’informazione (o dis-informazione) nazionali, e di rivolgersi ad obbiettivi particolarmente importanti per le sensibilità locali. La strada da seguire a questo scopo è la costituzione all’interno di ogni nodo Lilliput di un Gruppo di Azione Nonviolenta (GAN) (7).
Se in ogni città o provincia dove è presente un nodo, un gruppo di lillipuziani si impegnasse in un adeguato programma di formazione alla teoria ed alla prassi del metodo nonviolento e incominciasse a sperimentare delle azioni dirette nonviolente locali, collegandosi progressivamente ai GAN degli altri nodi, svolgendo sempre più azioni coordinate con questi, e magari simultanee, nel giro di qualche anno sarebbe presente in Italia una rete di lillipuziani nonviolenti capaci di attivarsi, con preparazione ed organizzazione, anche per campagne di ampio respiro. E sarebbe giunto il momento di lanciare una grande campagna nonviolenta nazionale - su un nostro tema e con i nostri tempi - condotta finalmente secondo le gandhiana “legge della progressione”, che prevede il passaggio graduale dalle forme più blande di azione a quelle via via più incisive e radicali fino alla realizzazione completa dell’obbiettivo essenziale stabilito(8). Per passare poi ad un nuovo obbiettivo… Poiché per condurre con efficacia un’azione nonviolenta si devono condividere i valori di riferimento, e non solo gli avversari, il programma di formazione dei lillipuziani dovrebbe essere indirizzato non alla semplice acquisizione di un insieme di tecniche - perché la nonviolenza non è un mero strumento che può essere usato per qualunque scopo o applicato come etichetta su qualsiasi tipo di azione - ma alla conoscenza ed all’appropriazione dei principi, della strategia e della tattica, oltre che della pratica, che fondano storicamente e scientificamente il metodo nonviolento. Si tratta di riuscire ad attivarsi efficacemente, insomma, attraverso i GAN e i progetti locali costruttivi, per la trasformazione tanto sul piano del cambiamento personale - nostro e degli altri - quanto su quello politico, tanto sul piano delle dinamiche globali quanto - e soprattutto - sul loro riverbero nel locale e nel quotidiano di tutti.
Infine, la profondità
In un contesto storico come quello attuale – carico di una tale violenza che può paralizzare la capacità critica e l’azione creativa – la scelta da parte della Rete Lilliput di caratterizzare la propria strategia in maniera lillipuziana, reticolare e nonviolenta - attraverso la strutturazione, nodo per nodo, dei programmi costruttivi locali e l’investimento sulla formazione dei Gruppi di Azione Nonviolenta - può non essere compresa e condivisa dal resto del “movimento”, se questo continua a reagire in maniera automatica e rituale agli input esterni. Pazienza, la posta in gioco è talmente importante che ciò che conta è cercare le strade che inducano veramente il cambiamento nel modo di pensare, di vivere e di agire in Occidente, modificandone contemporaneamente i comportamenti individuali e le strutture sociali. Serve dunque impegnarsi - piuttosto che nella ricerca di defatiganti unanimismi di facciata – in accurate modalità di azione che affrontino la complessità delle dinamiche in gioco e rifuggano dalla semplificazione, che incidano in profondità e non si dimenino sulla superficie. Perciò è necessario - e presto - lavorare alla trasformazione del conflitto in senso nonviolento, per riuscire a tenere conto allo stesso tempo dei diversi livelli nei quali si esprime la violenza, della pluralità degli attori coinvolti nel conflitto e della molteplicità delle sue dimensioni. Non è certo una scelta di moderazione, è piuttosto una scelta di azione in profondità che non si arresta alla superficie della rincorsa, a dispersione energetica, degli avvenimenti indotti dagli avversari.
“La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata” scriveva Aldo Capitini molti decenni orsono(9), e parlava dell’oggi.
NOTE
(1)Vedi, tra le altre cose, l’intervista ad Alberto di Fazio La guerra sul treno della crisi petrolifera su il manifesto 17 ottobre 2001 e Massimo Riva La guerra del greggio si fa ma non si dice la Repubblica 23 ottobre 2001;
(2)Cfr. Nanni Salio Persuasi della nonviolenza per sconfiggere ogni terrorismo, Azione nonviolenta n.10/2001;
(3) Politica dell’azione nonviolenta, vol 1, Potere e lotta EGA Torino 1985;
(4)Nonviolenza contro capitalismo, si trova in appendice a Giovanni Salio Elementi di economia nonviolenta quaderni di Azione nonviolenta n.16 Verona 2001;
(5)Cfr Il progetto Lilliput: rete, territorio, nonviolenza elaborato dal nodo Lilliput di Reggio Emilia presente sul sito
(6)Marco Revelli Oltre il Novecento La politica, le ideologie e le insidie del lavoro Einaudi Torino 2001 pag.286 (vedi recensione su Azione nonviolenta 10/2001);
(7)La sigla GAN rievoca il primo GAN (Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta) che vide la luce in Italia nei primi anni ’60, con il consenso di Aldo Capitini e il coordinamento di Pietro Pinna, e che diede impulso alla diffusione nel nostro paese delle tecniche della nonviolenza, già allora ampiamente sperimentate all’estero. Vedi Nonviolenza in cammino. Storia del Movimento Nonviolento dal 1962 al 1992 Edizioni del Movimento Nonviolento Verona 1998;
(8) Vedi M.K. Gandhi Teoria e pratica della nonviolenza Einaudi Torino 1973
(9)Il problema religioso attuale Guanda Parma 1948, pag. 61 (vedi anche Aldo Capitini Toria della nonviolenza quaderni di Azione nonviolenta n. 6 Perugia 1980)
· Proposta per il Corpo Civile di Pace Italiano ed Europeo
di Operazione Colomba
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
L’esperienza di questi anni come Operazione Colomba, e la situazione internazionale ci chiedono oggi un impegno ulteriore per dare vita a strumenti per intervenire dimensionalmente e operativamente più forti, rispetto alla dimensione dei conflitti nel mondo, per costruire una reale alternativa alla crescente legittimazione e utilizzo dello strumento militare come forma di intervento.
Questo impegno interpella prima di tutto il nostro modo di sviluppare il lavoro dei diversi servizi e progetti interni all’Associazione e poi di ricercare e sperimentare in modo sistematico e continuativo forme di collaborazione, cooperazione, collegamento e azione comune con altre realtà nonviolente nell’intervento nei conflitti.
In questa fase storica si afferma progressivamente la filosofia del Nuovo Modello di Difesa e si rilegittima l’esercito come strumento di politica estera al fianco e al servizio degli interessi geopolitici e degli interessi economici e commerciali. Si stà svolgendo una azione di rilegittimazione dell’esercito ed indebolimento o marginalizzazione di forme alternative (almeno poten-zialmente) come pure un’azione politica e culturale di rimozione del concetto di obiezione di coscienza e di alternativa al servizio militare a favore di un’idea di servizio civile funzionale a tale modello di difesa e di esercito. Solo il progetto Caschi Bianchi o pochi altri progetti di servizio civile in Italia non sono funzionali. Nel contempo gli interventi militari mostrano tutti i loro limiti. Esiste una consistente parte della pubblica opinione contraria alla guerra che manifesta pubblicamente, ma è difficile documentare e comunicare l’inefficacia dello strumento militare e la validità di quello civile e nonviolento.
In Italia e in Europa esistono valide esperienze di intervento civile nei conflitti, ma spesso di dimensione ridotta, di basso impatto, raramente coordinate da più soggetti (fatte salve alcune esperienze). Le varie marce di questi anni nei Balcani e in Africa, ma anche in Palestina, mostrano un potenziale che và ampliato nella durata dell’intervento e nell’incidenza sul conflitto. Esistono competenze e conoscenze specifiche in questo universo nonviolento di intervento nei conflitti, come pure capacità formative, che raramente sono messe in comune o in “rete”. La Rete di Lilliput ed i GAN (Gruppi di Azione Nonviolenta)
sono un interessante elemento di lavoro, elaborazione e formazione: una cosa da tenere d’occhio e in considerazione.
Infine non bisogna dimenticare che esiste una normativa sul servizio civile in Italia, molto avanzata e con spunti interessanti di sviluppo.
· Contro la Guerra Cambia la Vita e Organizza i Corpi Civili Di Pace
di Alberto L’Abate, con la collaborazione, per la revisione e messa a punto del testo, di Paolo Bergamaschi, Maria Carla Biavati, Padre Angelo Cavagna, Anna Luisa Leonardi, Silvano Tartarini
PREMESSA
Riceviamo dagli amici della Fondazione Langer, che cerca di portare avanti le idee di questo Parlamentare Europeo, che ci ha lasciati purtroppo alcuni anni fa, ma che è sicuramente il Parlamentare Italiano che ha lavorato di più, in quella sede, per promuovere le vie della pace e della comprensione interetnica, questo suo scritto del 1991, che ci sembra di estrema attualità e che riprendiamo qui in alcune sue argomentazioni che interessano il progetto della costituzione di un coordinamento di ONG che cercano di dar vita, nel nostro paese, ad un vero e proprio “Corpo Civile di Pace”. Il titolo dell’articolo, pubblicato in "Terra Nuova Forum" di Roma è:
“Contro la guerra cambia la vita”.
Eccone alcune citazioni:
“Contro la guerra, cambia la vita: le guerre scoppiano "a valle", quando tutta una infausta concatenazione di soprusi, violenze e fallimenti si è già prodotta e sembra diventata irrimediabile; i popoli, la gente comune, sono poi chiamati a pagare il conto finale senza aver potuto intervenire sulle singole voci che lo hanno via via allungato. Ma dinanzi al fallimento della politica e della negoziazione, che sfocia nella guerra, bisognerà pur rafforzare gli "anti-corpi" a disposizione di ogni singola persona per prevenire le guerre e per non lasciarsene, comunque, catturare, una volta che sono scoppiate. Se tutto uno stile di vita (consumi, produzioni, trasporti, energia, banche...) nel quale siamo largamente coinvolti, per potersi perpetuare, ha bisogno di condizioni assai ingiuste che regolano le relazioni tra i popoli e con la natura, bisognerà dunque intervenire "a monte" e mettere in questione la nostra partecipazione (anche individuale) ad un "ordine" economico, politico, sociale, ecologico e culturale che rende necessarie le guerre che lo sostengono. Se il consenso alla guerra (sotto forma di nazionalismi, razzismi, pregiudizi, stereotipi, ecc.) può con tanta facilità diventare maggioritario - non certo soltanto tra "fondamentalisti islamici"..! - si dovrà intervenire anche qui "a monte" ed allargare una solida base ideale e culturale di disposizione alla pace ed alla convivenza, disintossicando cuori e cervelli. Se è considerato scontato che, una volta scoppiata la guerra, non resta che allinearsi ed arruolarsi (materialmente e culturalmente), bisognerà pur che qualcuno lavori per suscitare e consolidare scelte di "obiezione alla guerra". Sono dunque tante le forme di azione che si possono scegliere per "cambiare la vita di fronte alla guerra", nel senso di negarle ogni consenso e sostegno e nel senso di farle mancare - ognuno - almeno un pezzettino di apparenti giustificazioni……Ne provo ad indicare quattro, di cui mi sembra ci sia bisogno (potendoli qui appena accennare, naturalmente)
1) sviluppare l'arma dell'informazione e della disarticolazione della compattezza derivante da repressione, disinformazione, censura; perché non "bombardare" con trasmissioni radio e TV, con volantini, con documentazione, piuttosto che con armi? ("Radio Free Europe" o "Radio Vaticana" hanno fatto probabilmente di più per la destabilizzazione dei regimi dell'Est che non le divisioni della NATO). Perché non fornire supporti ed aiuti ai gruppi impegnati nei diversi regimi totalitari per i diritti umani, piuttosto che fornire armi agli Stati che un giorno si spera facciano loro la guerra?
2) costituire e moltiplicare gruppi/alleanze/patti/tavoli inter-etnici, inter-culturali, inter-religiosi, di dialogo e di azione comune, piuttosto che dialogare solo da campo a campo o da blocco a blocco; è l'abbattimento dei muri, o perlomeno lo sforzo di renderli penetrabili (vedi l'esperienza inter-etnica dell'"altro Sudtirolo"!). Oggi uno dei "buchi neri" in questa crisi è l'assenza di forti legami inter-culturali ed inter-etnici tra arabi ed israeliani, tra Europa e mondo arabo, tra Cristianesimo ed Islam; non sono quindi da disprezzare anche modesti strumenti quali i "gemellaggi" tra Comuni, Regioni, associazioni, ecc., che avvicinano concretamente i popoli e rendono più difficile il consenso a "bombardare l'altro" (che si accetta di bombardare tanto più quanto meno lo si conosce);
3) lavorare seriamente per un nuovo diritto internazionale e per un nuovo assetto dell'ONU, basato oggi non solo sugli esiti della seconda guerra mondiale (con le sue "Grandi Potenze", i loro diritti di veto, ecc.), ma anche su un concetto ed una pratica di "sovranità degli Stati" poco consono al destino comune dell'umanità. La tradizionale distinzione tra "affari interni" che esigono la non-ingerenza degli altri (per cui torture e massacri non riguardano la comunità internazionale, finché non scoppia un contenzioso tra almeno due Stati) ed "internazionali" non regge alla prova delle emergenze ecologiche, né dei diritti umani;
4) chiedere all'ONU di promuovere una sorta di "Fondazione S.Elena" (nome dell'isola in cui alla fine fu esiliato Napoleone, tra gli agi e gli onori, ma reso innocuo), per facilitare ai dittatori ed alle loro sanguinarie corti la possibilità di servirsi di un'uscita di sicurezza prima che ricorrano al bagno di sangue pur di tentare di salvarsi la pelle (Siad Barre, Ceausescu, Marcos, , il re del Marocco, Saddam Hussein... potrebbero o potevano utilmente beneficiarne piuttosto che giocare il tutto per il tutto) ; la questione di amnistie e indulti per chi è abbastanza lontano ed abbastanza vigilato da non poter più fare danni, non dovrebbe essere insolubile”.
Ma il fallimento dei tentativi di evitare la guerra del Golfo, la riflessione sulle cause della guerra Jugoslava e sulla sua possibile prevenzione, ed i tentativi di Alex stesso di evitare quella guerra, lo porteranno, alcuni anni dopo, a sostenere una quinta forma di azione, e cioè la creazione di un “Corpo Europeo Civile di Pace”, ben preparato all’azione diretta nonviolenta, ed alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, che potesse intervenire prima, durante e dopo, lo scoppio dei conflitti armati, per prevenirli, interromperli attraverso forme di interposizione nonviolenta tra gli avversari per riprendere il dialogo e la negoziazione, oppure per lavorare dopo la guerra per la riconciliazione degli ex-nemici. Un suo emendamento al rapporto Bourlange-Martin sull'argomento fu approvato dal Parlamento Europeo il 17 maggio. Dopo di allora il Parlamento Europeo ha approvato varie altre mozioni per stimolare attività ed interventi per la prevenzione dei conflitti armati, e per richiedere l’istituzione di tali Corpi, in particolare la raccomandazione al Consiglio del 10 febbraio 1999. Ma la situazione è tuttora ferma perché la cultura prevalente privilegia ancora una volta i mezzi militari nei confronti di quelli non militari spesso consentendo agli eserciti di accaparrarsi funzioni che tradizionalmente appartengono ai civili e che da questi potrebbero essere svolte in modo più appropriato ed efficace. Ma questo dimostra la scarsissima comprensione dell’importanza e delle funzioni di un corpo del genere. Infatti in un convegno su questo tema tenutosi presso la sede del Parlamento francese, alla presenza anche di rappresentanti di quel Ministero della Difesa, è emerso chiaramente come l’intervento militare e quello civile seguono logiche completamente diverse e che, pur mantenendo zone di complementarietà, devono mantenersi autonomi l’uno dall’altro. In caso contrario le possibilità della prevenzione di un conflitto armato, o di trovare valide soluzioni accettabili dalle due parti, da parte dell’intervento civile, rischia di essere molto compromessa, come dimostra anche una analisi di esperienze storiche passate. Per questo riteniamo opportuno fare una breve storia della nascita e delle attività di organismi non istituzionali e istituzionali che hanno lavorato in questa direzione sperando che possa servire a superare i tanti personalismi e le varie chiusure tra le numerose ONG del nostro paese che rendono difficile l’organizzazione di corpi di questo tipo che possano avere risultati reali ed anche un loro riconoscimento istituzionale.
· I Corpi Civili di Pace
di Alberto Labate, Berretti Bianchi
Il secolo ventesimo è stato uno dei secoli della storia del nostro mondo più tormentati dal fenomeno guerra. Infatti i morti a causa delle guerre sono stati più numerosi di tutti quelli dei secoli precedenti messi insieme. Non può meravigliare perciò che in questo secolo si sia cominciato, più seriamente che nel passato, a pensare su come “eliminare la guerra dalla storia”, ed a cercare i metodi per prevenire e risolvere pacificamente i conflitti armati. Ma questo non significa che anche in passato non ci siano stati pensatori, e movimenti sociali, che abbiano fatto riflessioni importanti, o che abbiano agito, per dar vita ad un mondo più giusto, meno funestato da questo problema. Oltre ai fondatori di molte religioni, che hanno sottolineato la sacralità della vita umana, e l’obbligo morale di non uccidere il nostro prossimo, anche se ci si restringe a prendere in analisi il mondo Occidentale, ci sono stati pensatori come Erasmo da Rotterdam che, nel suo “Elogio della Follia”, mostra la stupidità e l’assurdità del ricorso alla guerra ed alla violenza; o come Kropotkin che, nel suo “Il mutuo appoggio”, attraverso una lettura attenta e precisa dei testi di Darwin, contesta l’interpretazione corrente del darwinismo sociale che la sopravvivenza degli esseri umani sia legata all’uso della forza e della violenza, sostenendo invece che gli esseri umani ed animali che sopravvivono sono quelli che hanno una maggiore capacità di collaborare con gli altri; o come Kant, che, nella sua “Per la pace perpetua” cerca di immaginare ed anticipare un mondo senza guerra, basato sul rispetto reciproco degli esseri viventi, e sull’organizzazione e sul riconoscimento di un governo mondiale tipo quello che, nei tempi più recenti, si costituirà prima come “Lega delle Nazioni”, e più tardi come “Nazioni Unite”. E vari gruppi sociali, come i Dukobori in Russia, i Quaccheri in Inghilterra e negli USA, hanno seguito l’esempio dei primi cristiani che si rifiutavano di prendere le armi e di combattere per uccidere il loro prossimo, e hanno dato inizio ad un movimento, che presto si estenderà a livello mondiale, di Obiettori di Coscienza all’uso delle armi ed alla coscrizione militare obbligatoria, e hanno sviluppato idee e pratiche di nonviolenza attiva.
Ma è sicuramente in questo secolo che questo modo di pensare e di agire si è trasformato in azione politica nonviolenta, portata avanti anche da popolazioni intere (in India, negli USA, nelle Filippine, nei paesi dell’EST, ecc.) con risultati spesso notevolissimi, di liberazione dal colonialismo, o di superamento di leggi che sancivano forme di discriminazione razziale e di apartheid, oppure di abbattimento di dittature militari e di apertura invece a forme democratiche, ecc.. Ma quella che è diventata la superpotenza mondiale, gli USA, con i suoi vassalli e con l’appoggio dei costruttori e venditori di armi (i mercanti di morte) , sta cercando di reagire al movimento che cerca di mettere la guerra fuori dalla storia (sostituendola con lotte nonviolente di massa molto forti contro le ingiustizie, contro i crimini e gli sfruttamenti, e per la libertà dei cittadini, e con progetti costruttivi per dar vita ad un mondo più giusto) mantenendo in vita il concetto di guerra “giusta”, che invece molti studiosi considerano ormai desueta anche perché l’uso delle armi nucleari e simili mettono in pericolo la sopravvivenza dello stesso pianeta. I nomi trovati in questa affannosa ricerca di giustificazione delle guerre , ma che dimostrano grossi sforzi di immaginazione, sono quelli di “guerra umanitaria”, “libertà perenne”, “guerra preventiva al terrorismo”. Peccato che le serie ricerche per la pace di questi ultimi anni abbiano dimostrato che la cosiddetta “guerra umanitaria” del Kossovo avrebbe potuto essere prevenuta con risultati molto più validi, e che spesso sotto quei nomi altisonanti si nascondono interessi strategici ed economici, per il controllo di aree cosiddette a rischio, o per lo sfruttamento delle fonti energetiche ed il controllo dei corridoi per il loro trasporto.Bush ed i suoi attuali alleati sostengono inoltre che la guerra che stanno preparando contro l’IRAQ, è necessaria per “far rispettare e mantenere le risoluzioni delle Nazioni Unite, con il rischio, in caso contrario, di perdita di prestigio di questo Organismo”. Purtroppo il cosiddetto rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite in funzione della credibilità di questa organizzazione, cozza con il fatto che contro le 12 risoluzioni ONU non rispettate dall’Iraq ce ne sono 30 non rispettate invece da Israele, e che i tentativi di fare rispettare queste ultime hanno sempre incontrato il veto degli USA. Inoltre è anche in contrasto con il fatto che la risoluzione dell’ONU n. 687 richiede che tutto il Medio Oriente, e non solo l‘IRAQ, sia una zona libera da armi di distruzione di massa, mentre, al contrario, Israele continua ad averle, né gli USA muovono un dito nei suoi confronti: Per di più gli USA, se rispettassero veramente le N.U., salderebbero regolarmente i propri debiti questo organismo, mentre questo avviene solo quando questo governo ricatta le Nazioni Unite per ottenere risoluzioni a sé favorevoli, oppure quando trova chi li paga per suo conto, come ha fatto il “padrone” della CNN di tasca propria. Oltre a questo è da aggiungere che la pretesa che la guerra in preparazione contro l’IRAQ , motivata come guerra preventiva contro il “terrorismo”, riesca realmente a sgominare questo fenomeno, cozza con il fatto che tutte le più valide ricerche per la pace hanno dimostrato abbondantemente che questa guerra, invece di distruggere il terrorismo, lo rinfocola e ne estende l’uso, tanto da rendere la vita delle popolazioni dei paesi occidentali, che propugnano questa guerra, sempre più incerta ed insicura a causa delle sue minacce.
In questa ricerca di alternative credibili alla guerra ed alla violenza armata, sta prendendo piede, a livello politico, l’idea di organizzare quello che Gandhi aveva definito un “Esercito di Pace”. E cioè nuclei di persone ben preparate all’intervento nonviolento (prima, durante e dopo un conflitto armato) che lavorino per la prevenzione ed il superamento dei conflitti armati. Il primo esercito di pace, lo Shanti Sena, su ispirazione di Gandhi, fu organizzato dai suoi seguaci più importanti (Vinoba, J.P. Narajan), ed ha lavorato in molte zone dell’India per prevenire, ridurre e, talvolta, superare i conflitti interetnici ed interreligiosi.
L’idea è stata ripresa da molte ONG che lavorano per l’obiezione di coscienza e per la pace che hanno dato vita, in Libano, nel 1960, alla World Peace Brigade, che ha operato in vari paesi del mondo. Uno degli interventi più importanti è stato quello nell’isola di Cipro, nella quale si confrontavano e si combattevano reciprocamente, per il possesso di parti importanti dell’isola stessa, Turchi e Greci. La presenza della W.P.B. è servita a ridurre gli odi reciproci tra i due gruppi, e a mettere insieme persone delle due parti in conflitto per ricostruire case di ambedue i gruppi distrutte durante il conflitto aperto. Il lavoro fatto da questa organizzazione è stato tanto importante che il comandante dei Caschi Blu delle Nazioni Unite (erano presenti nella zona per pacificare l’area) si rese conto che l’intervento non armato e nonviolento della WPB era più valido di quello dei Corpi da lui guidati, perché il fatto di essere non armati li rendeva più vicini alle due popolazioni e permetteva loro di mediare e di superare più facilmente i loro conflitti. Il comandante si chiamava Harbottle ed è l’autore del primo manuale delle Nazioni Unite per il “Peace Keeping”. Dal confronto tra i due tipi di interventi, quello armato e quello nonviolento, si convinse che quest’ultimo era più efficace di quello armato (come ha raccontato lui stesso in un convegno delle Peace.Brigades International – PBI - in Inghilterra), e questa convinzione lo porterà a diventare un importante consulente delle P.B.I, che avevano preso il posto della W.P.B., ed anche a dar anche vita, in Inghilterra, ad un noto Centro Studi per la Risoluzione Nonviolenta dei Conflitti.
Le P.B.I., nate nel 1981, hanno operato ed operano tuttora in vari paesi del mondo, ma soprattutto nell’America Latina, e si sono caratterizzate per l’uso, giorno e notte, dell’accompagnamento nonviolento di persone che operano, nel proprio paese, per il rispetto dei diritti umani e per la trasformazione nonviolenta della propria società; persone che sono, quindi, per questa loro attività, sotto la continua minaccia degli squadroni della morte. Il lavoro dei volontari delle P.B.I. in questi paesi è collegato ed appoggiato da gruppi di supporto, in molti paesi del mondo, che, quando apprendono che queste minacce sono state espresse rischiando di trasformarsi in omicidi, mandano fax, telegrammi, o E-mail al Capo del Governo o al Ministro della Difesa di quel paese perché si mobilitino per evitare che quel particolare crimine venga commesso. Inoltre fanno comunicati stampa, manifestazioni, e appelli al proprio governo perché prema verso l’altro per il rispetto della vita e dei diritti umani delle persone minacciate. Per paura che l’effettuazione di quel crimine, ormai sotto gli occhi della comunità internazionale, incrini l’immagine del loro governo ed allontani eventuali appoggi economici e politici da parte di altre nazioni, le autorità del paese in oggetto si sono date effettivamente da fare per bloccare l’iniziativa degli squadroni della morte. Perciò questo tipo di azione ha evitato che vari crimini venissero commessi, e vari attivisti nonviolenti di questi paesi si sono salvati grazie alle attività di questa organizzazione.(per esempio anche il premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchù).
Un momento rilevante per la presa di coscienza dell’importanza di un lavoro per la prevenzione dei conflitti armati fatto da ONG si è avuto in occasione della guerra del Golfo, nel 1990/91. I “Volontari di Pace in Medio Oriente”, formati da membri di varie ONG italiane, intervennero infatti prima della guerra e riuscirono ad aprire a Baghdad, nell’ “Isola delle Spose”, un “Campo per la Pace” Questa isola era abbastanza vicina al centro della città, ed in prossimità di molte Ambasciate, tra cui quella italiana. Vi era stato costruito un villaggio turistico (con casette prefabbricate bene attrezzate, e strutture di servizio, - ristorante, sale di riunione, negozi, ecc.) in occasione di un congresso mondiale per la pace che avrebbe dovuto tenersi a Baghdad per risolvere la crisi iraniana. Il congresso non si tenne e scoppiò invece la guerra, ma le posate ed i piatti e tutte le attrezzature riportavano ancora i segni ed i simboli dell’idea originale. Non essendo stato utilizzato per lo scopo per cui era nato, il villaggio divenne il luogo tradizionale in cui venivano ospitate le coppie di aree esterne alla città che venivano in viaggio di nozze nella capitale, da lì il soprannome datogli.
Dal momento dell’apertura del “Campo per la Pace” questo divenne il luogo in cui venivano ospitate le delegazioni di tutte le parti del mondo che venivano per cercare di evitare la guerra e trovare forme di mediazione al conflitto armato che si preannunciava. Questo ha permesso a tutte queste organizzazioni di conoscersi, di rendersi conto che avevano quasi tutte gli stessi scopi e spesso anche la stesse radici nonviolente, ed a cominciare a lavorare insieme tanto da poter dar vita ad un secondo “Campo per la pace”, di interposizione tra l’Iraq e l’Arabia Saudita, proprio nell’area in cui più tardi avverrà lo sfondamento in Iraq delle truppe alleate. L’iniziativa dell’apertura di questo secondo campo era stata presa dal “Gulf Peace Team”, una organizzazione di cui facevano parte anche le PBI ed altre associazioni (come l’IFOR .- International Felloshisp of Reconciliation, o come la W.R.I – War Resisters International) che erano rappresentate, come sezioni italiane (MIR e MN), anche tra i Volontari di Pace italiani, molti dei quali facevano parte anche di altre associazioni pacifiste tra cui la LDU – Lega per il Disarmo Unilaterale-, che aveva promosso.l’iniziativa. I Volontari di Pace in Medio Oriente hanno partecipato anche all’esperienza del secondo campo ai confini. In quest’ultimo, durante la cerimonia della fine dell’anno, davanti alle Telecamere di moltissimi paesi del mondo (ma non quelle italiane che sembra avessero avuto ordine di non occuparsi dei “pacifisti”) fu firmata dai presenti e presentata anche alla stampa la piattaforma di mediazione elaborata dai Volontari di Pace, che aveva trovato un notevole interesse anche da parte delle autorità irachene. Questa prevedeva il ritiro unilaterale delle truppe irachene dal Kuwait, per essere però sostituite, come aveva proposto anche il Governo Svedese, da “Caschi Blu” delle Nazioni Unite formati però da truppe di paesi neutrali, non ancora presenti nell’area, come appunto la Svezia, la Norvegia ed altri, e da un corpo di pace nonarmato, denominato “Caschi Bianchi”, formato da membri delle moltissime ONG presenti nell’area, che facevano parte dell’ECOSOC, organismo di consulenza delle Nazioni Unite stesse. Ambedue questi Corpi avrebbero dovuto restare in Kuwait per aiutare la popolazione di quel paese ad organizzarsi democraticamente per decidere sul proprio destino, fino all’organizzazione, se possibile nello stesso Kuwait, di una conferenza delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto cercare delle soluzioni valide per tutto il Medio Oriente. La proposta è stata inviata anche alle Nazioni Unite, sia al Segretario Generale che al suo collaboratore Picco, con cui eravamo in contatto tramite amici comuni. Ma il Consiglio di Sicurezza ristretto dell’ONU (formato da USA, Inghilterra, Francia, Russia, Cina, paesi che in un documento dell’Unicef risultano aver venduto negli anni precedenti alla guerra del Golfo l’85,6 % di tutte le grandi armi del mondo) impedì al Segretario Generale di svolgere un vero e proprio ruolo di mediazione, come sarebbe stato suo compito (sia Boutrous Gali che Picco si lamenteranno di questo in varie interviste successive, e questa è la ragione principale che ha impedito a Gali di avere rinnovato il suo mandato), e li ha mandati a Baghdad solo per ripetere la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che richiedeva esclusivamente il ritiro delle truppe irachene senza dare alcuna indicazione per soluzioni in positivo. Da lì il rifiuto degli iracheni e la guerra successiva.
Ma questo lavoro ha fatto prendere coscienza alle tante ONG intervenute in zona sul fatto che: 1) la guerra avrebbe forse potuto essere evitata se le stesse ONG avessero lavorato in modo più coordinato, prima che questa scoppiasse, formando dei veri e propri corpi di pace internazionali, ed acquisendo uno status riconosciuto che potesse dar loro maggiore forza nei riguardi dei rispettivi governi e delle Organizzazioni Governative Internazionali; 2) che era perciò importante dar vita a coordinamenti nazionali ed internazionali per la costituzione di un vero e proprio “esercito di pace” che venisse riconosciuto anche dalle Nazioni Unite, che potesse intervenire, con la nonviolenza, prima, durante, e dopo il conflitto armato. E questo è stato uno stimolo notevole per le iniziative successive delle ONG.
Molte organizzazioni non governative, in vari paesi del mondo, anche prima di quel periodo, ma con maggiore intensità dopo, hanno lavorato in questo campo, organizzando, ad esempio, marce nonviolente nelle zone di conflitto che sono spesso riuscite ad interrompere i combattimenti per i giorni della marcia, ed a mostrare che si può intervenire, anche senza armi, ed in modo positivo, nei conflitti armati. Si pensi, nella guerra Jugoslava, alla prima marcia su Sarajevo, nel 1992, organizzata dai “Beati i Costruttori di Pace”, cui hanno partecipato circa 500 persone, od a quelle successive come Mir Sada, con circa 2000 persone e con l’adesione di moltissime ONG italiane (comprese le ACLI e l’ARCI, e l’Associazione per la Pace), che arriverà invece a Mostar, che hanno avuto un significato simbolico importante di come si possa operare per la pace in modo nonviolento, od a quelle successive in Africa. E al grande lavoro di diplomazia dal basso, portata avanti in vari paesi del mondo, da organizzazioni diverse come la Comunità di Sant’Egidio, l’Operazione Colomba dell’Associazione Giovanni XXIII, o dagli stessi Beati su citati, che hanno portato in alcuni casi anche alla risoluzione di conflitti piuttosto gravi. E nel campo della diplomazia dal basso anche all’attivazione, in zone calde del mondo (Kossovo, Israele-Palestina, ecc.) di vere e proprie Ambasciate di Pace per studiare a fondo i problemi di quello specifico conflitto, e vedere le possibilità di prevenirne l’esplosione trovando anche forme di mediazione. Si veda, su questo, tra l’altro, il lavoro della Campagna Kossovo (un coordinamento di molte ONG italiane con cui hanno collaborato vari comuni e qualche Regione Italiana) in quel territorio, o dei Berretti Bianchi- che nasceranno dal vecchio nucleo dei “Volontari di Pace in Medio Oriente, che lavoreranno dopo la guerra a Belgrado, in Serbia, e poi in Palestina. Iniziative estremamente importanti, in questo campo, in vari paesi del mondo (Israele-Palestina, Jugoslavia, Afganistan, ecc.) sono state portate avanti anche dalle donne, soprattutto quelle organizzate come “Donne in Nero”, che hanno sviluppato forme spesso originali di intervento e di dialogo tra donne di gruppi, etnie, e paesi in conflitto tra di loro, per superare le cause dei malintesi e dei pregiudizi reciproci e per lavorare insieme per la pace, attraverso l’azione diretta nonviolenta e la ricerca di soluzioni creative e costruttive.
Nel 1999, all’AIA in Olanda, ad un grande congresso per la pace nel mondo (oltre 9000 partecipanti), è stato elaborato un documento per la costituzione di una “Forza Nonviolenta di Pace” (Nonviolent Peace Force) cui hanno aderito 7 premi Nobel per la Pace, ed oltre 200 Organizzazioni Non Governative di tutto il mondo, molte delle quali avevano già esperienza di questo tipo di attività, come appunto le PBI. Nel novembre 2002 si sono ritrovate a Delhi, per la costituzione ufficiale di queste Forze e per scegliere il primo intervento comune che è stato deciso di realizzare, nei prossimi mesi, nello Sri Lanka. Ed in molti paesi del mondo le ONG che intervengono nonviolentemente in situazioni che preannunciano un conflitto armato, per cercare di evitarlo, portando avanti iniziative di diplomazia popolare, e lavorando al livello della mediazione dei conflitti, sono notevolmente aumentate e stanno cercando di dare vita a dei coordinamenti per rendere più efficace la propria azione, e superare limiti di improvvisazione e di scarsa preparazione qualche volta presenti . La creazione di questi coordinamenti è avvenuta e/o sta avvenendo in Germania, in Francia, in Inghilterra, e, con una certa difficoltà, anche in Italia. Tuttavia alcune ONG italiane hanno aderito alle NPF, preso parte al congresso fondativo di Delhi, dove un italiano è stato eletto come co-rappresentante delle European Nonviolent Peace Forces
Ma mentre sono in grosso fervore queste iniziative di Organizzazioni Non Governative, Organismi Governativi, come le Nazioni .Unite, si stanno muovendo, anche su sollecitazione di queste stesse ONG che, con il loro lavoro, non intendono sostituire i Governi e le Organizzazioni.Internazionali.Governative, ma stimolarli ad una maggiore comprensione dell’importanza della prevenzione dei conflitti armati, e dell’uso della nonviolenza per evitarli e risolverli pacificamente. Così nell’Agenda per la Pace dell’ex Segretario delle Nazioni Unite, Boutrous Gali, si parla dell’importanza di attrezzare le Nazioni Unite per dar vita ad interventi civili di questo tipo. Ed anche il suo successore, Kofi Annan, ha scritto ripetutamente sulla necessità di prevenire le guerre, anche grazie ad organismi civili di questo tipo, ed ha chiesto alla società civile dei vari paesi del mondo di organizzarsi e premere dal basso verso i loro stati, che compongono le Nazioni Unite, perché superino l’attuale concezione che le guerre si risolvono con le armi e con le forze armate, e diano più importanza al lavoro civile ed alla prevenzione degli stessi conflitti. Il Parlamento Europeo, come abbiamo visto, nel 1999 ha approvato una raccomandazione, poi ripetuta ed approfondita in varie occasioni, perché si creasse, a livello della Comunità Europea, un “Corpo Civile di Pace”, di persone ben preparate all’azione nonviolenta, prima, durante e dopo l’esplodere dei conflitti armati, per evitarli e superarli pacificamente. E l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea), nel suo congresso di Istambul, nel 1999, ha deciso di dar vita a gruppi di intervento rapido (REACT- Rapid Expert Assistance and Cooperation Team) formati da esperti civili di risoluzione nonviolenta dei conflitti che vadano nelle zone calde per prevenire l’esplosione del conflitto, per gestire pacificamente la crisi, o per mettere in atto attività per la riconciliazione dopo il conflitto.
Ed alcuni paesi, tra cui l’Italia, hanno approvato leggi che legalizzano i cosiddetti “Caschi Bianchi” (per distinguerli dai “Caschi Blu” armati) riconoscendoli come sostitutivi di un eventuale servizio militare obbligatorio, e permettono, con l’aiuto dello stato, alle persone che ne fanno parte di fare interventi nonviolenti in aree di conflitto anche all’estero.
Purtroppo queste iniziative istituzionali, sia a livello internazionale che nazionale, trovano ostacoli in quella violenza culturale che fa si, a livello dei governi, e di molte persone, che si continui a credere che la “guerra”, e l’uso delle armi, siano il modo naturale di risolvere i conflitti, e che la loro soluzione con mezzi pacifici e nonviolenti sia solo una utopia. Questa credenza è rinforzata, e stimolata, dai grandi guadagni che le nazioni più potenti e più ricche del mondo traggono dalla costruzione e dalla vendita di armi nel mondo.
Per questo, affinché i Corpi Civili di Pace, o le N.P.F., possano svilupparsi nella loro pienezza e mostrare la propria validità andando oltre gli interventi, spesso solo simbolici, fatti finora, è necessaria una forte rivoluzione culturale e sociale, che si sviluppi a livello mondiale, e che faccia capire, non solo ai governanti ma anche alla gente comune, la stupidità e l’assurdità del ricorso alla guerra ed alla violenza armata, come sosteneva Erasmo da Rotterdam, e dia uno spazio reale alla prevenzione, alla mediazione, ed alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, e sviluppi la cultura della trasformazione dei conflitti, a tutti i livelli, da quello micro a quello macro, in occasioni di confronto e di dialogo, e non di scontro o di violenza armata.
A livello del nostro paese è indispensabile che le varie organizzazioni che hanno lavorato e lavorano in questo campo, spesso anche con iniziative di avanguardia rispetto al quadro internazionale come alcune su accennate, superino il proprio particolarismo ed il proprio isolamento e decidano di dar vita, insieme, in forme da studiare congiuntamente, e mettendo in comune le proprie reciproche competenze ed esperienze, ad un “Corpo Civile di Pace” che possa fare interventi più efficaci di quelli svolti finora, e possa anche richiedere quei riconoscimenti istituzionali che un lavoro di questa importanza richiede.
Questo salto di qualità è richiesto anche dalle popolazioni dei vari paesi in cui sono intervenuti ed intervengono i volontari italiani. Queste sostengono infatti che la semplice presenza in loco di volontari come “osservatori”, tende a ridurre la violenza da parte dei militari, della polizia, o dei gruppi terroristici, e chiedono perciò che questa presenza venga incrementata. Ed in una recente relazione di un gruppo di esperti che ha visitato l’Iraq e svolto ricerche approfondite (tra questi la moglie dell’ ex Primo Ministro della Grecia Papandreou, l’ex coordinatore degli interventi umanitari delle Nazioni Unite in Iraq, D. Halliday, e vari dirigenti di centri di ricerca per la pace e di sindacati europei) si dice che la presenza in Iraq di 5000 volontari, come protettori civili (alcuni dei quali stanno già arrivando) che stiano presso attrezzature civili come gli impianti di elettricità, di acqua potabile, o di telecomunicazione, potrebbe ridurre sensibilmente il rischio che queste vengano bombardate. Ma D. Halliday, intervistato da me nel suo recente viaggio in Italia, ha molti dubbi sul fatto che Bush e Blair si lascerebbero fermare dagli scudi umani, e ritiene che bombarderebbero queste strutture lo stesso. Una opinione un po’ diversa è quella di J. Galtung, uno dei più noti ricercatori per la pace del mondo, che, nella lezione introduttiva dell’anno accademico del Corso di Laurea in “Operatori per la Pace” dell’Università di Firenze ha parlato dell’importanza di una resistenza di questo tipo, portando però il numero di persone necessarie a fermare la guerra in Iraq a 100.000, e sostenendo che, da informazioni avute, la presenza di queste persone - specie se molte di loro, come sta già avvenendo, sono familiari delle vittime delle torri di New York- è visto dai dirigenti militari degli Stati Uniti come un grosso ostacolo a portare avanti il loro piano di guerra. Ma iniziative di questo tipo richiedono un salto di qualità notevolissimo da parte non solo del movimento pacifista nel suo complesso, che nelle manifestazioni del 15 Febbraio ha comunque dimostrato una capacità organizzativa notevole, e di aver fatto un grosso passo avanti verso un processo di “globalizzazione della pace” (oltre 100 milioni di persone, in 72 stati e 250 città del mondo, che manifestano nello stesso giorno e per lo stesso obiettivo è un risultato straordinario mai raggiunto in precedenza) ma soprattutto di quelli che Pontara definisce “pacifisti specifici” che stentano ancora a coordinarsi tra di loro e che non sono in grado attualmente, con la loro lentezza a dar vita a dei Corpi Civili di Pace validi, di avere la forza e la capacità di organizzare una resistenza tipo quella ipotizzata da Galtung. Questo fa si che i sostenitori della pace, anche se stanno aumentando, rischiano di essere inefficaci e di essere sempre sopraffatti da quelli che ritengono che non ci siano alternative all’intervento armato. Una valida resistenza alla guerra, che non duri un solo giorno, richiede una organizzazione ed un coordinamento migliore di quello attuale, e la costituzione di quei “Corpi Civili di Pace” qui preconizzati che riescano anche, se possibile, ad ottenere un riconoscimento istituzionale, ad esempio, dalle Nazioni Unite, dalla Comunità Europea o da qualcuno dei governi in carica, e che siano capaci di mobilitare numeri anche elevati di persone ben preparate alla lotta nonviolenta, disposte, se necessario, a rischiare la propria vita. Riusciremo a portare avanti una impresa come questa, ed a mettere la guerra fuori della storia? La speranza degli estensori di queste note è quella che, se molti gruppi, organizzazioni, e persone singole si impegnano seriamente, e con costanza, forse si riesca a fare qualche passo avanti importante e concreto in questa direzione.
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· Don Tonino Bello e i Corpi Civili di Pace
Un ricordo nel decennale della sua morte
di Alberto L’Abate; Berretti Bianchi
La mia non è una relazione dotta, di chi legge tutti i testi di un autore e li commenta, ma piuttosto la testimonianza di una persona che ha conosciuto Don Tonino, sia pur solo per poco tempo (forse circa un’ora), ma che da quell’incontro ne ha tratto ispirazione e forza per portare avanti i comuni progetti di una nonviolenza attiva. Il titolo del mio intervento è “Don Tonino Bello ed i Corpi Civili di Pace”. perché proprio su questo tema abbiamo discusso con lui. Ho conosciuto Don Tonino alla Casa per la Pace di Pax Christi dell’Impruneta dove era venuto per una riunione del Comitato Direttivo di questa associazione di cui è stato presidente nazionale. Io ero venuto invece alla Casa per la Pace per incontrare altri amici del comitato e per aggiornarli sui risultati di un incontro che avevamo appena avuto, a Verona, su come portare avanti , in concreto, un intervento attivo nonviolento per il superamento del conflitto jugoslavo. Si voleva fare una azione, sia pur simbolica, che mostrasse l’importanza e la possibilità di intervenire, anche in conflitti acuti, con la nonviolenza attiva. A Verona si era appunto discusso sull’opportunità e la necessità di dar vita, dal basso, ad una iniziativa che prefigurasse un intervento del tipo di quello che i corpi civili di pace avrebbero potuto fare prima e durante i conflitti armati. Qualche anno più tardi (1995) Alex Langer, l’ispiratore dell’incontro di Verona, avrebbe fatto approvare dal Parlamento Europeo una mozione per la costituzione ufficiale di “Corpi Europei Civili di Pace”. Trovai Don Tonino entusiasta dell’idea dell’ organizzazione di interventi di nonviolenza attiva per cercare di prevenire o interrompere i conflitti armati, in particolare quello jugoslavo. Era d’accordo con me che questi interventi dovevano essere un’ anticipazione di possibili Corpi Civili di Pace che servissero anche a stimolare dalla base l’intervento delle istituzioni, ed era ben convinto dell’opportunità e della necessità di muoversi in quella direzione. Infatti quando, qualche mese dopo, venne fuori la proposta, da parte dei “Beati i costruttori di Pace” della prima marcia per la pace a Sarajevo che era appunto una prefigurazione, sia pur di tipo simbolico, di un intervento di questo tipo, Don Tonino, malgrado lo stato avanzato della sua malattia, aderì all’iniziativa e vi partecipò attivamente. Da quel breve incontro alla Casa per la Pace e dalla discussione avuta con lui mi sono convinto che Don Tonino non si illudeva affatto che il raggiungimento della pace fosse cosa semplice, e che, se avesse vissuto più a lungo, ci avrebbe dato una grossa mano a portare avanti l’iniziativa della costituzione di questi corpi sia al livello di base che a livello istituzionale. Alex Langer, dopo aver presentato quella mozione, aveva deciso di lasciarci, passando però a noi, suoi amici, il compito di portare avanti le idee ed i progetti per i quali si era battuto strenuamente sia all’interno del Parlamento Europeo, sia come animatore di varie iniziative di diplomazia dal basso, per la prevenzione dei conflitti armati, in particolare di quello della ex Jugoslavia.
Se si guarda ciò che sta succedendo nel nostro paese a livello di base non si può dire affatto che manchino iniziative e proposte in questo campo. Molte sono le organizzazioni che operano in questo settore. I Beati infatti, dopo la marcia di Sarajevo, ne hanno organizzate altre a Mostar, ad Aviano, a Pristina, in Africa. I Volontari di Pace in Medio Oriente sono intervenuti in Iraq prima della guerra del Golfo del 1991 trovando possibili soluzioni che avrebbero potuto risolvere il problema senza la guerra se si fosse lasciato all’ONU la possibilità di svolgere realmente il proprio ruolo di mediazione. La Campagna Kossovo, cui partecipano varie ONG italiane, ha lavorato a fondo per la prevenzione del conflitto armato del Kossovo tenendo aperta a Pristina, per alcuni anni, anche una ambasciata di pace che ha lavorato per rompere il muro tra albanesi del Kossovo e Serbi di Belgrado, e per trovare soluzioni pacifiche al conflitto, che avrebbero potuto, se ce ne fosse stata la volontà politica, risolvere il problema anche qui, senza arrivare alla guerra. Tra le proposte fatte, a livello del Parlamento Europeo, c’era anche quella dell’intervento in zona di Corpi Europei Civili di Pace che, se fossero stati organizzati ed inviati nella zona, avrebbero potuto, forse, prevenire l’esplosione del conflitto armato. E sempre con riferimento al Kossovo, la Comunità di San Egidio, che era già intervenuta positivamente per risolvere alcuni conflitti nella zona dell’Africa, era riuscita a far firmare tra Serbi e Kossovari un accordo che, se monitorato e fatto rispettare adeguatamente dalla Comunità Internazionale, avrebbe portato ad un miglioramento graduale dei rapporti tra le due parti in conflitto ed alla soluzione dei problemi senza la guerra. I giovani dell’Operazione Colomba hanno dato vita, anche utilizzando obiettori di coscienza in servizio civile, a progetti a medio e lungo termine di condivisione della vita con persone vittime della guerra, alla riapertura dei rapporti tra gruppi divisi dal conflitto, ed all’anticipazione, in zone di conflitto, di attività che sarebbero proprie di Corpi Civili di Pace (in Bosnia, Kossovo e in altre zone) . Ed anche le Donne in Nero, sia a livello italiano che internazionale, con modalità molto originali e forme organizzative molto vicine a quelle ipotizzate per i corpi di intervento nonviolento in situazioni di conflitto, hanno portato e stanno portando avanti, in varie parti del mondo (Jugoslavia, Palestina, Afganistan, ecc.), attività per la prevenzione dei conflitti armati e per la ricerca di soluzioni pacifiche. Ed altre organizzazioni, come i Berretti Bianchi, che hanno preso il posto dei Volontari di Pace in Medio Oriente, e l’Associazione per la Pace, hanno portato avanti iniziative di anticipazione dei Corpi Civili di Pace anche nel conflitto arabo-israeliano. Forse anche altre organizzazioni, che non conosco, portano avanti iniziative che vanno nella stessa direzione. Dovremmo essere contenti di questo interesse e di queste iniziative che vanno, sembra, in questa stessa direzione, da parte di tante organizzazioni italiane?. Forse si. Ma tutti i tentativi portati avanti in molti anni nel nostro paese per dare vita ad una organizzazione comune, del tipo di quelle costituite in Germania (la Federazione per la Difesa Nonviolenta e per il Servizio Civile di Pace) o in Francia (il coordinamento per l’intervento civile nonarmato), od a livello internazionale (come le Nonviolent Peace Forces) sono miseramente falliti e stentano notevolmente ad andare avanti. Ed anche il Forum organizzato dal coordinamento di “Verso i Corpi Civili di Pace” per il prossimo 6-7-8 giugno a Bologna proprio con lo scopo di trovare forme organizzative coordinate più valide tra queste iniziative di base rischia di essere un flop che riunisca solo poche persone di buona volontà che già da anni si stanno interessando di questo aspetto, senza riuscire a coinvolgere le altre e soprattutto l’opinione pubblica. Perché questo? Siamo più bravi degli altri e riusciamo a lavorare in sintonia anche senza un minimo di organizzazione comune, oppure siamo troppo gelosi delle nostre idee e delle nostre iniziative da non poter nemmeno concepire di fare un lavoro insieme con gli altri? Oppure, un’altra ipotesi, forse più realistica delle prime due, le persone che portano avanti questo progetto di maggiore coordinamento tra queste notevoli ed importanti iniziative non hanno quella autorevolezza e quel prestigio che sarebbe necessario avere per superare le gelosie e le sfiducie reciproche? Prendendo per buona questa ultima ipotesi credo che Don Tonino, se fosse ancora in vita, darebbe lui stesso una forte mano per superare queste remore e per far fare dei passi avanti notevoli ad un progetto di questo tipo cui era molto affezionato. Ma proprio quanto successo in questi ultimi tempi nell’area di Gaza, in Palestina, dove due volontari americani andati come osservatori di base, e come interpositori nonviolenti tra i belligeranti (visto che gli USA – mettendo il suo veto - e Israele, hanno ripetutamente impedito alle Nazioni Unite di mandare nella zona dei propri osservatori e peace-keepers) sono stati uccisi dai militari israeliani, o da operai alle loro dipendenze, ed un altro è stato ferito molto gravemente tanto da far temere per la sua vita, richiede il superamento di queste remore e lentezze, in modo da mettersi d’accordo almeno per alcune minime richieste da fare alle istituzioni europee e nazionali, affinché questo tipo di intervento possa continuare, ed anche intensificarsi, senza che questi volontari vengano abbandonati a se stessi senza alcun appoggio da parte di queste istituzioni.
Passando ora all’analisi, sia pur superficiale e rapida, di quanto sta avvenendo in questo campo da parte delle istituzioni, anche Organismi Intergovernativi, come le Nazioni .Unite, si stanno muovendo in questa stessa direzione. Così nell’Agenda per la Pace dell’ex Segretario delle Nazioni Unite, Boutrous Gali, si parla dell’importanza di attrezzare le Nazioni Unite per dar vita ad interventi civili di questo tipo. Ed anche il suo successore, Kofi Annan, ha scritto ripetutamente sulla necessità di prevenire le guerre, anche grazie ad organismi civili di questo tipo, ed ha chiesto alla società civile dei vari paesi del mondo di organizzarsi e premere dal basso verso i loro stati, che compongono le Nazioni Unite, perché superino l’attuale concezione che le guerre si risolvono con le armi e con le forze armate, e diano più importanza al lavoro civile ed alla prevenzione degli stessi conflitti. Il Parlamento Europeo, come abbiamo visto, grazie all’iniziativa di Alex Langer, già nel 1995 ha approvato una mozione, poi ripetuta ed approfondita in varie occasioni, perché si crei, a livello della Comunità Europea, un “Corpo Europeo Civile di Pace”, di persone ben preparate all’azione nonviolenta, prima, durante e dopo l’esplodere dei conflitti armati, per evitarli e superarli pacificamente. E l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea), nel suo congresso di Istambul, nel 1999, ha deciso di dar vita a gruppi di intervento rapido (REACT- Rapid Expert Assistance and Cooperation Team) formati da esperti civili di risoluzione nonviolenta dei conflitti che vadano nelle zone calde per prevenire l’esplosione del conflitto, per gestire pacificamente la crisi, o per mettere in atto attività per la riconciliazione dopo il conflitto.Inoltre, alcuni paesi, tra cui l’Italia, hanno approvato leggi che legalizzano i cosiddetti “Caschi Bianchi” (per distinguerli dai “Caschi Blu” armati) riconoscendoli come sostitutivi di un eventuale servizio militare obbligatorio permettendo, con l’aiuto dello stato, alle persone che ne fanno parte di fare interventi nonviolenti in aree di conflitto, anche all’esteroMa questi tentativi sia di O.I.G. che di O.N.G. cozzano con il fatto che dopo la distruzione delle torri di New York dell’11 settembre 2001 prevale, negli USA, che sono la più grande potenza mondiale, il desiderio di vendetta e l’idea che la politica valida è quella della “ragione della forza” e non quella della “forza della ragione”, e malgrado il fatto che gli ispettori dell’ONU avessero fatto dei notevoli passi avanti per cercare armi di distruzione di massa e chimiche, non ancora trovate anche durante e dopo la guerra, ed avessero fatto distruggere circa un centinaio di missili iracheni illegali, gli USA e l’Inghilterra hanno dato ugualmente inizio alla guerra, affermando, sembra, in modo molto cinico: “hanno distrutto i missili a lunga gettata, avremo meno difficoltà, e meno morti, ad entrare in Iraq ed a sconfiggere il regime di Saddam.”. L’hanno fatto e sono riusciti a distruggere il regime. Ma non è affatto sicuro che la ragione ufficialmente proclamata come obiettivo della guerra, e cioè la lotta contro il terrorismo, sia stata raggiunta. Anzi una gran parte degli studiosi su questi temi ritiene che proprio a causa di questa guerra il terrorismo riprenderà vigore e linfa vitale rendendo la vita quotidiana degli abitanti dei paesi ricchi - quelli che sfruttano quasi il 90 % delle risorse del mondo, e che cercano di trarre, da questa guerra, il controllo anche di altre importanti e durevoli risorse energetiche del mondo - quasi invivibile a causa della continua paura di atti terroristici.
Ciò pone un grosso problema all’Europa: seguire il modello USA ed Inglese e dare la priorità all’organizzazione di un forte esercito europeo, e di una forte polizia europea, oppure cercare di fare una politica diversa, cercando da una parte la “forza della ragione”, rinforzando e non riducendo il potere di Organizzazioni Internazionali realmente democratiche, che tengano conto del desiderio di pace della maggior parte delle popolazioni del mondo, e dando la priorità ad una politica di riequilibramento degli attuali squilibri con i paesi del terzo mondo, alla prevenzione dei conflitti armati, ed alla riconversione delle industrie belliche in industrie di pace. Se la Comunità Europea sceglie questa seconda strada, secondo gli insegnamenti di Don Tonino Bello, e di Cristo, il suo Maestro (“non ci sarà pace finché non ci sarà giustizia”), l’organizzazione concreta di Corpi Europei Civili di Pace ben preparati alla nonviolenza attiva ed alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, che operino attivamente per la prevenzione dei conflitti armati, dovrà diventare una delle priorità da perseguire. La prima strada invece di aumentare la sicurezza porterebbe l’Europa ad essere una fortezza chiusa ma sempre più attaccabile da parte di un terrorismo sempre più aggressivo; la seconda strada potrebbe aprire, invece, per l’Europa e forse anche per il mondo intero, un futuro più giusto ed umano, in cui il terrorismo sia solo un ricordo del passato. Speriamo che l’insegnamento di Don Tonino sull’importanza della scelta della giustizia e della nonviolenza attiva, prevalga su quello dei cattivi maestri che dicono che la “ragione sta nella forza” e che non tiene conto di quella che sta diventando la forza più grande nella storia moderna, e cioè la lotta nonviolenta, come dimostrato da tante esperienze storiche del secolo scorso, in India, negli USA, nelle Filippine, in Polonia, in Sud Africa, nei paesi dell’Est, e cioè di quello che è stato chiamato “potere del popolo”, che un giornale americano ha definito la “seconda superpotenza”. Ciò richiede anche un grosso salto di qualità del pacifismo, che anche Don Tonino riteneva necessario, che passi da una impostazione generica, di chi partecipa solo ad una manifestazione ogni tanto, o appende soltanto la bandiera della pace alla finestra, o firma una petizione per la strada, ad una nonviolenza specifica ed attiva che si trasforma in modo di vita e non si ritrae davanti ai conflitti armati ma cerca di intervenire per prevenirli, interromperli, e riconciliare le persone che si sono combattute, ricostruendo i rapporti umani e sociali distrutti dalla guerra. Mi auguro che il vostro convegno e la vostra iniziativa contribuiscano a portare avanti con forza questa seconda impostazione.
· Conflitti Moderni e Corpi Civili di Pace
di Maria Carla Biavati; Berretti Bianchi
I conflitti moderni finalizzati all’occupazione dei territori e allo sfruttamento delle risorse o alla ridefinizione degli equilibri geostrategici sono i moventi principali delle guerre di aggressione. Esse hanno visto un sempre crescente numero di civili uccisi rispetto alle vittime militari perché oggi la contrapposizione tradizionale tra gli eserciti non esiste più, sono le popolazioni civili che abitano i territori ad essere le vittme principali degli guerre. Se nella prima metà del secolo le vittime civili erano il 50% del totale oggi sono il 90%. Questo mutamento radicale nella conduzione dei conflitti ha spinto la coscienza delle popolazioni ad un cambiamento altrettanto radicale, se in passato la guerra veniva subita come un bisogno imperativo di difendere la patria oggi la difesa degli interessi che scatenano le guerre non trova più lo stesso tipo di consenso. La cultura dei diritti umani diffusa dalle Nazioni Unite all’indomani del secondo conflitto mondiale si è radicata profondamente nelle coscienze dei popoli e nelle nuove generazioni che oggi rispondono opponendosi attivamente alle strategie della violenza militare. Inoltre la diffusione capillare delle informazioni, rende consapevoli le persone dell’inutilità dei conflitti armati e della loro palese illegalità. Il 15 febbrario 2003 ha dimostrato che moltitudini di persone sono assolutamente contrarie alla guerra come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali.
Fin dai tempi della lotta nonviolenta per l’indipendenza dell’India, Gandhi intuì la necessità della difesa civile nonviolenta (Shanti Sena), e teorizzò che le popolazioni potevano essere egregiamente difese anche da civili non armati. Per esempio la presenza di grandi masse di popolazione schierate a difesa dei villaggi che si rifiutavano di collaborare con l’Impero Britannico e venivano minacciati dall’esercito, costituirono un ostacolo e un’efficace dissuasione alle operazioni militari. Anche durante la seconda guerra mondiale le popolazioni civili dei paesi scandinavi opposero una resistenza diffusa boicottando le operazioni militari; ad esempio deviando i treni che trasportavano le materie prime per la produzione delle armi nucleari furono in grado di rallentare il processo di produzione delle stesse. Tornando ai giorni nostri le grandi manifestazioni contro la guerra nel Vietnam e la diffusa obiezione di coscienza dei giovani coscritti hanno gettato le basi dell’attuale movimento pacifista mondiale. Questo tipo di mentalità si è sviluppato negli anni ottanta e novanta producendo come risposta attiva la presenza di civili nelle zone di conflitto. Alcuni degli esempi più eclatanti sono: In sud america l’accompagnamento e la difesa di esponenti politici minacciati di morte (Peace Brigade International). Nei Balcani la penetrazione dell’assedio di Sarajevo da parte di centinaia di pacifisti italiani (Beati i Costruttori di Pace). Le presenze di internazionali nei villaggi zapatisti in Chiapas a difesa degli indigeni continuamente minacciati dall’esercito messicano (Ya Basta). E durante la seconda Intifada palestinese, l’interposizione di centinaia di pacifisti internazionali a difesa dei diritti del popolo palestinese (Action for Peace, ISM e altri).
Sul versante militare; se in Italia, dopo decenni di lotta si è ottenuto il pieno riconoscimento dell’obiezione di coscienza seguito dall’abolizione almeno parziale della leva obbligatoria, in Israele assistiamo al proliferare dell’obiezione di coscienza diversificata a seconda degli obiettori che scelgono di praticarla in assoluto oppure selettivamente. Usciti dal liceo alcuni giovani israeliani rifiutano il servizio militare obbligatorio affrontando, oggi, la Corte Marziale e rischiando fino a tre anni di carcere, mentre altri militari già arruolati rifiutano di prestare servizio nei territori occupati sulla base del principio avanzato durante il processo di Norimberga, secondo il quale un soldato non è obbligato ad obbedire a ordini ingiusti o che contavvengono alle leggi di guerra, anzi ha l’obbligo di disobbedire. Il rappresentante del movimento dei refuseniks israeliani, Ishai Menuchin, ha ricevuto quest’anno il premio internazionale intitolato ad Oscar Arnulfo Romero.
Tutte queste esperienze hanno creato una miriade di associazioni e organizzazioni nazionali e internazionali, grandi e piccole, impegnate nella difesa dei diritti umani ovunque essi vengano violati.
Spesso i volontari impegnati in questo lavoro privo di copertura e lontano dai riflettori dei media vengono uccisi, incarcerati o, nel migliore dei casi, espulsi dai paesi in cui operano. Ciò nonostante crediamo che il loro impegno conduca alla necessità di costituire un Corpo Civile di Pace permanente e mondiale basato su quattro pilastri principali:
· La prevenzione attiva dei conflitti;
Con la presenza di operatori civili nelle zone a rischio che interagiscano con la cultura e con le esigenze della popolazione, promuovendo confronti e dialoghi tra le opposte fazioni, allo scopo di far decrescere la conflittualità e di ridurre la tensione costruendo focolai di pace all’interno del territorio.
· L’interposizione durante lo svolgimento del conflitto;
Con la presenza di operatori civili che si interpongano tra gli eserciti in lotta con azioni diversificate a difesa dei diritti umani delle popolazioni locali.
· La costruzione di nuove premesse per la Pace;
Con la presenza di operatori civili che interagiscano con la ricostruzione fisica, istituzionale e morale del paese uscito dal conflitto.
· La riconciliazione delle popolazioni coinvolte dal conflitto;
Con la presenza di operatori civili che aiutino le vittime a superare i traumi della guerra e a ricostruire il tessuto relazionale degradato dalla violenza del conflitto.
L’implementazione di questo impegno a favore dei diritti dell’uomo da parte delle organizzazioni civili deve essere fatto proprio dalle istituzioni nazionali e internazionali con la costituzione di Corpi Civili di Pace. Strumento fondamentale nel percorso verso una visione comune di Pace che possa escludere la guerra dalla storia dell’umanità.
· L'unione Europea e la Prevenzione dei Conflitti Violenti
di Giovanni Scotto, Centro Studi Difesa Civile
Il prossimo primo luglio 2003 inizia il semestre italiano di presidenza dell'Unione europea. Si trattera' di sei mesi assai importanti: all'interno dell'Unione ci si prepara ad accogliere i nuovi membri e a redigere la nuova Costituzione che ne regolera' il funzionamento in futuro. Inoltre continua a farsi sentire la lacerazione tra i paesi contrari alla guerra in Irak e quelli che invece si sono schierati con gli Stati Uniti.
Come gia' da qualche anno a questa parte, le organizzazioni non governative International Alert e Saferworld hanno pubblicato un rapporto in cui vengono indicate le priorita' da affrontare nel corso dei semestri di presidenza greco e italiano per migliorare la capacita' dell'Unione europea nella prevenzione dei conflitti violenti (in inglese sul sito www.international-alert.org). Entrambe le organizzazioni sono attive da diversi anni nel campo della trasformazione nonviolenta dei conflitti, e si occupano in particolare di analisi, individuazione delle cause strutturali, progetti di dialogo e peacebuilding. In Italia, il Centro studi difesa civile ha deciso di promuovere la traduzione del "presidency paper", in modo da favorire anche nel nostro paese un dibattito sulle possibilita' di sviluppo delle capacita' di prevenzione da parte dell'Unione europea che coinvolga sia i cittadini e la societa' civile che i decisori politici e i funzionari pubblici incaricati di mettere in atto l'agenda politica del nostro paese nel corso della presidenza. La traduzione sara' anche disponibile in internet sul sito www.mediazioni.org
Nel recente passato, l'Unione Europea ha compiuto numerosi passi avanti nel campo della prevenzione, sia a livello di dichiarazioni di principio, sia nel campo dell'istituzione di concreti strumenti di politica. L'Unione ha riconosciuto il nesso tra poverta', sottosviluppo e conflitti, ed il ruolo centrale della cooperazione allo sviluppo nella prevenzione dei conflitti violenti. Si tratta ora di fare in modo che la prevenzione e il peacebuilding diventino un elemento portante della politica estera comune: in altri termini, e' importante che tali obiettivi diventino parte integrante dell'azione dell'Unione Europea in tutti i settori di sua competenza, dal commercio, all'azione dell'economia privata. Inoltre, le pratiche di prevenzione dei conflitti violenti devono sempre tenere conto dei cittadini e della societa' civile dei paesi a cui sono dirette. Nello studio si propone di investire nella formazione del personale comunitario che si occupa del tema della prevenzione e dei temi ad esso correlati; di sviluppare piu' efficaci strumenti di valutazione di impatto sulla pace e sui conflitti; di aiutare i paesi partner a cooperare piuí efficacemente con l'Unione nella progettazione di politiche di prevenzione; di creare forme di monitoraggio dell'esportazione illegale di beni destinati a finanziare conflitti armati (come si e' iniziato a fare con i diamanti nel cosiddetto "Kimberley process"). Inoltre, occorre che l'elaborazione di risposte comuni alle crisi internazionali sia strettamente collegata a strategie di prevenzione della violenza e costruzione della pace nel medio e lungo termine. Prevenzione e peacebuilding vanno anche considerate la risposta piu' efficace nel lungo termine al problema del terrorismo internazionale. Attenzione particolare e' dedicata ai rapporti tra l'Unione europea e i paesi del continente africano. Lo studio di Saferworld e International Alert propone di monitorare l'impatto degli accordi commerciali tra Ue ed Africa sul livello di poverta' e sui conflitti presenti in questi paesi, e di destinare risorse adeguate allo sviluppo della societa' civile di questi paesi nello sviluppo di strategie congiunte di gestione dei conflitti violenti. La prefazione, curata dal Centro studi difesa civile, si occupa di cio' che l'Italia puo' fare per colmare il divario con gli altri paesi europei in tema di prevenzione e di peacebuilding: oltre a una nuova attenzione per le politiche di prevenzione, il testo chiede un salto di qualita' nell'impegno per la soluzione di crisi e conflitti di lunga durata, seguendo l'esempio di paesi come la Norvegia e la Svizzera. Nell'ottica della prevenzione possono essere inserite la creazione in Italia di un Istituto internazionale di ricerca sui conflitti e la pace e l'istituzione di un Corpo civile di pace. Oltre che per i contenuti, credo che la pubblicazione in italiano del "Presidency paper" sia importante per il processo che speriamo di innescare: ovvero di muovere il dibattito sul tema della pace dalle dichiarazioni di principio al concreto "che fare", qui e ora, delle agenzie governative e della societa' civile. Al di la' delle contingenze della politica italiana, un contributo a una cultura del dibattito e della proposta costruttiva.
· Esercito in Crisi!
Cammino Lento, Martoriato, ma Deciso degli Obiettori di Coscienza per una Difesa Popolare Nonviolenta Alternativa a quella Militare
di p. Angelo Cavagna; Dehoniano, GAVCI
Il problema della Leva Militare si presenta oggi attraversato da fermenti nuovi. Ad esempio siamo alla vigilia dell'attuazione della legge 331/2000 sull'esercito professionale (inizio previsto: 1 gennaio 2005), per cui i giovani che vogliono potranno scegliere liberamente il mestiere delle armi come una qualsiasi altra professione.
C'è la legge 64/2001 sul servizio civile volontario, in Italia o all'estero, divulgato con forza dal governo anche attraverso i vari mezzi di comunicazione di massa, già funzionante.
Al contrario, l'obiezione di coscienza (OdC) al servizio militare sembra in crisi e quasi destinata a sparire.
A guardar bene le cose, però, chi è veramente in crisi è l'esercito; e proprio a causa del fenomeno degli OdC.
L'esercito è in crisi
Probabilmente nemmeno i primi OdC, come Pietro Pinna mezzo secolo fa, o Fabrizio Fabbrini primo obiettore cattolico e gli altri, osavano sperare in uno sviluppo così rapido e consistente delle loro idee e del movimento che ne è seguito, fino a minare il sistema e l'idea stessa del militare.
Intorno all'anno 2000 il numero dei giovani italiani di leva che si dichiaravano obiettori tendeva ad equiparare il numero di chi accettava il militare, con la differenza che gli obiettori aumentavano di 10-20 mila all'anno. Di questo passo era prevedibile una riduzione degli effettivi dell'esercito a livelli del tutto inadeguati.
L'esercito e la maggioranza dei politici, sia di destra o di centro o di sinistra, sono corsi ai ripari varando la legge 331/2000 per un esercito di volontari superpagati e con privilegi occupazionali nei vari ministri e nelle strutture pubbliche. Senonchè, quasi tutti gli eserciti professionali faticano a trovare un numero di soldati volontari adeguato, nonostante l'apertura alle donne. Ad esempio, la Camera dei Lords in Inghilterra ha legiferato che i condannati alla galera possono uscire benissimo: basta che vadano nell'esercito. Gli USA hanno aperto l'esercito agli immigrati i quali, dopo cinque anni di servizio militare volontario, acquistano la cittadinanza americana. Ora ammettono anche gli omosessuali dichiarati. Gli spagnoli sono andati a prendere i discendenti dei loro antenati colonialisti in America latina: anch'essi, dopo cinque anni di soldato volontario, acquistano la cittadinanza spagnola.
Per tali ragioni,anche il ministro della Difesa italiano Martino fa ipotesi su ipotesi: arruolamento volontario dei terzomondiali con diritto alla cittadinanza;ricorso alle truppe mercenarie, che già esistono, costano meno e sono più efficienti (pagina intera de La Repubblica); ritorno alla leva obbligatoria. Insomma, non sanno più che pesci prendere.
Intanto il governo, per pagare i soldati inviati in Iraq aveva deciso di prelevare i soldi della cooperazione internazionale. Senonchè le ONG di volontariato hanno protestato, e con loro molti altri, cosicché tale misfatto sembra scongiurato.
E gli obiettori?
Occorre subito sfatare l'opinione diffusa nella quasi totalità della gente, giovani e non giovani, che con l'attuazione dell'esercito professionale verrà abolita la leva obbligatoria e, di conseguenza anche l'OdC al servizio militare. E' falso!
Basta citare la legge 331/2000, che al n.6 dell'art 1 dice testualmente: "Le forze armate sono organizzate su base obbligatoria e su base professionale ." All'Art 2 comma 1, lettera f) si specifica: "Personale da reclutare su base obbligatoria, salvo quanto previsto dalla legge in materia di obiezione di coscienza, nel caso in cui il personale in servizio sia insufficiente.nei seguenti casi:
1) qualora sia deliberato lo stato di guerra ai sensi dell'art 78 della Costituzione; 2) qualora una grave crisi internazionale, nella quale l'Italia sia coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione internazionale, giustifichi un aumento della consistenza numerica delle Forze Armate". Infine,sempre l'articolo 2, comma 2, aggiunge: “Il servizio militare obbligatorio nei casi previsti dalla lettera f) del comma 1 ha la durata di dieci mesi, prolungabili unicamente in caso di deliberazione dello stato di guerra".
Evidentemente, da quanto scritto nella legge 331/2000 risulta chiaro che la leva obbligatoria non è per nulla abolita, ma semplicemente "sospesa". Così pure, la medesima legge cita esplicitamente la necessità di dichiararsi obiettore per chi non voglia correre il rischio di venire assoldato obbligatoriamente proprio in caso di guerra, per di più con possibilità di prolungamento indefinito.
E' vero invece che il governo, sia l'attuale e sia i precedenti, ha sempre fatto di tutto per contrastare, snaturare, comprimere, dissolvere il "movimento obiettori". Il primo e più sintomatico attacco ai veri obiettori è stata l'abolizione delle 2000 lire al giorno a testa per i corsi di formazione.
Il vero motivo non era quello ufficiale della "mancanza di fondi", ma , come mi disse un funzionario del Lavadife: "Cosa insegnate in questi corsi?"; ossia: la cultura di pace e nonviolenza, la Difesa Popolare Nonviolenta organizzata, alternativa alla cultura militare della difesa armata o di sterminio.
Ciò che non capiscono o non vogliono capire la maggior parte dei politici, degli intellettuali, dei giornalisti,ecc.. è che esiste l'alternativa alla guerra e al "sistema di guerra", che la Difesa Popolare Nonviolenta non è passività e non è utopia, che va completata la "Via istituzionale alla pace" (La Pira "Pax ex Jure"- "Pace dal diritto"), ossia che va riformata radicalmente l'ONU con "Elezioni Mondiali" e vero "Governo Sopranazionale" con "Magistratura e Tribunale Internazionali Indipendenti", con conseguente "abolizione di Tutti gli Eserciti Nazionali o Continentali (uso “omicida" della forza)” come furono aboliti quelli cittadini e regionali al formarsi degli Stati nazionali. In altre parole, occorre una "VERA ONU", dotata anche di un "Corpo di Polizia Internazionale" (uso “non omicida" della forza, con struttura e formazione finalizzate alla eliminazione dell'avversario), come ha lucidamente scritto un personaggio di grande cultura ed esperienza militare, il gen Bruno Loi: "Non si possono mandare gli eserciti a fare azioni di polizia internazionale. La polizia, anzi dovrebbe essere dotata di armi intrinsecamente non letali”.
Ancora oggi è in atto uno dei tentativi più subdoli e deleteri per ridurre al minimo la dimensione numerica del movimento-obiettori, nel senso che l'obiettore che può esibire una richiesta scritta di assunzione da parte di un datore di lavoro viene lasciato a casa, senza fare un giorno né di militare né di servizio civile. Questo non è applicare la legge-obiettori, come dovere del governo, ma boicottarla.
Comunque il militarismo non l'avrà vinta. La società civile è viva. Le Leggi 230/1998 e 64/2001 parlano chiaro di "difesa non armata e nonviolenta,alternativa alla difesa militare".
Quindi anche il servizio civile include la finalità, la formazione e l'impiego di volontari per un servizio di pace e nonviolenza. Già esistono gruppi formati e consistenti di obiettori e volontari/e (Caritas, Papa Giovanni XXIII, FOCSIV, GAVCI ecc..) impegnati in missioni di pace all'estero come caschi bianchi. Recentemente si è formata attorno all'associazione "Berretti Bianchi" una folta rete nazionale di associazioni che operano per l'attuazione di Corpi Civili di Pace a livello nazionale ed europeo.
E’ ora di voltar pagina, di chiudere la storia di un mondo di guerre e atrocità immani, per lo più causate da interessi ignobili. C'è tutto un movimento mondiale, composto da giovani ma non solo, deciso a costruire una civiltà davvero umana: la civiltà dell'amore.
· Perché i Corpi Civili di Pace
di Angelo Gandolfi, Berretti Bianchi
L'idea dei corpi civili di pace nasce sostanzialmente dalla necessita' di ogni cittadino di riappropriarsi della quota minima di sovranita' popolare attribuitagli dalle piu' avanzate Costituzioni nazionali e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo.
Dinanzi alla crisi dello stato-nazione e del modello di rappresentanza che esso ha in qualche modo espresso, conseguente alla sempre piu' conclamata incapacita' di governi eletti con suffragio sempre piu' limitato, a causa del forte condizionamento esercitato da settori del mondo economico e finanziario e, in particolare, dal complesso militare - industriale, che ha come prima conseguenza l'appiattimento degli esecutivi sulla soluzione militare delle controversie internazionali, appare sempre piu' necessaria una spinta da parte dei singoli cittadini e delle comunita' locali nella determinazione di politiche di segno opposto.
Sono infatti i cittadini, depositari della sovranita' popolare, sia come singoli sia attraverso le loro aggregazioni ed organizzazioni da un lato sia come istituzioni, soprattutto a livello locale, dall'altro, ad avere il diritto e il dovere di applicare i dettati della nostra Costituzione che esclude il ricorso alla guerra palesemente violato dagli esecutivi. Dinanzi a questa incapacita' dei governi, e della classe politica in generale, di rappresentare la societa' civile determinata nella scelta di dare piuttosto corpo ad interessi di tutt'altra natura, che confliggono in buona sostanza con quelli dei gruppi di pressione delle imprese multinazionali tendenti a sostituirsi agli organismi degli stati - nazione nel tentativo di governare la globalizzazione. Dinanzi alla grave crisi istituzionale determinata dall’incapacita' delle classi dirigenti di governare un mercato sempre piu' selvaggio e privo di regole che premia la legge del piu' forte, la societa’ civile vede, come unica risposta possibile, l'assunzione di responsabilita' e di iniziative da parte dei cittadini. Il processo di difesa delle istituzioni democratiche, gravemente compromesse dall'arroganza di classi dirigenti sempre piu' autoreferenziali, assume oggi il carattere di resistenza verso quell'attacco all'universalita' e all'oggettivita' della certezza del diritto portato dai soggetti dominanti il mercato. Dalla privatizzazione delle risorse, determinata dalla loro esauribilita', alla distruzione dell'idea di societa' collettiva che introduce un futuro dell'economia assolutamente incerto dinanzi al quale sta andando in crisi la concezione stessa dell'economia come "scienza esatta". Diventa necessario, da parte della societa' civile, attrezzarsi per impedire quella che si profila all'orizzonte come una catastrofe annunciata, ma soprattutto per rilanciare l'unica vera idea di futuro e di progresso, legata alla definitiva affermazione dell'universalita' e dell'oggettivita' della certezza del diritto che, a partire dalla rivoluzione francese fu ispiratrice della grande stagione di affermazione dello "stato di diritto”. Diventa necessario da parte della societa' civile nutrire una prospettiva di opposizione "globale", potenzialmente di massa, da contrapporre all'arroganza di una minoranza, per quanto molto potente pur sempre esigua che, all'alba del terzo millennio, tende ad imporre un'idea di futuro centrata sulla sistematica distruzione di ogni diritto fondamentale.
In questo quadro l'idea del Corpo Civile di Pace diventa la messa a punto di uno strumento di autoprotezione a garanzia, in prospettiva, della definitiva estensione del pieno godimento di tutti i diritti fondamentali ad ogni persona che vive sul pianeta. Dal momento che in realta' non vi e' stato, negli ultimi secoli, un sol giorno in cui non fosse in atto un conflitto, in qualche angolo del pianeta. Il Corpo Civile di Pace vuole essere uno strumento politico per l’affermazione di una cittadinanza "responsabile" che recuperi il senso di appartenenza ad una collettivita', atto essenziale e dovuto per il ritorno ad un ideale di "libertà" che non sia il semplice ripristino di un valore mortificato e ridotto alla mera dimensione individuale, ma la base per una riformulazione dell'idea di “collettivita’ globale” e soprattutto per un’evoluzione che permetta di consegnare il pianeta alle generazioni future in condizioni migliori rispetto a quelle in cui versa attualmente.
· La Via dei Corpi Civili di Pace
di Silvano Tartarini, Berretti Bianchi
Quanto risolvano dei problemi dei popoli le soluzioni militari, ce l'ha appena spiegato il camion-bomba che ha fatto saltare la sede delle Nazioni Unite a Bagdad. Un attentato criminale e forse anche un attentato contro il popolo iracheno. Ma l'occupazione non e' anch'essa un continuo attentato contro il popolo iracheno? Tutto quello che sta succedendo da mesi in Iraq non dimostra a sufficienza che la soluzione militare e' sbagliata? Evidentemente si', ma non c'e' cieco piu' cieco di chi non vuol vedere. Cosi' Bush continua a promettere: "Iracheni, non vi lasceremo". Solo che gli iracheni, di ogni etnia, religione e ceto sociale, nella loro stragrande maggioranza non vogliono che cacciare gli stranieri. E' il loro primo bisogno e direi che si puo' anche capire.
Se i governi non riescono che a realizzare politiche di aggressione e di guerra, che devono fare i pacifisti? Da piu' parti del mondo pacifista ci si rende conto della difficolta' di
opporsi ad una politica di guerra e si riflette anche sulle modalita' dell'aiuto umanitario.
Sabato 19 luglio, a Nablus (Cisgiordania), sei pacifisti internazionali che stavano partecipando alla campagna dell'Ism "Freedom Summer in Palestine" sono stati arrestati dai militari israeliani. Il nostro Papisca in un suo recente intervento riflette sui limiti dell'Onu e propone di portare una parte significativa dei suoi uffici a Gerusalemme.
Alcune ong presenti a Bagdad si stanno recentemente ponendo il problema di realizzare un osservatorio in difesa dei diritti umani della popolazione locale, mentre i berretti bianchi stanno riflettendo sull'opportunita' di aprire in Iraq una ambasciata di pace e sono appena tornati dall'Iraq, dove hanno sondato e preso contatti in questa direzione.
Sono riflessioni, fatti e suggerimenti, che portano diretti al tema dei Corpi civili di pace. Di recente a Bologna, come e' noto, si e' tenuto un Forum di lavoro sul tema. Ne e' uscito un coordinamento - Rete corpi civili di pace - che mi auguro riesca rapidamente a concretizzare il da farsi. Ma cosa sono i Corpi civili di pace? Da dove vengono e in che misura potranno opporsi alla guerra e a una politica di guerra?
"Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra...": e' l'incipit della Carta delle Nazioni Unite e lo metto qui ad indicare il ruolo che la stessa carta affida alla societa' civile. Non c'e' scritto: noi eserciti o noi governi, ma noi popoli. E' quindi legittima la preoccupazione da parte dei popoli per quello che sta succedendo oggi nel nostro pianeta ed e' legittimo che gruppi di persone tra i popoli e dei popoli provino a porvi riparo, come possono e meglio che possono. Questa tendenza - di una parte della societa' civile - a opporsi e porre riparo alla politica di guerra degli stati va avanti ormai da piu' di dodici anni, da quella prima guerra del Golfo del 1991, che ha misurato l'inizio di un'epoca nuova.
I Corpi civili di pace, sono oggi, quindi, quella parte della societa' civile, preoccupata degli effetti devastanti della guerra, che si e' attivata per costruire una risposta concreta. E il problema e' tutto qui: la parte che si e' attivata e' ancora troppo piccola ed ancora troppo poco consapevole dell'urgenza e delle responsabilita' che ha di fronte. La stessa "rete corpi civili di pace" esiste in Italia ancora solo sulla carta. Ancora grossa parte del mondo pacifista e' d'accordo, ma lontano. Semplicemente, non individua ancora nei corpi civili di pace una priorita'. E' ovvio che per me, invece, e' la priorita' delle priorita'. Tuttavia, anche se su questa priorita' ha lavorato una minoranza, molto e' stato fatto. Non solo l'intervento in zona di conflitto di volontari della societa' civile, come i nostri berretti bianchi, ma anche l'intervento di obiettori in servizio civile, come i caschi bianchi. Qualcuno si domanda che differenza c'e' tra i caschi bianchi e i berretti bianchi o corpi civili di pace. La differenza che c'e' tra la parte e il tutto. I caschi bianchi sono gli obiettori che intervengono all'estero in zona di conflitto e sono stati finora solo giovani e maschi e quasi sempre cattolici. Una parte precisa della societa' civile, quindi una parte dei futuri corpi civili di pace. Una parte, perche', a mio avviso, i corpi civili di pace devono essere espressione della sensibilita' di tutta la societa' civile di qualsiasi eta', sesso e credo. Detto questo, mi guardo bene dall'affermare che i berretti bianchi o l'Operazione Colomba o altri sono gia' i corpi civili di pace. Dico solo che ne sono una prefigurazione. Solo quando finalmente avremo i corpi civili di pace, riconosciuti internazionalmente come espressione intera della societa' civile, avremo lo strumento per opporci interamente alla guerra sul pianeta e solo allora potremo iniziare a costruire nei fatti una politica estera di pace. Ecco perche' realizzare i corpi civili di pace e' oggi la priorita' delle priorita'.
Molto del mondo pacifista, invece, si occupa intensamente ancora solo di aiuto umanitario. Sarei tentato di dire che l'aiuto umanitario non serve se non e' legato ad un progetto politico che vuole modificare una realta' sbagliata. Ma cosa so per dirlo? Troppo poco. Quindi dico solo che l'aiuto umanitario da solo non basta se non si lavora nello stesso tempo per costruire la pace nella giustizia, cioe' se non si fa politica di pace, la politica che mette al primo posto la pace come bisogno dei bisogni degli abitanti del pianeta per poter soddisfare le proprie necessita' e aspirazioni in un mondo finalmente normale e non in un mondo surreale come e' oggi il nostro pianeta devastato dalla guerra. Quindi, c'e' ancora molto da chiarire anche tra di noi. A partire dal fatto che in pochi e con pochi mezzi non si puo' fare che poco.
L'appello che si vuole far uscire dalla camminata nonviolenta da Assisi a Gubbio vorrebbe costruire il salto di qualita' dalla generica indignazione al programma costruttivo. Personalmente sono cosi' d'accordo che spero che ne esca un appello a tutte le ONG, senza distinzioni, perche' impegnino concretamente un poco del loro tempo per aiutare la realizzazione dei corpi civili internazionali di pace, a partire dal nostro paese. Una ventina di anni fa, all'interno del mondo pacifista, specialmente nell'area antilimitarista integrale e nell'aria nonviolenta, si comincio' a discutere di difesa popolare nonviolenta. Molti ritenevano, e per una prima parte tra questi anch'io, che non ci fosse alcun bisogno di difesa e che riconoscere il bisogno della difesa implicava comunque l'individuazione di un nemico; che era proprio quello a cui noi ci opponevamo perche' gia' veniva regolarmente fatto dalla cultura militare dei governi. Oramai so da tempo che e' sbagliato porre il problema in questi termini. La domanda a cui si deve rispondere non e' "da chi mi devo difendere?", ma "come posso stare in pace assieme agli altri?". E' una ricerca, quindi, la nostra, di sicurezza comune basata sulla gestione dei conflitti, che tiene conto dei bisogni e del rispetto della cultura dei diversi popoli, con i quali si vuole vivere in pace e non in una schizofrenia armata.
I corpi civili di pace non sono, quindi, che l'evoluzione del progetto originario della difesa popolare nonviolenta e nascono da quel crogiolo antimilitarista e nonviolento che era ed e' la campagna nazionale di obiezione di coscienza alle spese militari per la difesa popolare nonviolenta (osm-dpn).
In tempi di nuovo modello di difesa, i corpi civili di pace sono il nostro nuovo modello di sicurezza. E sono quella parte della societa' civile che, nel rifiutare la guerra, si attiva prima, durante e dopo per impedirla e cancellarne anche la memoria dal nostro pianeta. Cosi', da amico imperfetto e approssimato della nonviolenza, mi auguro che sempre piu' persone facciano questo come assunzione di responsabilita' e lo facciano in nome della nonviolenza, per quanto poco abiti in noi.
· Europeans Civil Peace Corps
di Arno Truger, Direttore del Centro Studi Austriaco per la Pace e la Risoluzione dei Conflitti
Obbiettivi:
La prima priorità di un ECPC in relazione alle crisi causate dall’uomo, sarà la trasformazione dei conflitti; attraverso la prevenzione delle escalation nei conflitti, contribuendo inoltre alla de-escalation. Tuttavia, i Corpi potrebbero anche occuparsi di crisi umanitarie relative a disastri naturali. La politica che identifica il Consiglio Europeo di Feira, rafforza il ruolo della legge, amministrazione civile e protezione civile sono tra le quattro aree prioritarie di lavoro, in cui l’Unione intende istituire capacità specifiche da usare in operazioni condotte da agenzie leader, come le Nazioni Unite o l’OCSE, o in missioni autonome guidate dall’Unione.
Questo impegno è stato reiterato dal Consiglio Europeo di Nizza, che ha sottolineato che l’Unione Europea dovrebbe “continuare le sue discussioni sulla base delle raccomandazioni fatte dal Consiglio Europeo di Feira con lo scopo di definire obbiettivi concreti per fornire all’EU risorse disponibili allo scopo di confrontarsi efficacemente con complesse crisi politiche” Per le aree di regole e leggi e amministrazione civile, obbiettivi concreti sono stati individuati nel III Allegato del Presidency report on European Security and Defence Policy to the Göteborg European Council. La Resolution of the European Parliament on the Commission Communication on Conflict Prevention accoglie “il programma per la prevenzione dei conflitti violenti deciso dal Consiglio Europeo di Goteborg il 15 e 16 giugno 2001, e in particolare il concetto della ‘cultura della prevenzione’ come è espresso in quel programma”
Approcci:
L’ECPC dovrebbe adottare un approccio complessivo basato sulle indicazioni generali fornite dai Consigli Europei di Feira e Goteborg, nelle loro conslusioni, in particolare nel III Allegato del Presidency Report on European Security and Defence Policy to the Göteborg European Council. Inoltre, l’approccio dovrebbe costruire sulle categorie di personale identificate dal Committee for Civilian Aspects of Crisis Management, e sull’arco di esperti necessari agli interventi all’interno di una cornice data da un Meccanismo di Reazione Rapida (Rapid Reaction Mechanism), le cui modalità sono attualmente sviluppate dalla Commissione Europea. Categorie e funzioni, così definite, terranno in considerazione lo Staffing Matrix dello schema di reazione dell’OSCE. Gli esperti degli Stati Membri dell’EU e di diverse organizzazioni internazionali come l’ONU, l’OSCE e il Consiglio d’Europa dovrebbero anch’essi contribuire all’approccio degli ECPC.
Gli ECPC dovrebbero tener conto delle diverse fasi nel ciclo della gestione dei conflitti collegando la prevenzione dei conflitti e la loro gestione a programmi di lungo periodo per l’assistenza alla riabilitazione e ristrutturazione.
Per questa ragione gli ECPC necessitano di stabilire le seguenti capacità:
· copertura di tutte la fasi di prevenzione del conflitto, gestione dello stesso e riconciliazione post-conflitto;
· per l’intero spettro di funzioni e compiti richieste dalle diverse fasi del ciclo di gestione del conflitto; missioni di lavoro che includano consultivi, monitoraggio, dimostrare fatti, investigare ed approfondire, training e capacity-building, così come per i compiti esecutivi
· sostegno delle realtà locali nelle aree di conflitto compatibilmente con la società civile
· relazioni con altri attori sul campo e in cooperazione con rilevanti organizzazioni inaternazionali, in particolare l’ONU, l’OSCE e il Consiglio d’Europa.
Aree Funzionali:
Seguendo questo approccio, l’ECPC dovrebbe coprire un numero di aree di operazione che sono intimamente correlate con le sfere dell’amministrazione civile e le regole e le leggi così come specificamente definite, e che sono comprese nell’insieme delle funzioni portate avanti correntemente da personale civile sul campo. Il Progetto dell’EC sul training per gli Aspetti Civili della Gestione delle Crisi (Training for Civilian Aspects of Crisis Management) identifica le seguenti funzioni che sono state anche adottate dalla Conferenza Europea sotto la Presidenza Spagnola nell’aprile 2002 a Madrid.
Il Ruolo della Lagge
La priorità nell’area del Ruolo della Legge è di essere visibile in un contesto completo che abbracci:
· The Rule of Law (includendo la promozione, il rafforzamento del ruolo della legge nell’amministrazione della giustizia, così come nell’amministrazione civile in generale)
· Human Rights (includendo il monitoraggio, la dimostrazione dei fatti, redigere rapporti, la promozione dei diritti umani, la capacità di risolvere e rimediare ai problemi, così come l’educazione ai diritti umani)
· Democratisation and Good Governance (includendo dinamiche di formazione dello Stato nelle società affette da crisi, rafforzamento della società civile, buon governo, capacità di rafforzare l’impatto delle azioni intraprese).
Amministrazione Civile
Per l’area di priorità dell’Amminisrtazione Civile (III Allegato delle conclusioni del Consiglio Europeo di Goteborg) i temi delle Funzioni Amministrative Generali, Funzioni Sociali e Funzioni Ifrastrutturali, esse sono menzionate. La Presidenza Spagnola ha elaborato una lista dettagliata dei profili di esperti in amministrazione civile. Con lo scopo di analizzare quest’area di priorità, diverse audizioni di esperti sono state organizzate dal Progetto ed è stato condotto uno studio sul campo, sulla pratica degli amministratori civili. Come area funzionale aggiunta nel campo delle “funzioni sociali”, è stata identificata l’integrazione dei combattenti, dei rifugiati e delle persone sfollate.
Le analisi dimostrano un altamente diversificato arco di funzioni amministrative. Con lo scopo di definire i campi di addestramento per queste funzioni è emerso per tutte le funzioni, organizzative, di sviluppo e gestionali, verranno richiesti esperti delle amministrazione civile senza riguardo per l’area in cui lavoreranno.
Aree aggiunte
Sono tre le aree di funzioni aggiunte, che si riferiscono alle aree di competenza delle amministrazioni civili e a quelle di competenza del Ruolo della Legge, queste aree sono incluse nella lista delle funzioni maggiori da preparare per:
· Gestione del Conflitto (incluse negoziazioni, mediazioni, facilitazioni, conciliazioni e buoni uffici)
· Stampa e Pubblica Informazione – Sviluppo dei Media (includendo funzioni sostanziali con lo scopo di promuovere media indipendenti, pluralisti e professionali, così come funzioni di mission-support per integrare l’organizzazione della missione all’interno della cultura locale verso cui diffondere le informazioni sulla missione stessa)
· Missione di Amministrazione e Sostegno (includendo comunicazioni, tecnologia delle informazioni, sicurezza, trasporti, logistica, approvvigionamento, budget e finanze, gestione delle risorse umane, addestramento e riferimento alle dirette funzioni di sostegno relative all’implementazione nell’organizzazione della missione).
Gli ECPC dovrebbero anche essere incaricati di osservazioni elettorali e attività di assistenza, per cui addestramenti specifici sono portati avanti nella cornice del Network of European Electoral and Democracy Support (NEEDS). Tuttavia, missioni di polizia o personale con compiti strettamente umanitari non sono comprese nello scopo pricipale degli ECPC. Interventi di Protezione Civile nella gestione dei conflitti sono considerate all’interno della cornice del Meccanismo Comunitario, al fine di facilitare e rafforzare la cooperazione e l’assistenza durante interventi di protezione civile. Tuttavia si potranno tenere in considerazione possibili connessioni tra queste aree, in futuro.
Valore aggiunto di un ECPC:
Con riferimento alle entità europee e agli stati membri dell’Unione, un ECPC potrebbe assicurare che:
· Fondi EU sarebbero spesi in progetti compatibili con gli interessi europei.
· Il sostegno EU verrebbe reso visibile.
· Gli stati membri dell’EU verrebbero aiutati nella preparazione e nel reclutamento del personale per le missioni.
· Il coordinamento tra gli stati membri dell’EU e altri attori che ricevono fondi europei per attività di peace building, sarebbero facilitati ad impedire gli sprechi
· I fondi dell’EU verrebbero spesi in modo efficiente.
Gli ECPC funzioneranno solamente con un mandato fornito dalle Nazioni Unite o dalle sue organizzazioni regionali: OSCE, OAU o OAS. E contribuiranno allo stabilimento dei contatti necessari tra la realtà degli sforzi diplomatici da una parte e la società civile dall’altra. Come corpo di peace-building, ECPC si diversificherà dagli sforzi di peace-making in campo diplomatico. Le missioni di ECPC si relazioneranno solo in assenza di operazioni militari violente, sulla base di una sorta di cessate il fuoco con il consenso delle parti in causa.
In qualità di Corpo Ufficiale, l’ECPC differisce dalle ONG. Tuttavia, il lavoro di ECPC si relazionerà in una effciente cooperazione con le ONG rafforzandone e legittimandone il lavoro. Le ECPC saranno strutturate e organizzate indipendentemente dai corpi militari, ma potranno collaborare con i militari dove le loro missioni coincidano con operazioni di peace-keeping.
Organizzazione:
Co lo scopo di assicurare le sopra descritte funzioni dell’ECPC, un segretariato a livello istituzionale europeo è necessario. Il Segretariato servirà soprattutto come corpo di coordinamento con le seguenti funzioni:
· Preparae le missioni europee o il contributo a missioni di altre organizzazioni internazionali come l’ONU e l’OSCE.
· Organizzare l’assetto dei bisogni causati dall’impatto del conflitto
· Preparae l’implementazione di una missione o il personale necessario alla stessa.
· Creare una lista di personale qualificato alla missione interessato a partecipare a missioni guidate dall’EU o a sostenere missioni in diretta cooperazione con gli stati membri e con i network per l’addestramento dell’EU (come il NEEDS e l’EU Group on Training)
· Sostegno al processo di reclutamento per la preparazione del personale in diretta cooperazione con gli stati membri dell’EU e con i network per l’addestramento dell’EU (come il NEEDS e l’EU Group on Training).
· Dispiegare e gestire le missioni EU o le missioni EU di sostegno (come un pilastro europeo alle missioni dell’ONU)
· Istruire il personale della missione
· Contatti con altre organizzazioni internazionali, governative e non, con riferimento al coinvolgimento nelle missioni EU.
Alcuni commenti alle domande poste:
4.1 Sono contrario ad un’Istituto centrale per il training, sarebbe costoso, inoltre le strutture e le capacità esistenti all’interno degli stati membri sarebbero neglette, innescando un meccanismo di competizione estremamente negativo, e anche i network a livello Europeo ne verrebbero negletti.
4.2 Dovrebbero esserci due liste, una compatibile con il livello europeo e una per gli stati membri e anche per le istituzioni preposte all’addestramento
4.3 La gestione delle missioni deve essere affidata al Segretariato Europeo mentre, alcune missioni appaltate ad altri potrebbero solo essere supervisionate.
Per quanto riguarda il Segretariato, si puo’ averne uno stabilito dalla Commissione Europea, con un Consiglio esecutivo. Oppure se ne puo’ istituire uno con un atto del Consiglio amministrato dal Consiglio stesso.
Aprile 2003
Traduzione a cura di Maurizio Cucci
· Corpi Civili di Pace, tra Professionismo e Azione Diretta di Interposizione Nonviolenta Animata dal Volontariato di Massa.
di Maurizio Cucci, Berretti Bianchi
Evidentemente ci sono delle notevoli differenze di approccio, tra la visione europea dei CCP, la dimensione italiana e la realtà sul campo. Personalmente mi colloco lontano dalla visione di Arno Truger, considerandola eccessivamente elittaria e troppo legata alle strutture dei poteri forti per poter essere genuinamente pacifista e nonviolenta non solo nei metodi ma anche e soprattutto nei risultati, tuttavia non si può neppure negare a priori che il professionismo specializzato sia premessa indispensabile per attuare mediazioni di prevenzione, mantenimento e ricostruzione della pace nelle zone di conflitto. Credo piuttosto che un’interazione costruttiva e intelligente tra il professionismo e la vocazione di massa all’interposizione nonviolenta possa essere la formula vincente in grado di veicolare i CCP verso il raggiungimento di risultati coerenti ed in sintonia con i principi che ne animano l’idea e che si sono diffusi in modo così sorprendente durante l’ultimo decennio.
Per quanto mi riguarda l’attuale realtà sul campo è fatta, da un'attivista americana sepolta viva da un bulldozer israeliano, da un inglese ventiduenne assassinato a Gaza da un cecchino israeliano e da un altro al quale, a Jenin, hanno asportato mezza faccia con un colpo estraneo alle regole d'ingaggio. La realtà sul campo palestinese dal 16 marzo al 31 maggio 2003, conta tre internazionali uccisi dall’esercito, tra cui un giornalista. Due feriti, undici arrestati, diciotto respinti, di cui nove riammessi e tre chiusi nella Striscia di Gaza, impossibilitati ad uscirne.
Io non credo che queste migliaia di italiani e centinaia di migliaia di giovani occidentali che pongono la disponibilità dei loro corpi e delle loro vite per difendere i diritti umani, abbiano veramente bisogno di un'ennesima Macro Organizzazione Multinazionale, c’è già l’ONU. Ne, tanto meno, di un'ennesimo progetto pilota strumentalizzato dai poteri forti. Io credo che le piccole org che si fanno sparare addosso, sequestrare, maltrattare e assassinare a gratis in nome dei diritti umani e della difesa civile nonviolenta delle popolazioni che vivono in zone di conflitto, spesso sostituendo l’ONU laddove non è gradito, abbiano acquisito nel corso della loro esperienza un patrimonio di risorse umane imprescindibile. Queste persone offrono la loro vita in cambio dei valori in cui credono e non si meritano di essere discriminati, inoltre sarebbe un grave errore politico sottovalutarne le capacità e l’esperienza.
Io credo che queste vite, sale della terra e futuro dell'umanita', abbiano bisogno di essere tutelate legalmente, economicamente e a livello di addestramento, che i loro report debbano trovare diffusioni più ampie, cosi' come i loro progetti dovrebbero essere facilitati, per ristabilire uno straccio di giustizia su questo pianeta. Ed è proprio a questo che dovrebbero servire le Istituzioni, a favorire e proteggere i Corpi Civili di Pace, che sono l’emanazione di uno straordinariamente vasto movimento di coscienza che tende ad escludere l’idea della guerra come proseguimento del confronto politico.
Aprile 2003
ASSEMBLEA NAZIONALE DI RETE LILLIPUT
MARINA DI MASSA 23 – 25 maggio 2003
· Un’Alternativa di Pace per l’Europa di Domani
di Paolo Bergamaschi, Consigliere per gli Affari Esteri del Gruppo Verde presso il Parlamento Europeo
Era il maggio del 1995 quando durante un dibattito sul futuro dell'Unione il Parlamento Europeo adottava a sorpresa un emendamento di Alexander Langer sulla creazione di un Corpo Civile di Pace Europeo come primo passo per contribuire alla prevenzione dei conflitti. La guerra e la pulizia etnica in Bosnia, allora, stavano mostrando gli aspetti più efferati così come emergevano tragicamente i nodi di una scriteriata politica estera europea nei Balcani.
L'idea poggiava sulla constatazione che l'esclusivo approccio militare non è in grado di risolvere le crisi e soprattutto non fornisce i mezzi per lo sviluppo e la conclusione di un vero processo di pace in caso di conflitto violento. Ad un peace-keeping militare va sempre affiancato o dato seguito un peace-keeping civile, si asseriva, alla gestione militare di una crisi deve essere affiancata quella civile.
Questa proposta è stata successivamente ripresa nel 1999 dal Parlamento di Strasburgo sottoforma di una raccomandazione al Consiglio cercando di mettere insieme e valorizzare le esperienze di molte organizzazioni non governative in vari angoli del mondo. Queste ONG, forti di competenze specifiche e azioni prolungate sul campo, avrebbero dovuto costituire il nucleo iniziale di un Corpo Civile di Pace Europeo inteso come struttura non molto ampia ma flessibile specializzata nell'attuazione di misure pratiche per la realizzazione della pace quali l'arbitrato e il ristabilimento di un clima di fiducia fra le parti belligeranti, la distribuzione di aiuti umanitari, il disarmo, la smobilitazione ed il reintegro degli ex-combattenti, la riabilitazione, la ricostruzione e il monitoraggio della situazione dei diritti umani.
La Politica Europea di Sicurezza e Difesa
La successiva crisi in Kosovo ha fatto scivolare di nuovo in secondo piano questa proposta provocando fra i paesi europei, in seguito ai malcelati dissensi con il governo americano, la necessità di definire e mettere in piedi con urgenza una politica europea di sicurezza e difesa (PESD). Si è così cercato di trovare un accordo con la NATO per l'uso delle sue strutture e delle sue capacità operative (bloccato prima dalla Turchia, membro dell'alleanza atlantica, poi dalla Grecia e solo recentemente accettato dalle parti), si è accelerato il progetto di un modello europeo di aereo da trasporto di truppe e di mezzi, si è rafforzata l'idea di una rete satellitare europea ed è partita la costituzione di una Forza di Reazione Rapida di 60.000 uomini in provenienza dai diversi paesi membri. Il fatto, poi, che il segretario in scadenza della NATO, lo spagnolo Solana, diventasse il primo Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione Europea dirottava ancor di più l’Europa verso una preoccupante dimensione militare.
Contro questa deriva si è levata forte la voce dei paesi neutrali, in particolare Svezia e Finlandia, i cui governi sono stati sottoposti alla pressione insistente delle rispettive opinioni pubbliche timorose che questo passo comportasse l'abbandono di uno status profondamente radicato nella loro storia e cultura. Contemporaneamente nell'Europarlamento una consistente parte delle sinistre (Verdi, Gruppo della Sinistra Unitaria e parte del Gruppo Socialista) hanno cominciato a bersagliare le presidenze di turno dell'Unione Europea affinchè si definisse in tempi rapidi anche una vera politica di gestione civile delle crisi che controbilanciasse l'approccio militare salvaguardando la tradizione, l'immagine ed il profilo di pace dell'Unione stessa.
Una politica integrata di prevenzione dei conflitti
In seguito a questo a metà del 2001 la Commissione Europea ha pubblicato un documento sulla prevenzione dei conflitti elaborando il concetto di un approccio integrato alle aree di crisi in cui fare confluire in modo coerente le politiche comunitarie di sviluppo e cooperazione, gli accordi economici e commerciali, il controllo del commercio di armi e i programmi di sostegno alla democrazia, allo stato di diritto, alla società civile e ai mezzi di informazione indipendenti. In questo documento ci si interroga sugli effetti delle sovvenzioni agricole comunitarie sui paesi in crisi, sul rifiuto ad aprire i mercati europei a buona parte dei prodotti più sensibili (compreso riso, zucchero e banane), sulla disponibilità ad effettuare transazioni commerciali con paesi che non rispettano nè gli standard ambientali nè i diritti umani. Parallelamente alle azioni di prevenzione a lungo termine, secondo la Commissione, l'UE dovrebbe migliorare la propria capacità di reazione rapida a fronte di situazioni che in un dato paese minacciano di deteriorarsi irreparabilmente. Nel documento viene introdotto inoltre il concetto di stabilità strutturale individuando i fattori di rischio e gli indicatori secondo i quali far scattare questi meccanismi di rapido intervento.
Il richiamo del Parlamento Europeo
Nell'ultima plenaria del 2001 il Parlamento Europeo ha preso in esame le proposte della Commissione e pur apprezzandone i contenuti ha ribadito la necessità di istituire un Corpo Civile Europeo di Pace come indispensabile strumento di intervento dell'Unione nelle aree di crisi in linea con quanto affermato nelle sue precedenti risoluzioni. Nel testo si pone inoltre l'accento sull'esigenza di rafforzare la cooperazione e sviluppare la massima sinergia di azione con le Nazioni Unite, l'OSCE e le loro diverse agenzie.
Nonostante gli sforzi prodotti dall'Europarlamento è evidente che si è prodotto un dialogo fra sordi con il Consiglio e la Commissione Europea nella veste di quelli che non vogliono, non possono o non riescono a dar seguito alle proposte parlamentari.
Eppure basterebbe guardarsi attorno per rendersi conto dell'immenso lavoro svolto dalle ONG nei Balcani e di come queste abbiano spesso supplito alle insufficienze progettuali delle istituzioni internazionali, di come ad un processo di ricostruzione fisico sia spesso mancata la chiarezza e la decisione necessaria per la ricostruzione civile dei paesi coinvolti, di come la riconciliazione fra le parti ed il ristabilimento di condizioni minime di convivenza sia rimasto un progetto sulla carta.
La voce dei pacifisti è ancora debole
E' giunto probabilmente il momento di fare un bilancio ed un'analisi comparata dei processi di pace in corso e dei conflitti che ancora covano sotto la cenere delle macerie con particolare riferimento ai Balcani e al Caucaso. L'esaltazione e l'ostentazione da parte dei governi dei paesi dell'Unione Europea delle ormai troppo frequenti missioni internazionali di pace dei rispettivi eserciti maschera in realtà una carenza di idee di fondo che impedisce una visione equilibrata e globale dei fattori di rischio e degli strumenti più efficaci ed appropriati di intervento. E spesso le missioni umanitarie diventano il cavallo di Troia per giustificare l’utilizzo del militare a scapito del civile.
Terrorismo e crisi irachena
La minaccia del terrorismo e la guerra in Iraq hanno accelerato in modo drammatico anche in Europa il processo di militarizzazione del concetto di sicurezza. Ad un approccio olistico e multifattoriale si è contrapposta nella popolazione la concezione che solo una risposta armata può metterci al sicuro da brutte sorprese. Le ristrettezze di bilancio e la stagnazione economica hanno consentito fino ad oggi di resistere al forte richiamo di aumentare le spese militari ma fino a quando questo sarà possibile?
Dal primo gennaio di quest’anno, intanto, in Bosnia è partita la prima missione di polizia internazionale sotto la bandiera dell’Unione Europea e il 31 marzo è cominciata la prima operazione militare dell’Unione in Macedonia, l’operazione di peace-keeping “Concordia” che ha sostituito “Allied Harmony” della NATO. Con la risoluzione 1484 del 30 maggio 2003, inoltre, il Consiglio di Sicurezza, delle Nazioni Unite ha per la prima volta affidato all’Unione Europea una missione di peace-keeping (chiamata in codice “Artemis”) fuori dai confini del continente autorizzando il dispiegamento fino al primo settembre di quest’anno di una forza multinazionale di emergenza nella regione di Bunia in Congo. Si discute ancora di altre possibili missioni in Transdnistria e di sostituire la SFOR in Bosnia. Entro la fine di quest’anno, poi, dovrebbe diventare operativa la Forza di Reazione Rapida con il compito di condurre le cosiddette missioni di Petersberg (missioni umanitarie e di salvataggio, peace-keeping e peace-enforcing). Sta inoltre per cadere il veto all’utilizzo di fondi europei per la ricerca militare e nel progetto di costituzione europea in corso di discussione alla Convenzione sul Futuro dell’Europa si propone l’istituzione di un’Agenzia per gli Armamenti e la Ricerca Strategica che a mio avviso porterà ad aumentare la pressione dell’industria bellica continentale. Altre iniziative sono in corso, come quella di Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo del 29 aprile, ma per adesso non sembrano ottenere la risposta unanime di tutti i 15 paesi membri.
A proposito di Convenzione, si sta giocando in questi giorni il futuro del nostro continente. Il movimento per la pace non può chiamarsi fuori da questo processo. Alcuni paletti chiari vanno fissati in questo difficile percorso con le seguenti proposte da includere nella costituzione europea:
1) l’inserimento di un articolo analogo all’art.11 della nostra costituzione con una dichiarazione di principio per il ripudio della guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali;
2) un’Unione Europea che agisce in un ambito multilaterale a sostegno delle Nazioni Unite e degli altri organismi internazionali;
3) un’Unione Europea promotrice di pace e disarmo globale che si batte contro la proliferazione incontrollata delle armi convenzionali, il commercio e l’uso di armi con carattere indiscriminato ed eccessivo e delle armi di distruzione di massa;
4) la creazione di una Agenzia Europea di Difesa (invece di quella degli armamenti) che sviluppi in modo equilibrato anche gli aspetti civili e la difesa nonviolenta;
5) in questo contesto va rilanciata anche la proposta di istituire un Corpo Civile di Pace Europeo che non si occupi solo di aspetti umanitari come si propone oggi ma che contempli anche e soprattutto il peace-keeping civile.
L’Unione Europea è indiscutibilmente il più grande progetto di pace della storia contemporanea e tale deve rimanere. Non può pensare di copiare o imitare la politica muscolare degli Stati Uniti. E’ senza dubbio necessario integrare e razionalizzare le spese militari dei paesi membri per evitare gli sprechi e le inefficienze attuali ma occorre rafforzare innanzitutto la dimensione civile della gestione delle crisi evitando di prendere parte ad una corsa al riarmo ormai fine a se stessa che nemmeno la guerra al terrorismo è in grado di giustificare. Se oggi il peace-keeping europeo è molto gettonato a livello internazionale è perchè ai mezzi militari l’UE è in grado di affiancare un expertise di nation-building e aiuti umanitari, di ricostruzione e riabilitazione che altri soggetti non hanno. E poi una politica di difesa comune è diretta conseguenza di una politica estera e di sicurezza comune. Oggi purtroppo siamo al paradosso in cui si fanno significativi passi in avanti per la prima senza che nulla venga fatto per rendere efficace la seconda. Come è possibile sviluppare mezzi militari europei se la politica estera europea continuerà ad essere vittima di inguaribili paralisi e veti incrociati? Separare la difesa dalle relazioni esterne sarebbe un errore gravissimo funzionale soltanto alle lobby militari e all’industria bellica.
Un’Europa sulla scena mondiale come potenza civile senza essere potenza militare è la vera sfida che ci troviamo ad affrontare, la scommessa che dobbiamo vincere. Spetta però anche ad un movimento pacifista maturo e forte della propria progettualità far sentire la propria voce e far crescere la cultura nonviolenta anche nelle istituzioni.
FORUM VERSO I CORPI CIVILI DI PACE
Bologna 6 – 8 giugno 2003
· Comunicato Stampa
di Silvano Tartarini, Berretti Bianchi
Perugia, 4 giugno 2003
A cura dell'Ufficio Stampa della Segreteria Organizzativa del Forum Verso i
corpi civili di pace. Per una politica europea non armata
ACCADE DOMANI
Forum sui Corpi Civili di Pace, proposte di politica estera.
Al Forum saranno presenti numerose organizzazioni che operano con interventi di civili in zone di conflitto. Obiettivo del Forum è creare una sinergia, tra quanti in Italia si occupano di corpi civili di pace, che:
· facilitino il lavoro delle organizzazioni membre,
· lavorino per poter dare un riconoscimento ufficiale alle organizzazioni membre facendone aumentare il peso politico,
· s'impegnino a sostenere i volontari delle organizzazioni membre nel loro lavoro sul campo,
· cerchino in tutti i modi leciti di reperire fondi che sostengano i progetti delle organizzazioni membre,
· acquisiscano i report dei monitoraggi dei volontari sul campo e li facciano circolare tra i membri del Parlamento Europeo.
Per gli organizzatori del Forum l'impegno per la pace non è solo una dichiarazione di principio, lontana dal realismo della politica internazionale. Scegliere la pace significa costruirla negli atti concreti, nelle scelte quotidiane ed in quelle di politica estera, non solo durante i momenti di crisi.
Il vastissimo patrimonio di esperienze di solidarietà internazionale che l'associazionismo italiano ha praticato negli ultimi decenni chiede riconoscimento istituzionale, per renderlo uno strumento della politica estera italiana nel mondo. Il Forum rappresenta la proposta delle organizzazioni non governative italiane sulla prevenzione dei conflitti anche in vista del semestre di presidenza italiana dell'Unione Europea.
Alcuni paesi, tra cui l'Italia, hanno approvato leggi che legalizzano i cosiddetti "Caschi Bianchi" (230/98) riconoscendoli come sostitutivi di un eventuale servizio militare obbligatorio, e si sono pronunciati per permettere, con l'aiuto dello Stato, alle persone che ne fanno parte di fare interventi nonviolenti in aree di conflitto anche all'estero.
Segreteria Organizzativa Forum
Verso i corpi civili di pace. Per una politica europea non armata.
· Riflessione sulle occasioni perdute
di Alberto Labate, Berretti Bianchi
Alex Langer è stato il primo parlamentare europeo ad avanzare la proposta di Corpi Civili di Pace Europei e recentemente c’è stata una nuova mozione del Parlamento Europeo che richiama Alex Langer, anche se all’interno di un quadro molto militaresco. In seguito si vedrà se l’idea della Presidenza Greca e di Prodi, di anticipare l’esercito europeo con un primo nucleo di Corpi Civili di Pace Europei sia un’ipotesi realizzabile o meno. Dal Titolo del testo di Paolo Bergamaschi che poi approfondirà questo argomento, non mi sembra un ipotesi molto realizzabile. Vi si intuisce molto di più l’idea di un’Europa armata e quindi con un problema di fondo su cui riflettere.
Ho cercato di buttar giù delle riflessioni, senza dover ripetere storie e cose già scritte e dette. Riflessioni un po’ autocritiche perché mi sembra che intorno al movimento pacifista ci sia un po’ troppo autocompiacimento per il sorprendente successo delle manifestazioni del 15 febbraio 2003, quando milioni di persone sono scese in piazza per manifestare contro la guerra. E, sicuramente, bisogna prendere atto di questo evento e della sua forza intrinseca. Però mi sembra doveroso prendere altresì coscienza dei limiti della nostra azione, che sono molto forti;
· Prima riflessione:
Durante la prima guerra del Golfo eravamo riusciti a convincere le autorità iraqene, che avevano promesso di invitare per Natale i parenti degli ostaggi, di liberare gli ostaggi e di invitare anche i pacifisti, cosa che è stata fatta. Ci siamo andati ed eravamo nel campo della Pace che avevamo organizzato in Iraq. Purtroppo la liberazione degli ostaggi, che doveva servire come primo atto di apertura del regime di Saddam Hussein ricevette la risposta di Bush padre che fu di un cinismo terribile – “Hanno liberato gli ostaggi, quindi ora possiamo bombardare” –
Così, invece di servire ad aprire un dialogo di mediazione, il successo ottenuto della liberazione degli ostaggi fu funzionale all’accelerazione dell’inizio del conflitto. In quest’ultima guerra del Golfo è successo qualcosa di analogo, il movimento è sceso in piazza in modo massiccio, alcune nazioni nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno manifestato la loro contrarietà alla guerra, il Parlamento dell’Unione Europea ha espresso un parere contrario, ma purtroppo tutto questo è servito solo a ritardare la guerra, e a far distruggere nel frattempo dai 70 ai 100 missili a lungo raggio che violavano le regole internazionali, e di nuovo un ufficiale dell’esercito USA ha commentato – “Ora che hanno distrutto i missili più pericolosi potremo intervenire con maggiore sicurezza per i nostri soldati” – Quindi anche questa volta non siamo riusciti a fermare la guerra e abbiamo addirittura facilitato i portatori di morte. E questo deve farci riflettere!
· Seconda riflessione sulle occasioni mancate:
Nella prima guerra del Golfo, il Governo Svedese aveva formulato una proposta di mediazione che noi avevamo ripreso e sostenuto, e che fu accolta con molto interesse anche dagli iraqeni, i quali erano disposti a ritirarsi unilateralmente dal Kuwait a patto che venissero sostituiti dai Caschi Blu dell’ONU, formati da paesi che non fossero coinvolti con le minacce di guerra guidate dagli USA. Oltre ai Caschi Blu dell’ONU ci sarebbero stati anche Caschi Bianchi o Berretti Bianchi, chiamateli come volete, comunque delle forze civili nonviolente o Corpi Civili di Pace, formati da tutte le organizzazioni che erano già intervenute in Iraq e che sarebbero andate in Kuwait, dove sarebbero rimaste per aiutare la popolazione civile e, al contempo, per organizzare una Conferenza ONU sul Medio Oriente. Sappiamo benissimo che il problema dell’Iraq e del Medio Oriente più in generale non si risolve senza risolvere il problema della Palestina occupata dall’esercito israeliano e che, la famosa mozione dell’ONU che chiedeva l’eliminazione di tutte le armi di distruzione di massa, è una mozione che riguarda anche Israele, ma in realtà Israele non l’ha mai presa in considerazione, mentre in Iraq si è fatta la seconda guerra dicendo che c’erano armi di distruzione di massa nonostante pare invece non ci siano. Per arrivare alla provocazione di John Galtung che, quando è venuto a Firenze per inaugurare il nostro corso per Operatori di Pace, ha detto chiaramente che quelle armi ce le avrebbero messe gli americani.
Ora, la proposta di mediazione del Governo Svedese era stata concordata anche con Papisca in Kossovo e doveva passare attraverso Picco, suo amico, che lavorava nella segreteria dell’ONU, dove giunse insieme al nostro programma che comprendeva la presenza, alla Conferenza sul Medio oriente, di un certo numero di saggi che includevano lo stesso Papisca, Padre Balducci e qualche premio Nobel in modo che il segretario dell’ONU si muovesse promuovendo un lavoro di mediazione in sintonia con il progetto Svedese da noi sostenuto. Ma gli altri movimenti pacifisti non ci sono stati e hanno organizzato una grande manifestazione che nei fatti non è servita a nulla. E questo, a mio avviso, è un limite, questo attardamento e attaccamento alle grandi manifestazioni che durano un giorno ma che poi non risolvono il problema.
· Terza riflessione:
Anche nella guerra yugoslava troviamo occasioni mancate di notevole portata; mi ricordo della Piattaforma per la Prevenzione dei Conflitti Armati che, alvuni anni orsono, tenne una riunione presso la Comunità di Sant’Egidio a Roma, dove si discusse anche del problema del Kossovo. E, ai tempi, feci notare la necessità di aumentare lo sforzo per la prevenzione della guerra in quella zona, ma l’unica associazione che rispose alla mia richiesta fu la Comunità di Sant’Egidio, tutte le altre si resero indisponibili, per ragioni economiche o altro, per poi intervenire successivamente al conflitto e raccogliere i fondi destinati alla ricostruzione e agli aiuti umanitari. Mentre la Comunità di Sant’Egidio lavorò in silenzio andando subito a proporre una mediazione ai vertici politici di Serbia e Kossovo, Milosevic e Rugova, senza tener conto che nei conflitti squilibrati, come in quel caso, prima bisogna riequilibrare il conflitto e poi andare a mediare con i vertici del potere. Quindi prima bisognava superare le divisioni interne dei kossovari, in cui si confrontavano i sotenitori della nonviolenza costruttiva e quelli della violenza attiva, cercando di creare un fronte comune da cui poi far partire la mediazione. Invece la mediazione della Comunità di Sant’Egidio è andata a vantaggio di Milosevic che ne assunse la paternità, riuscendo ad ottenere la fine delle sanzioni di primo livello, il riconoscimento della Serbia come mercato privilegiato da parte dell’Europa, grazie anche al nostro Dini, e, sostanzialmente, senza poi applicare nei fatti l’accordo proposto dalla Comunità di Sant’Egidio con la loro mediazione ai vertici del potere.
Una cosa ancora peggiore causata da questa Piattaforma per la Prevenzione dei Coflitti Armati che ha funzionato per anni e che dovrebbe essere ancora attiva, almeno sulla carta, anche se non si riunisce più, è la seguente; si era ottenuta la possibilità di aprire tavoli di concertazione tra ONG e Ministeri della Difesa, degli Esteri ecc … il primo di questi tavoli era proprio sul Kossovo e ci si era impegnati a scrivere un testo da proporre insieme alla Comunità di Sant’Egidio, ma da parte loro non ci fu nessuna risposta, i tavoli rimasero vuoti e l’Italia a Rambouillet fece una delle figure più cacine di questo mondo, invece di aiutare la Pace, aiutò la guerra!
· Quarta riflessione:
Quando Galtung è venuto a parlare a Firenze, era gennaio 2003, ci disse chiaramente che aveva informazioni dirette sufficientemente attendibili che se si fosse riusciti a mandare centomila “Protettori Civili” in Iraq, a difendere acquedotti, ospedali, mercati e in ogni altro luogo fondamentale per la vita della società civile iraqena, questo avrebbe impedito la guerra, o quanto meno ne avrebbe reso molto difficile il suo svolgimento. Ma purtroppo quando mai si riesce ad organizzare dei numeri di questo genere, anche nei Balcani, il massimo che si è riusciti a raccogliere sono due o tremila persone, numero significativo ma assolutamente lontano dall’organizzazione di centomila persone che si mobilitano a livello mondiale per impedire una guerra. Cosa che presuppone un salto di qualità organizzativo da parte nostra e che al momento rimane pura utopia, in quanto rimaniamo ad un livello di dilettantismo orgaizzativo spaventoso. Diciamolo chiaramente!
Ora, i centomila “Protettori Civili” nel caso dell’Iraq, probabilmente non sarebbero stati accettati dal regime di Saddam Hussein, perché preferiva le bombe ai “Protettori Civili”, che avrebbero potuto creare un clima avverso al suo regime e, in qualche modo, lo avrebbero danneggiato e messo comunque in crisi. In realtà, alcune centinaia di “Scudi Umani” sono andati in Iraq, e tra loro, anche alcuni dei famigliari delle vittime delle Torri Gemelle di New York, ai quali bisogna dare atto di questo coraggioso impegno. Ma in definitiva quando andiamo in zone di conflitto non si riesce a restare a lungo termine, perché ognuno di noi ha i suoi impegni famigliari e di lavoro. Ma se vogliamo veramente eliminare la guerra dallas storia, bisogna essere inn grado di mobilitare decine di migliaia di persone per un tempo sufficientemente lungo da non ritardarne solamente l’inizio, ma da ostacolarne definitivamente la sua attuazione.
Ora, per concludere, il bilancio che esce da queste riflessioni è che non basta la grande manifestazione di una giornata, ma c’è bisogno di impegni molto più radicali, credo che manchi attualmente una strategia e un coordinamento che permetta al nostro lavoro di essere molto più efficace e molto più efficiente. Penso a quei giovani volontari che sono morti a Gaza, vittime del terrorismo israeliano, come pure ai molti altri vittime di quello palestinese. Penso a questi volontari e all’isolamento in cui sono stati lasciati proprio dalle autorità dei loro paesi, dagli organismi internazionali e, a volte, anche dalle loro stesse organizzazioni che li mandano in zona di conflitto. E credo che se noi continuiao a mandare volontari in zone di conflitto per attuare azioni di prevenzione dello stesso, dobbiamo riuscire a tenere quel minimo di posizione politica e di appoggio che permetta loro di avere un ruolo più importante, se invece continuiamo così, faremo solo il solletico ai venditori di armi, senza riuscire a fare nessun passo reale per eliminare la guerra dalla storia. Guerra che oggi si maschera da “umanitaria”, o “per la democrazia”, o “contro le armi di distruzione di massa”, o “contro il terrorismo”, quando invece essa stessa fomente il terrorismo offendo ragioni alla sua proliferazione, sono tutte invenzioni mediatiche che non cambiano la sostanza, e cioè che la guerra è un fenomeno di una crudelté e cecità bestiale e che non potrà mai portare ad un mondo diverso e migliore di quello attuale.
Vorrei concludere rileggendo quelli che sono gli obiettivi di questo Forum, e cioè:
di creare una sinergia tra coloro che in Italia si occupano di Corpi Civili di Pace che:
· facilitino il lavoro delle organizzazioni membre,
· lavorino per poter dare un riconoscimento ufficiale alle organizzazioni membre facendone aumentare il peso politico,
· s'impegnino a sostenere i volontari delle organizzazioni membre nel loro lavoro sul campo,
· cerchino in tutti i modi leciti di reperire fondi che sostengano i progetti delle organizzazioni membre,
· acquisiscano i report dei monitoraggi dei volontari sul campo e li facciano circolare tra i membri del Parlamento Europeo.
Per gli organizzatori del Forum l'impegno per la pace non è solo una dichiarazione di principio, lontana dal realismo della politica internazionale. Scegliere la pace significa costruirla negli atti concreti, nelle scelte quotidiane ed in quelle di politica estera, non solo durante i momenti di crisi.
· Situazione istituzionale dei Corpi Civili di Pace all’interno del Parlamento Europeo
di Paolo Bergamaschi, Consigliere per gli Affari Esteri del Gruppo Verde presso il Parlamento Europeo
Sono Consiglere per gli Affari Esteri del Gruppo Verde presso il Parlamento Europeo e dovrei fare il punto sulla situazione istituzionale dei CCP all’interno del Parlamento Europeo, il cui percorso nasce da un’idea di Alex Langer che risale ormai al 1995. Negli ultimi anni di vita di Alex Langer ero suo collaboratore e insieme abbiamo pensato, riflettuto e portato avanti l’idea dei CCP, al punto che oggi, dopo la sua scomparsa, mi sono ritrovato ad ereditare questo pesante fardello, almeno dal punto di vista istituzionale, per cercare di capire come si poteva continuare a veicolarne l’idea nonostante fossi rimasto orfano delle sua capacità, delle sue conoscenze e delle sue possibilità di intrecciare esperienze diverse con gruppi politici diversi e con i vari parlamentari, come Alex sapeva fare così efficacemente. Io, da oscuro e umile funzionario ho cercato di interagire con tutti coloro che erano disponibili a portare avanti questa idea.
Durante la Conferenza Intergovernativa per il Trattato di Amsterdam del 1995, il Parlamento Europeo aveva prodotto una risoluzione dove forniva tutta una serie di indicazioni ai Governi che stavano per riunirsi per concordare il Trattato di Amsterdam, e Alex Langer ebbe l’intuizione di introdurre l’idea di un Corpo Civile di Pace Europeo. A sorpresa questo emendamento fu approvato e da lì cominciammo ad interrogarci sull’accoglienza, certamente al di sopra delle nosre aspettative che i CCPE avevano incontrato. L’idea rimase poi nel cassetto per un paio di anni salvo poi essere ripresentata e rivista in risoluzioni successive, fino ad ottenere, nel 1999, una raccomandazione specifica da parte di un deputato svedese del mio gruppo (vedi testo di Per Gahrton ndr), con cui collaborai alla stesura, e che riguardava appunto i CCPE e ne chiedeva uno studio di fattibilità.
La raccomandazione venne adottata all’unanimità in Commissione Affari Esteri, poi passò al Parlamento dove venne a sua volta adottata all’unanimità. Allora eravamo nel febbraio 1999, cioè pochi mesi prima dello scoppio della guerra del Kossovo, con tutto quello che poi ne è risultato e, tra l’altro, sempre in quell’anno ma successivamente alla guerra del Kossovo, all’interno dell’Unione Europea scattò la molla che fece nascere la necessità di una Politica di Sicurezza e Difesa Comune Europea. Era un momento particolare perché nel corso della gestione della crisi del Kossovo scoppiò quella che in inglese viene definito “rift” cioè l’allontanamento tra le due sponde dell’Atlantico che è poi continuato fino ai giorni nostri. Tutto ciò accadde perché, sostanzialmente, la gestione della crisi del Kossovo è avvenuta completamente sotto l’egida degli USA, nel vero e proprio senso della parola. Agli europei, nonostante fossero partecipi fin dall’inizio, veniva lasciato solo lo spazio per dire sissignore. Mentre, nel momento in cui i bombardamenti massicci continuavano ad andare avanti, gli europei tendevano a dare spazio alla diplomazia per cercare di mediare con i vertici dell’esercito e del potere Yugoslavo, che peraltro erano già sconfitti sul campo. In realtà gli americano continuarono a perseguire la via dei bombardamenti NATO. Peraltro, quando i capi delle diplomazie USA e UE s’incontravano, la Allbright da una parte e Robin Cook, Lamberto Dini, Joska Fisher e Vedrin dall’altra, gli europei si trovavano in una situazione particolare e paradossale, dove gli americani sapevano tutto quello che succedeva sul campo mentre gli europei non sapevano niente. Gli americani avevano tutte le informazioni di intelligence, mentre gli europei non erano dotati di una rete all’altezza di quella dei loro alleati e quindi poco o nella sapevano, e soprattutto gli USA avevano le immagini staellitari e conoscevano esattamente la situazione di ogni punto dello scacchiere balcanico, mentre gli europei non sapevano quasi niente. Di fronte a questo stato di cose gli europei si trovarono assolutamente disorientati per cui, conclusa la crisi, iniziò questa rivalità transatlantica euro-americana che stà arrivando al pettine in questi mesi, dopo la presa del potere da parte dell’amministrazione Bush e le controversie relative all’invasione dell’Iraq.
Gli europei cominciarono allora a riflettere su di una vera e propria politica comune di sicurezza e difesa che, peraltro, non era ancora contemplata da nessun trattato dell’Unione. Ci fu quindi il vertice di Helsinki, alla fine del 1999, che aprì la strada all’allargamento e, nel contempo, gettò le basi per un apolitica di difesa comune. Politica che, fin dall’inizio, venne divisa in due dimensioni dimensioni che sono necessariamente complementari; una civile e l’altra militare. Da una parte la cosiddetta “Gestione Civile delle Crisi” e dall’altra la “Gestione Militare delle Crisi”. Nell’ambito della dimensione civile delle crisi, che fu messa in piedi grazie grazie al fatto che nell’Unione ci sono quattro paesi che non fanno parte dell’Alleanza Atlantica; Svezia, Austria e Irlanda che sono paesi neutrali, più la Finlandia che è un paese non allineato. Questi paesi spinsero per avere questa dimensione civile nella politica di sicurezza dell’Unione, e diedero vita a tutta una serie di strutture parallele a quelle militari, i quali avevano già messo in piediun Comitato Politico di Sicurezza, uno Stato Maggiore vero e proprio e un Comitato Militare, che oggi viene presieduto dal Generale italiano Moschino, nominato a metà maggio 2003 in sostituzione di un Generale Finlandese. La dimensione civile o la “Gestione non militare delle crisi” poggiava su quattro linee fondamentali, che sono:
· La disponibilità di forze di Polizia Europee.
· L’intervento in campo amministrativo per la ricostruzione dello Stato, il cosiddetto “Nation Building”.
· L’intervento nel settore giudiziario, quindi la riaffermazione dello Stato di Diritto, e la ricostruzione dell’autorità giudiziaria e dell’intero apparato giuridico.
· La protezione civile.
A questo punto ci si chiede dove siano finiti i CCP. I CCP sono un progetto che va appena al di là dei quattro punti adottati dall’Unione e in effetti abbiamo insistito molto sul concetto dei CCP e, inserendolo nell’ottica della gestione civile delle crisi ha fatto passi avanti nel Parlamento dell’Unione, ed è stato inserito in moltissime altre risoluzioni, ad esempio la risoluzione dei conflitti del Caucaso, quella dei Balcani ecc … Come il prezzemolo l’idea dei CCP è sempre stata inserita, a disposizione della Commissione Europea. Perché c’è sempre anche una divisione istituzionale delle due dimensioni; la Commissione Europea, quella presieduta de Prodi, per intenderci, si occupa della costruzione e dello sviluppo dei mezzi non militari per la gestione delle crisi. Mentre il Consiglio d’Europa, quindi la dimensione intergovernativa dell’Unione, quella presieduta dal prossimo mese da Berlusconi, per intenderci, gestisce i mezzi militari per la gestione delle crisi.
In Parlamento abbiamo presentato più volte emendamenti tesi ad ottenere una linea di bilancio reltiva allo studio di fattibilità dei CCPE, cosa che però non siamo mai riusciti ad ottenere, salvo, la settimana scorsa in Commissione Esteri, che da due mesi a questa parte ha avuto l’incarico di dar vita ad alcuni progetti pilota finanziati. In uno di questi siamo riusciti ad inserire lo studio di fattibilità per i CCPE. Non so quanto tempo occorrerà ma almeno adesso lo studio rientra fra i progetti finanziati.
Durante questo week end e il prossimo ci sono le ultime due riunioni della Convenzione Europea, l’Assemblea Costituente che dovrebbe dar vita al “Nuovo Trattato di Roma” che sarà siglato ufficialmente a novembre di quest’anno sotto la Presidenza italiana. Il dato più importante che vi offro come elemento di riflessione e discussione è questo: durante il semestre di presidenza greca, Simitis e Papandreu, rispettivamente Primo Ministro e Ministro degli esteri greco, si erano dimostrati molto sensibili alla questione dei CCPE, anche incalzati dalla nostra azione in Commissione esteri dove, un po’ a sorpresa, la Presidenza greca fece propria questa idea, e anche lo stesso prodi si rese poi conto della validità di questa idea. Per cui oggi ci troviamo nella bozza della Convenzione Europea un paragrafo preciso che riguarda l’istituzione dei CCPE. Purtroppo questo paragrafo è stato inserito in un capitolo specifico che riguarda l’aiuto umanitario e non nella parte che riguarda la difesa, la gestione delle crisi e la politica di sicurezza dell’Unione. E vi si indica la possibilità di dar vita ad un corpo volontario di giovani europei impegnato nel campo della protezione civile e degli aiuti umanitari. Che è un’idea molto riduttiva e molto limitata rispetto a quello che vogliamo noi da un CCPE.
In un quadro più generale l’Unione Europea ha cercato negli ultimi anni di fare sforzi notevoli per dare coerenza e consistenza alle proprie politiche estere, cercando di integrare in un'unica dimensione le varie politiche ambientali, sociali ed economiche dell’Unione, nell’ottica della prevenzione dei conflitti. Quello che una volta era il nostro cavallo di battagli “la prevenzione dei conflitti” in raltà è stato fatto proprio, e alla grande, dalle istituzioni europee, che sempre di più usano dei “Think tanks” dove si riflette su come arrivare ad una vera e propria politica di prevenzione dei conflitti. Può essere che in seguito la nostra idea di CCPE riesca a fare un salto di qualità, passando dalla dimensione umanitaria a quella di difesa e sicurezza dell’Unione. Non lo so. Sta di fatto che l’attuale situazione mondiale non ci rende molto ottimisti in materia, con i bilanci per la difesa gonfi ai massimi e le spese militari che vengono stornate dai parametri di Maastricht. Con richieste sempre più pressanti al parlamento dell’Unione di ulteriori rilanci della spesa per la difesa, in modo da rendere l’Europa più efficiente. In realtà ci troviamo di fronte ad una situazione esplosiva in tutti i sensi. Siamo di fronte ad uno sbilanciamento così imponente delle spese militari USA che, di conseguenza, l’Europa sente la necessità di essere all’altezza degli USA.
Negli ultimi dieci anni si è investito molto nel progetto europeo che, secondo me, è il più grande progetto di pace della storia contemporanea. Io ci tengo molto che l’Unione Europea rimanga un progetto di pace e che non nutra l’ambizione di imitare, copiare, scimmiottare forze o paesi che si comportano in tutt’altro modo sulla scena mondiale e che non portano la responsabilità che dovrebbero portare, ma che spingono verso un processo di militarizzazione del concetto di sicurezza che mi fa decisamente paura. Per anni ci siamo battuti perché per sicurezza s’intendesse sicurezza sociale, sicurezza ambientale, sicurezza economica, purtroppo l’unica risposta che oggi viene data ai problemi della sicurezza è una risposta militare. Fino ad oggi la politica estera europea si è fondata sull’inclusività, sull’integrazione, sulla cooperazione, sul partenariato, sulla complementarietà, questi sono tutti valori che danno molta forza a ciò che viene chiamato dalle diplomazie mondiali “soft power”, concetto in netta contrapposizione con una politica americana molto aggressiva, unilaterale, impositiva, del “prendere o lasciare”, una politica che viene imposta agli stessi alleati, i quali vengono ridotti ad essere allineati più che alleati. Ora gli americani hanno l’US AID, noi avevamo l’ECHO e oggi abbiamo l’EURO AID. Da anni gli americani hanno sparso per il mondo gli American Peace Corps e noi avremo gli European Peace Corps. Ma conosciamo benissimo il lavoro sporco che gli APC hanno fatto. Sono stati accusati da tante parti e in tantissime occasioni perché portavanoavanti un lavoro di intelligence e non di pace. Ora io non ho suggerimenti da dare, ma un invito ad essere un po’ più creativi, non fossilizziamoci su di una terminologia che, purtroppo, è già bruciata. Chissà che in questi giorni non riusciamo a trovare un nome che in inglese non ricordi i Peace Corps di dubbia fama e, forse, così riusciremo ad onorare meglio la memoria di Alex Langer, al quale va tutta la nostra riconoscenza.
· Discussione Intorno ai Corpi Civili di Pace
SILVANO TARTARINI – Berretti Bianchi
In questo nostro paese, come anche in Europa e nel mondo ci sono volontari che intervengono in zone di conflitto. In questo contesto dell’agire il problema della credibilità è di portata fondamentale, in questo senso le Istituzioni sono il nostro obiettivo primario in quanto abbiamo la necessità di portare il nostro essere e la nostra politica all’interno delle Istituzioni. Detto questo rimane il problema che, per andare a chiedere il riconoscimento dei CCP, è indispensabile presentarne un’identità precisa e concreta. Ora se vogliamo battezzare un bambino occorre avere il bambino, non si può certo andare dal Parroco senza il bambino!
Il nostro problema però non è la mancanza del bambino ma il fatto che abbiamo tanti bambini che fanno cose, ognuno alla sua maniera, e questo Forum si pone l’obiettivo di capire che cosa vogliono essere i CCP in modo da poterne proporre il ragionamento alle Istituzioni. Questa tavola rotonda serve a tirar fuori il pensiero e l’esperienza delle associazioni qui convenute, mentre dai gruppi di lavoro tematici ci attendiamo uno sforzo congiunto per definire il Corpo Civile di Pace che vogliamo.
ALBERTO LABATE – Università di Firenze
Attualmente a livello istituzionale, in Italia, si sta costituendo il Comitato Scientifico per la Difesa Popolare Nonviolenta. Siccome noi sappiamo benissimo che, ad esempio in Germania il Servizio Civile di Pace ha sempre due valenze; una di intervento rivolto ai problemi interni e una rivolta ai problemi esterni. Penso che sarebbe importante portare questa stessa linea all’interno del Comitato Scientifico per la Difesa Popolare Nonviolenta. In modo da introdurre qualche scheggia all’interno delle Istituzioni, perché sono talmente poche le occasioni di penetrare le Istituzioni che andrebbero sfruttate al massimo, anche in senso alternativo. In modo da non andare dentro alle Istituzioni per dire sissignore ma invece proprio per lottare e cambiarle dall’interno. Sarà poi nostro compito riuscire ad avere un peso reale nell’applicazione e nella concretizzazione delle nostre istanze.
Io sono d’accordo con Paolo Bergamaschi quando dice che troppo spesso i loro Corpi di Pace sono serviti solamente ad appoggiare le politiche armate USA e il rischio è che l’Europa proceda in questa direzione, ma essendo anche noi europei dobbiamo cercare di lavorare per ottenere il compimento della nostra idea di CCP. Sarebbe molto significativo se prima di costituire l’esercito europeo ci fosse un segno positivo per la costituzione dei CCP europei, questo assumerebbe un valore simbolico rispetto alla costituzione dell’esercito e della futura politica europea per la sicurezza e la difesa.
DANIELE LUGLI – Movimento Nonviolento
Mi pare che qui venga rappresentata l’urgenza, abbastanza definita e precisa, che è quella di capire se, il problema dei CCP, posto otto anni fa da un parlamentare italiano del Sud Tirolo presso il Parlamento dell’Unione Europea e tutti sappiamo che si tratta di Alex Langer, abbia un senso.
Noi siamo gente che lavora dal basso per cercare di dare corpo e sostanza a questa idea e crediamo che non possa essere dimenticata all’interno della Convenzione Europea. Propongo quindi di scrivere una lettera alla Presidenza del Consiglio, sottolineando che il Presidente Ciampi ha parlato dei CCP e che noi pensiamo che sia doveroso per l’Italia darsi da fare in questa direzione durante il semestre di turno alla guida del Consiglio d’Europa.
MAO VALPIANA – Azionze Nonviolenta
Sulla base delle dichiarazioni di Alberto e Daniele io vorrei che da questo Forum uscissero due lettere, una al Presidente del Consiglio, in relazione al semestre di Presidenza italiana del Consiglio d’Europa per l’inserimento dei CCP nella Convenzione Europea. E una al Presidente della Camera dei Deputati, invitandolo a dare piena attuazione alla legge 230 ecc … sul Comitato Scientifico per la Difesa Popolare Nonviolenta, offrendo noi una vasta rosa di nomi che indichiamo disponibili a far parte del suddetto Comitato.
· Lettera al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio
Alla cortese attenzione del Signor Presidente
Il valore del servizio civile nella costruzione di un mondo di pace è stato efficacemente e solennemente da Lei richiamato nelle celebrazioni del 2 giugno. Si offre oggi al nostro Paese una straordinaria occasione perché questa convinzione trovi adeguato spazio nella Convenzione dell’Unione Europea.
Era il maggio del 1995 quando, in un dibattito sul futuro dell’Unione, il Parlamento Europeo ha adottato una proposta di Alexander Langer sulla creazione di un Corpo Civile di Pace Europeo, primo passo alla prevenzione dei conflitti. È certo che un’efficace gestione civile della crisi nei Balcani avrebbe almeno evitato i suoi esiti più sanguinosi.
La proposta del ’95 è stata ripresa nel ’99 dal Parlamento Europeo come raccomandazione al Consiglio. Ancora nella plenaria del 2001 il Parlamento Europeo ha ribadito la necessità di istituire un Corpo Civile di Pace Europeo, strumento di intervento dell’Unione in aree di crisi.
Nel testo predisposto per la Convenzione Europea, cioè per la base costituzionale dell’Unione, deve a nostro avviso entrare il ripudio della guerra, come previsto dall'articolo 11 della nostra Costituzione. Si sottolinea poi che nel testo predisposto per la Convenzione Europea il ruolo dei Corpi e del Servizio Civile è menzionato, ma in modo inadeguato rispetto al compito disegnato dallo stesso Parlamento Europeo. Tali compiti sono infatti confinati al pur importante ambito della protezione civile e degli aiuti umanitari, mentre, a nostro parere, tali compiti dovrebbero far parte dell'ambito della difesa-sicurezza.
Un Corpo Civile di Pace Europeo, che sappia unire la miglior professionalità degli operatori con la valorizzazione delle esperienze compiute da molte organizzazioni volontarie in situazioni di conflitto, costituirebbe certamente uno strumento efficace di costruzione della pace attraverso la mediazione, la riconciliazione, la promozione della fiducia tra le parti, gli aiuti umanitari, il disarmo, la smobilitazione e il reintegro dei profughi e degli ex combattenti, la riabilitazione, i rispetto dei diritti delle donne, il monitoraggio dei diritti umani.
Il semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione, nel momento in cui un italiano presiede la Commissione Europea, è la condizione privilegiata perché i massimi organi dell’Unione diano seguito concreto a proposte maturate e vagliate a livello parlamentare, portando a compimento la felice intuizione di Alexander Langer. Momento significativo e necessario è appunto l’inclusione a pieno titolo del Corpo Civile di Pace Europeo nella Convenzione, riprendendo ed esplicitando il richiamo che della stessa è contenuto così come l'inclusione di questo tema nell'ordine del giorno delle prossime riunioni del Consiglio.
È questo l’appello che come organizzazioni riunite a Bologna dal 6 all’8 giugno sul tema “Verso i Corpi Civili di Pace – Per una politica europea non armata” ci sentiamo di rivolgerLe, confidando nell’impegno delle massime autorità dello Stato Italiano.
A loro assicuriamo il contributo della nostra esperienza e del nostro impegno per la realizzazione di un comune obiettivo.
Con ogni considerazione
Per le organizzazioni:
Associazione Antica come le Montagne (Bologna), Associazione Eticonomia (Prato), Associazione Orlando (Bologna), Associazione Papa Giovanni XXIII- Operazione Colomba (Rimini), Associazione per la Pace (Roma), Associazione radicale Giorgiana Masi (Bologna), Beati i Costruttori di Pace (Padova), Berretti Bianchi (Lucca), Centro Studi Difesa Civile (Roma e Perugia), Centro Studi Sereno Regis (Torino), Coordinamento Obiettori Forlivese (Forlì), Donne in Nero (Roma), G.A.V.C.I. (Bologna), Fondazione Alex Langher (Bolzano), Lega Obiezione di Coscienza (Roma), Movimento Internazionale della Riconciliazione (Torino), Movimento Nonviolento (Verona), Pax Christi (Tavernuzze Firenze), Rete Lilliput - Nodo di Bologna, Volontari di Action for Peace,
riunite a Bologna dal 6 all’8 giugno sul tema “Verso i Corpi Civili di Pace – Per una politica europea non armata”.
per la segreteria del Forum “ Verso i Corpi Civili di Pace”
Silvano Tartarini
Bologna, 8 giugno ’03
Gruppi di Lavoro Tematici
· Documento del Gruppo di Lavoro sulle Forme Organizzative
di Sandro Mazzi, Centro Studi Difesa Civile
1. INTRODUZIONE
Per i partecipanti al Forum scegliere la pace significa costruirla con atti concreti, nelle scelte quotidiane ed in quelle di politica estera, non solo durante i momenti di guerra. Da più di un decennio numerosi volontari della società civile intervengono utilmente nelle varie zone di conflitto del nostro pianeta in aiuto alla popolazione civile locale. I volontari intervengono a proprie spese e a proprio totale rischio senza alcun riconoscimento e sostegno da parte delle varie istituzioni nazionali ed internazionali, anche se si sono avuti vari e ripetuti pronunciamenti, a partire dal 1995, in sostegno della realizzazione dei Corpi Civili di Pace da parte del Parlamento Europeo. Questo vastissimo patrimonio di esperienze di solidarietà internazionale dell'associazionismo italiano necessita di un riconoscimento istituzionale che lo renda uno strumento reale della politica estera italiana nel mondo.
2. CHI SIAMO
La rete per i Corpi Civili di Pace è una rete di associazioni ed Ong che si occupano del tema dei Corpi Civili di Pace in zone di crisi a livello di ricerca, formazione ed intervento.
Alla rete hanno aderito le seguenti associazioni: Ass. Papa Giovanni XXIII-Operazione Colomba (Rimini), Centro Studi Difesa Civile (Roma-Perugia), Movimento Nonviolento (Verona), GAVCI (Bologna), Ass. per la Pace (Roma), Rete Lilliput nodo di Bologna, Movimento Internazionale della Riconciliazione (Torino), Coord. Obiettori Forlivesi (Forlì), Pax Christi (Tavernuzze FI), Berretti Bianchi (Lucca) ed alcuni a titolo personale.
3. COSA SONO I CORPI CIVILI DI PACE
Sono un'espressione della Società Civile, sono costituiti da persone qualificate, adeguatamente preparate ad intervenire, con gli strumenti della difesa popolare nonviolenta e della gestione costruttiva dei conflitti, in situazioni di crisi esercitando funzioni di prevenzione, di interposizione, di diplomazia popolare. I CCP fanno riferimento alla Carta dei Diritti dell'Uomo.
4. OBIETTIVI E FINI
Fine della rete è di contribuire alla costruzione di una futura politica estera non armata che costruisca sicurezza e pace. Per ottenere questo è necessario il riconoscimento, anche istituzionale dei Corpi Civili di Pace.
La rete vuole creare una sinergia tra le organizzazioni che:
- faciliti il lavoro delle organizzazioni aderenti
- sostenga i volontari nel lavoro sul campo
- reperisca i fondi per sostenere la ricerca, la formazione e l'azione
- acquisisca i report dei monitoraggi dei volontari sul campo e ne dia diffusione presso la società civile, i media, le istituzioni italiane ed internazionali
- metta in comune le conoscenze teoriche e pratiche sul tema
- operi per promuovere i contatti con i coordinamenti già esistenti sia a livello europeo che internazionali (EN.CPS e NVPF)
5. ORGANIZZAZIONE
Si propone alla Rete per i CCP:
- di nominare un portavoce a rotazione tra le Ass. e le Ong aderenti con incarico annuale, nel caso ciò sia valutato necessario
- di avere almeno quattro incontri annuali
- di creare un sito web sui CCP per facilitare la comunicazione interna ed esterna alla Rete
- di effettuare una mappatura delle Associazioni, delle Ong e dei gruppi interessate al tema
- di approfondire l'aspetto legislativo che potrebbe essere utile per gli obiettivi della Rete
- di creare un collegamento con le organizzazioni internazionali già esistenti: EN-CPS, NVPF, EPLO
6. PROSSIMI PASSI
La Rete, nel porsi l'obiettivo del riconoscimento istituzionale dell'utilità del lavoro dei volontari in zone di conflitto, indice come prima azione una campagna volta ad ottenere la possibilità per i volontari di astenersi dal lavoro per un periodo di tre mesi, avendo garantita la conservazione del posto di lavoro. In quest'ottica può essere utile instaurare un rapporto con i sindacati per eventualmente proporre ai lavoratori in cassa integrazione la possibilità di partecipare ai progetti per i volontari in zone di conflitto.
Propone inoltre di inviare una lettera aperta al Presidente del Consiglio e al Presidente della Repubblica perché operino affinché il tema dei CCP compaia nella Carta Costituzionale Europea nella sua giusta collocazione all'interno del capitolo "Sicurezza e Difesa" anziché "Aiuti Umanitari"
· Documento del Gruppo di Lavoro sui Rapporti Istituzionali
di Andrea Anselmi, Berretti Bianchi
Il gruppo cercando di essere pratico e produttivo ha deciso di suddividere il lavoro su due livelli, europeo ed italiano.
LIVELLO EUROPEO.
E’ emersa chiaramente la necessità di intervenire presso varie istituzioni europee per continuare, ribadire, richiedere, promuovere l’istituzione di corpi civili di pace secondo un ottica condivisa in questi giorni ( i CCP devono essere un corpo civile indipendente dalle forze militari atto ad intervenire in zone di guerra con compiti di interposizione, mediazione, risoluzione dei conflitti, riconciliazione con modalità non violente). Abbiamo individuato due linee guida;
1. Influire sul quadro normativo nella attuale fase costituente per includere la nostra concezione di CCP.
2. Dare credibilità alla nostra proposta rafforzando l’organizzazione.
In questo senso proponiamo di attuare le seguenti azioni:
v SEMESTRE DI PRESIDENZA ITALIANA DEL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA
Visto l’avvicinarsi di questo appuntamento ci pare importante richiedere un pronunciamento del Consiglio Europeo sui CCP europei e uno studio ufficiale di fattibilità sul progetto dei CCPE.
Proponiamo di scrivere una lettera aperta all’indirizzo del prossimo presidente italiano con riferimento alla concezione dei CCP che il parlamento europeo ha già fatto sua (ad esempio nella raccomandazione dell’on. Per Gahrton allegata nella cartella del convegno); quindi un riconoscimento di ciò che è stato già votato ma anche la richiesta di un ulteriore sviluppo della materia. Ci sembra importante che venga inserita nei compiti e nelle possibilità di azione dei CCP la dimensione della prevenzione e della riconciliazione in antitesi alla gestione dei conflitti solo in tempo di crisi acuta. Nella lettera vorremmo indicare come sia fondamentale partire dalle esperienze in atto della società civile nella creazione di un corpo che sia alternativo a quello militare per la gestione dei conflitti. Di comune accordo abbiamo pensato che non sia il caso di proporre, in questo momento, i CCP come sostitutivi delle forze armate (anche se tutto il gruppo ritiene che così dovrebbe essere) per motivi di opportunità e di forza.
v COMMISSIONE PRODI
Altro punto da affrontare è l’elaborazione di una richiesta da fare alla suddetta commissione con la collaborazione di Paolo Bergamaschi. Vorremmo far inserire nella costituzione europea, prima che sia troppo tardi, una voce sul ripudio della guerra da parte degli stati membri. Inoltre è pressante l’esigenza di modificare l’art. 30 comma 5 sui “CCP umanitari” almeno spostandolo nell’area della difesa popolare nonviolenta. La differenza fra interventi umanitari e difesa nonviolenta è notevole e non possiamo permetterci di essere relegati al ruolo di chi porta i viveri ai “preventivamente” massacrati di turno.
v PARLAMENTO UE – COMMISSIONE ESTERI
Questo punto è un altro di quelli per i quali ci serve l’aiuto di un addetto ai lavori come Paolo Bergamaschi. Alla commissione noi vorremmo chiedere e fare pressione perché sia effettuato uno studio ufficiale di fattibilità sul progetto dei CCPE e anche (non è secondario) chi farà lo studio di fattibilità. Sarebbe opportuno che la struttura che eseguirà questo studio fosse già addentro e impegnata sull’argomento. Alla commissione esteri dovremmo anche richiedere il riconoscimento e il sostegno politico dell’intervento attuale della società civile all’interno dei conflitti, questo sarebbe utile nel lavoro di informazione e sarebbe anche un piccolo passo in avanti nel lavoro di lobbing. Per finire, riteniamo necessario coltivare i rapporti e aggiornare i network europei (soprattutto quelli presenti al forum) delle azioni svolte.
LIVELLO ITALIANO.
In questa seconda sessione di lavoro abbiamo individuato i seguenti referenti istituzionali ai quali secondo noi è opportuno rivolgere le nostre proposte e richieste:
v UFFICIO NAZIONALE SERVIZIO CIVILE
A giorni si deve formare il “Tavolo DPN “ ex L.230/98, è importante promuovere uno sforzo comune per la partecipazione a questo tavolo individuando i criteri per la partecipazione e individuare anche una rosa di nomi condivisa da indicare come possibili rappresentanti della rete per i CCP al Tavolo. Riteniamo molto importante includere e sostenere nel servizio civile la dimensione nonviolenta di difesa civile. Ricordiamo inoltre che non è vero che il servizio militare obbligatorio non esiste più, dato che in caso di guerra esiste ancora la possibilità di essere precettati .
v TAVOLO OBIETTORI DI COSCIENZA ALL’ESTERO
(Gavci, Papa Giovanni, Focsiv, Caritas)
Con questo tavolo e con la Conferenza Enti per il Servizio Civile dovremmo organizzare un incontro di confronto sui CCP che porti ad azioni di promozione. Dalla Conferenza Enti dovremmo ottenere un sostegno nel rapporto istituzionale con il ministro Giovanardi che ha la delega ad occuparsi del volontariato.
v MINISTRO GIOVANARDI, CONSULTA, DIRETTORE UNSC
A questi referenti vogliamo inviare una lettera dove richiamiamo il valore dell’art. 1 L.64/01 che cita espressamente la difesa civile non violenta
Durante la discussione si è evidenziata la necessità di creare una lobby che “spinga” a livello istituzionale le nostre istanze e di individuare interlocutori strategici per promuovere l’istituzione dei CCP. (Presidente della Repubblica, Governo, commissioni parlamentari, ong, chiese, gruppi parlamentari, associazionismo femminile, sindacati, libere associazioni, cooperazione, ecc …). Questo non toglie che sia fondamentale continuare il lavoro che si sta facendo a livello di base che può procedere parallelamente.
· Documento del Gruppo di Lavoro sulla Formazione
di Fabiana Bruschi, Berretti Bianchi
Il conflitto è una realtà complessa, poco conosciuta, poco studiata; quindi, il lavoro degli operatori di pace è molto difficile in quanto, se manca una preparazione adeguata, si può correre il rischio di commettere errori che possono causare danni alle persone con le quali e per le quali si lavora. Le difficoltà maggiori derivano dal fatto che la figura dell’ “operatore di pace”, essendo del tutto nuova, necessita di una costruzione in itinere e di una formazione che passa dalla teoria alla prassi e dalla prassi alla teoria attraverso continue verifiche. Finalmente anche il mondo accademico si sta aprendo alla formazione di queste figure professionali attraverso corsi triennali, specialistici o master che stanno sperimentando nuovi percorsi formativi. E’ perciò auspicabile che questi diventino un punto di riferimento anche per la formazione dei volontari del Servizio Civile Nazionale che risulta attualmente in fase di programmazione. Ciò garantirebbe, se concentrato sulla formazione dei formatori, una maggiore omogeneità nella preparazione e una rispondenza maggiore all’attuale legislazione italiana che prevede forme non armate di difesa e di intervento nonviolento in operazioni di pace all’estero. Affinché queste figure possano espletare al meglio i loro compiti è necessaria una politica estera di sicurezza che dia più spazio alla prevenzione dei conflitti armati come richiesto ripetutamente da varie mozioni del Parlamento Europeo. L’incremento di queste figure professionali con una buona preparazione, non solo non sarebbe alternativo all’impegno dei tanti volontari delle Ong che già operano in questo settore, ma potrebbe addirittura costituire un punto di riferimento valido e stabile per rendere più efficace il lavoro dei volontari stessi; tale efficacia dovrebbe inoltre essere sostenuta da una adeguata formazione che, per esprimersi al meglio, avrebbe bisogno di periodi più lunghi di intervento nelle aree interessate. Per questo sarebbe auspicabile un riconoscimento giuridico del lavoro dei volontari che, sulla scia della legge già operativa sulle emergenze naturali, permetta loro almeno tre mesi di congedo senza perdita del posto. Ciò consentirebbe a tante persone molto motivate ma impossibilitate attualmente a partecipare per impegni di lavoro, di offrire un valido contributo alla difesa nonviolenta del proprio paese e alla prevenzione dei conflitti armati in altre parti del mondo.
Per mettere meglio a fuoco l’attività di formazione il gruppo ritiene importante chiarire i compiti che i CCP, oggetto della formazione, dovrebbero svolgere; tra questi risultano fondamentali:
· la prevenzione dei conflitti armati,
· l’osservazione e il monitoraggio di possibili accordi tra le parti,
· la mediazione,
· l’interposizione,
· la riconciliazione,
· la ricostruzione del tessuto sociale,
· il riequilibrio dei poteri,
· l’accompagnamento di persone a rischio,
· la creazione di infrastrutture di pace,
· la mitigazione dei conflitti ecc…
Una prima ipotesi di formazione, focalizzata specificatamente verso persone disposte a impegnarsi per un tempo prolungato nei CCP, potrebbe prevedere un doppio livello:
1. UN CORSO INTRODUTTIVO che preveda l’analisi delle motivazioni, il metodo del consenso, la conoscenza della filosofia e delle tecniche nonviolente, la mitigazione e la gestione creativa dei conflitti, le tecniche di auto-protezione e di pronto soccorso, la conoscenza essenziale del Diritto Internazionale e Umanitario, la conoscenza delle tecniche e dell’organizzazione delle forme di polizia e degli apparati militari e dei sistemi d’arma. Particolare attenzione dovrà essere dedicata allo sviluppo di capacità quali l’ascolto attivo, il lavoro di gruppo, la promozione del dialogo, lo sviluppo di atteggiamenti assertivi, l’analisi degli aspetti relazionali, e la formazione interiore.
2. UN CORSO SPECIFICO che, a seconda del contesto in cui si opera, preveda la conoscenza almeno elementare della lingua ufficiale del posto, del contesto socio-culturale e storico, degli attori in campo, della condizione della donna, dei problemi economici, dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche dell’area di conflitto e della sua legislazione.
· Documento del Gruppo di lavoro sull’intervento dei volontari in zona di conflitto
di Walter Zaffaroni, Action for Peace
I Corpi Civili di Pace sono un’articolazione della società civile, le cui motivazioni e obiettivi includono il fermare la violenza della guerra, proteggere i diritti umani dei civili che subiscono la guerra in zone di conflitto e favorire il dialogo e la riconciliazione tra le parti in conflitto. Le pre-condizioni all’intervento dei CCP sono il loro radicamento all’interno della società civile interessata, la capacità di interagire con essa, la presa di coscienza e la valutazione delle motivazioni personali dei partecipanti alle missioni.
La professionalità dei CCP si basa sull’educazione formativa che, secondo la visione di questo gruppo di lavoro, dovrebbe essere diffusa al fine di estenderne l’accesso a tutta la società civile.
I CCP attuano sul campo una presenza continuativa, prima durante e dopo la fase più acuta del conflitto, caratterizzata da indipendenza e creatività, intese come capacità di immaginare e mettere in opera modalità non convenzionali di approccio ai problemi, anche facendo uso della disobbedienza laddove regole e norme siano eticamente inaccettabili in quanto in contraddizione con i diritti umani. Ad esempio dove sussista un isolamento forzato delle popolazioni civili, un assedio, un’occupazione militare o simili.
Le modalità d’intervento delle missioni dei CCP in zone di conflitto si basano sull’esclusivo utilizzo del metodo nonviolento e mai imponendo la propria cultura, ma bensì attraverso l’impostazione di una reciproca conoscenza interculturale attraverso l’assidua ricerca del dialogo. Obiettivo delle missioni è di ridurre la violenza esercitata sulle popolazioni civili ed alleviarne le sofferenze. L’intervento avviene di norma su richiesta di una o più parti in conflitto, previa conoscenza e analisi della situazione sul terreno, attraverso missioni esplorative, attuate da piccoli gruppi di persone esperte. Durante la missione i CCP non prendono parte in alcun modo al conflitto nonostante collaborino con gli esponenti della società civile in modo compatibile agli obiettivi della missione.
Lo strumento principe dell’intervento è la cosìddetta diplomazia dal basso, cioè il favorire e facilitare l’elaborazione di soluzioni al conflitto da parte della società civile coinvolta, mediante il monitoraggio preventivo nelle zone a rischio di esplosione del conflitto e durante l’azione sul campo, valutandone i risultati passo passo. Si ritiene inoltre indispensabile sviluppare il coordi-namento con le organizzazioni che già svolgono autonomamente opera di monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani, allo scopo di identificare possibili aree di intervento preventivo.
Un secondo strumento d’intervento è l’azione diretta di interposizione nonviolenta, durante la quale i CCP utilizzano i loro corpi a protezione degli obiettivi civili, ma sempre valutando e riducendo i rischi al minimo possibile prima di assumersene l’intera responsabilità, verso se stessi e soprattutto verso i civili interessati. I CCP s’impegnano altresì nell’accompagnamento di persone a rischio. In questo senso la riconoscibilità visiva dei CCP è uno strumento fondamentale che li rende immediatamente identificabili come tali, inoltre l’adozione di stili di vita e comportamenti idonei alla missione facilita l’accettabilità dei loro interventi.
Infine un ultimo strumento dell’intervento dei CCP in zone di conflitto è la forza di comunicazione unita all’utilizzazione di forme di pressione come il boicottaggio, la violazione di eventuali embarghi, ecc ... congiunte ad un’azione di lobbing e ad una sinergia a livello politico, istituzionale e culturale che ha lo scopo di ottenere un riconoscimento reciproco non limitato alla società civile ma esteso alle sue Istituzioni, oltre ad un accreditamento che però ne salvaguardi l’indipendenza.
L’intervento dei CCP viene articolato in modo differenziato, con l’utilizzo di uno o più strumenti tra quelli sopra elencati, a seconda delle caratteristiche dei conflitti; che possono essere etico-religiosi rispetto alla sensibilità delle parti in merito al deterioramento della propria immagine, conflitti territoriali, di occupazione militare e/o con l’eventuale presenza di eserciti irregolari.
· CONVENUTI
ELENCO ASSOCIAZIONI IN RETE:
1) Berretti Bianchi Lucca
2) Ass. Papa Giovanni XXIII- Operazione Colomba (Rimini)
3) Centro Studi Difesa Civile Roma-Perugia
4) Movimento Nonviolento Verona
5) G.A.V.C.I. Bologna
6) Movimento Internazionale della Riconciliazione Torino
7) Coordinamento Obiettori Forlivese Forlì
8) Pax Christi Tavernuzze (FI)
9) Ass. per la Pace Roma
10) Rete Lilliput - Nodo di Bologna
ELENCO ASSOCIAZIONI CHE HANNO PARTECIPATO AI LAVORI DEL FORUM
1) Fondazione Alex Langher Bolzano
2) Beati Costruttori di Pace Padova
3) Donne in Nero Roma
4) Volontari di Action for Peace
5) Ass. Eticonomia Prato
6) Centro Studi Sereno Regis Torino
7) Ass. Antica Come le Montagne Bologna
8) Ass. Orlando Bologna
9) Ass. radicale Giorgiana Masi Bologna
Lega Obiezione di Coscienza
CHIUSA
· CORPI CIVILI DI PACE (C.C.P.)
Necessità di una sicurezza diffusa
di Silvano Tartarini, Berretti Bianchi
Parlare in giro dei CCP è, purtroppo, ancora estremamente difficile. Il tema è ancora ignoto ai più e si rischia di apparire elitari, mentre in realtà si sta affrontando un argomento che riguarda indistintamente tutti. Infatti i CCP sono legati al tema della sicurezza, un tema così grande e vasto che ha, in passato, presieduto persino alla nascita degli Stati. Ricordate il Principe? Per il nostro Machiavelli, la sicurezza stava tutta nella forza fisica. In vero, i tempi erano quelli che erano più di cinquecento anni fa. Non che poi si sia andati molto avanti, tuttavia, devo riconoscere che rispetto ad oggi c’era allora qualche differenza non secondaria. E anche se gli do torto qualcosa sono portato a capire. Che cosa? Il concetto di forza, per esempio. Certo per Machiavelli la forza era tutta fisica anche se nelle Istorie Fiorentine sembra in più occasioni convenire sui valori della forza dell’unità e della concordia. Per la qual cosa saremmo portati a ipotizzare che il Machiavelli guardava anche a una forza che fosse qualcosa di più della sola forza fisica. Comunque sia, il tema della forza è centrale. Bisogna solo convenire su cosa intendiamo per forza. Un pugile è più forte quando manda l’avversario al tappeto. Ma per i popoli e gli stati vale la stessa forza? O serve qualcosa d’altro? E in più la forza che rapporto ha con la sicurezza?Per quanto riguarda la forza, dico subito che c’è una forza “autoreferente”e “ristretta” che è utile solo per chi la detiene; è una forza questa che può servire da deterrente contro altre forze analoghe e che, in ultima analisi, opprime. C’è, invece, una forza “diffusa” che riguarda tutti e che serve a tutti. Questa seconda forza si basa sull’unità e sulla concordia che deriva da un patto sociale e da una cultura nata dal desiderio comune delle genti di vivere in pace e di svilupparsi assieme pur nelle necessarie diversità.
La forza “ristretta” ha necessità di essere sempre più forza rispetto agli altri. La sua “condizio sine qua non” è di essere sempre di gran lunga la prima delle forze in campo. Persa questa condizione di assoluta supremazia perde tutto. Ecco, che per non perdere questa supremazia nella forza, chi la detiene può essere anche disposto a tutto.
Perdere questa supremazia, per quanto ampio sia il divario con gli altri stati, è sempre possibile. Chi detiene questa supremazia nella forza “ristretta” deve, quindi, sempre vigilare ed essere pronto a intervenire contro chi rischia di essere o divenire pericolosamente troppo forte anche solo economicamente.
La forza “diffusa” è più difficile a realizzarsi, ma una volta che si è data è molto difficile a rompersi. La concordia tra i popoli del pianeta si realizza con l’utilizzo di questa forza attraverso l’abolizione dell’uso delle armi e la creazione di una politica estera di pace affidando e riconoscendo un ruolo in questo alla società civile. Va detto che una futura realtà di pace non prevede necessariamente uno sviluppo uniforme sul pianeta, cioè è anche possibile che le disuguaglianze nei livelli di vita tra i popoli rimangano.
Tuttavia, un percorso che ricerca la concordia rinunciando all’uso delle armi elimina di certo almeno le differenze economiche più gravi e insostenibili per la pace e lavora per attenuare i gap economici tra i popoli. Probabilmente, le differenze economiche e le contraddizioni tra i popoli rimaranno ma questo avverrà allora all’interno di una logica di gestione dei conflitti e non più con il loro soffocamento tramite la guerra.
La realizzazione della “forza diffusa” aiuterà inevitabilmente la strada per uno sviluppo compatibile con l’eco-sistema e più egualitario nel rispetto dellediversità.
Sul rapporto forza-sicurezza prendiamo come esempio gli USA. E’ indubbio che gli USA dispongano, oggi, di una forza militare senza precedenti e di una superiorità enorme su tutti gli altri popoli e stati. Tuttavia, sono stati ugualmente aggrediti l’11 settembre da un atto terroristico che è stato equiparato ad un atto di guerra dalla classe dirigente americana, che ha deciso di rispondere e di utilizzare la loro enorme forza militare per distruggere i loro nemici, ovunque siano, e costruire così “sicurezza” su tutto il nostro pianeta. Queste, almeno sono le intenzioni dichiarate del governo americano. Gli USA la pensano come Machiavelli? Non esattamente. Il Principe semplicemente si impone, gli USA invece ancora cercano consensi all’utilizzo della loro forza militare (che vogliano
così o debbano farlo non fa troppa differenza nell’economia del nostro discorso). Quindi, gli USA non sono ancora un Principe perfetto. Per gli USA potrebbe valere l’equazione: Sicurezza=forza + consenso. Ora cerchiamo di approfondire i tre termini dell’equazione.
Sicurezza che vuol dire? Quand’è che per un popolo o uno stato o più popoli e più stati si può parlare di sicurezza? Viene subito da dire: quando nessuno, intorno a noi, ci vuole uccidere o mette in pericolo la nostra vita, quando non entra per rubare o per fare del male in casa nostra. Insomma quando le persone e i popoli possono vivere in tranquillità tra di loro e tra i loro vicini, ovunque abitino. Questo presuppone, evidentemente, che le persone e i popoli non siano odiati dagli altri che gli sono vicini. E’ condizione essenziale, mi pare. Se si è odiati non si può essere tranquilli veramente in nessun posto. Ce chi dice che l’odio di alcuno può scaturire da invidia e malanimo, ma l’odio dei popoli nasce solo attraverso sofferenze enormi e continue. E’ tutta vera questa affermazione? Direi solo in parte. Guardiamo, tra i tanti nella storia, al caso degli ebrei e degli armeni nel secolo scorso, per esempio. Non sono stati perseguitati e massacrati perché avevano causato sofferenze ad altri popoli, ma semplicemente perché erano di ostacolo o l’azione contro di loro era utile a implementare un nazionalismo razzista in grado di cementare una unione tra governi dittatoriali da una parte e i loro popoli dall’altra. Questa saldatura di governo e popolo all’interno di una politica di potenza verso altri popoli è avvenuta perché non c’era sufficiente democrazia. Perché dico sufficiente e non dico democrazia? Perché il colonialismo è stata la politica praticata da molte democrazie fino alle soglie e oltre della II guerra mondiale. Quindi la democrazia di cui abbiamo bisogno per evitare la saldatura governi-popoli all’interno di una politica di potenza armata è una democrazia matura, che, ad oggi, purtroppo non abbiamo se non in una quantità ancora spaventosamente piccola. Avere una democrazia matura significa che si è affermata una forte cultura della pace. Purtroppo, non è così ed è questo il problema dei problemi. Ed è per questo che sul nostro pianeta oggi la guerra la fa da padrona. Tuttavia e a più ragione, possiamo dire che, per la nostra sicurezza, dovremmo tutti comunque evitare di causare sofferenze pericolose tra i popoli o di permettere che i governi, per i loro interessi di potere, causino queste sofferenze. Ora poiché dietro ogni sofferenza c’è sempre una ingiustizia che ne è la causa, dovremmo, in definitiva, evitare di far crescere l’ingiustizia. Tutti gli stati dovrebbero assumere concretamente l’impegno a far diminuire l’ingiustizia sul pianeta, come condizione necessaria anche se non sufficiente. La necessaria sufficienza non potrà che essere data dall’unione della crescita della giustizia con la crescita progressiva della “maturità democratica” dei popoli, cioé della loro capacità di esprimere una cultura di pace e vivere, quindi, nonviolentemente il conflitto con gli altri. Appare ovvio che imboccare la strada della condizione necessaria aiuterà a raggiungere rapidamente la condizione sufficiente.
L’equazione della Sicurezza diventa quindi: Sicurezza= pace+giustizia. Abbiamo quindi ora due equazioni per la Sicurezza. Questa seconda equazione significa che dovremmo opporci sempre alla guerra e sempre all’ingiustizia, che dovremmo lavorare per un mondo che sia sempre meno ingiusto e in assenza di guerra. Ma significa anche che vogliamo lavorare per la pace di tutti e non solo per la pace di alcuni, fossero anche la maggioranza. La prima equazione- Sicurezza=forza + consenso- si accontenta, invece, di lavorare per la pace di una sola parte, fosse anche la maggioranza. Questo perché è evidente, che non servirà il consenso di tutti, né si potrà mai avere all’interno di questa equazione. Cioè, la prima equazione sposa una politica che accetta di opprimere altri, la seconda non accetta di opprimere alcuno e vuole la sicurezza per tutti.
Tempi di realizzo delle due diverse sicurezze:
a) la prima equazione- Sicurezza=forza + consenso- può darsi obiettivi a breve e medio termine. Basta che disponga della forza necessaria e di una buona dose di consenso(interno e internazionale) e può lavorare da subito per costruire la propria potenza nella “sicurezza” Ovviamente, la sicurezza è solo la propria ed è altamente instabile. E’ il caso degli USA. Dopo il 1989, per gli USA esisteva già questa situazione: potenza+consenso all’interno+consenso internazionale. Ma è solo dopo l’attacco, subito dagli USA, l’11 settembre, che si è deciso, da parte del governo americano, di praticare decisamente e “perennemente” la via della prima equazione: sicurezza=forza + consenso. Seguire questa equazione vuol dire dover dosare di continuo i due fattori forza e consenso. Aumentando troppo l’uso della forza fisica può calare il consenso e viceversa ricercando un aumendo di consenso- in particolare internazionale- si può essere costretti a diminuire l’uso della forza fisica, perdendo privilegi che si possono avere solo tramite l’uso della forza armata. E’, in fondo, la vecchia politica-sempre praticata- del bastone e della carota, ma stavolta su tutta l’area planetaria e con alcune differenze, dato che il nemico dichiarato è il terrorismo, che si può annidare ovunque e si può nutrire del malcontento generato dall’enorme ingiustizia esitente sul pianeta. La differenza fondamentale- sulla via della guerra perenne a quello che di volta in volta viene ritenuto terrorismo- è che il governo USA deve praticare una politica estera che è costretta a navigare a vista. L’unico riferimento- la sua stella polare- è far crescere sempre la “sicurezza” attraverso la crescita della propria forza e il mantenimento del proprio consenso interno e internazionale. Va qui detto che la politica estera riferita a questa equazione prevede la possibilità di cambiare alleanze a seconda delle necessità. Faccio notare che questa elasticità o infedeltà nelle alleanze, che si lega nel contempo all’allargamento dell’uso della forza sul pianeta, potrebbe determinare nel tempo una situazione di nonconsenso. Una sicurezza che si basa sull’uso della forza più il consenso ha il suo punto debole proprio nel dover praticare una politica estera di questo tipo. E’ qui che si crea un punto anticipato di contatto con la politica del Principe ( che può escludere il consenso). E’ ovvio che una politica di frequente cambio delle alleanze deve possedere un DNA che prevede in nuce la possibilità dell’abbandono della ricerca del consenso. In parole povere, cambiando troppo spesso idea sulle alleanze- in funzione del proprio tornaconto immediato- si può finire per divenire poco credibili e perdere gli alleati. Rimanere soli vuol dire poter essere in grado di fare a meno del consenso utilizzando solo lo strumento della forza per costruire “sicurezza”. Questa è una strada che è già stata praticata in passato e può essere praticata, in ultima analisi, solo dalle dittature. E la storia recente ha già dimostrato quali sciagure immani causi la politica della “sicurezza” da parte delle dittature. Quindi, su questa strada, l’elemento debole di una democrazia, come quella americana che ricerca la “sicurezza” attraverso l’utilizzo costante della forza militare all’interno di un consenso, è proprio l’elemento del consenso. Gli USA si trovano in questa situazione: non possono fare a meno del consenso e hanno scelto di praticare una politica che può, nel tempo, eroderli il consenso, sia interno che internazionale.
A mio avviso, al di là del dato di fondo che la guerra non potrà mai costruire sicurezza in alcun tempo e circostanza, è questa la contraddizione di una democrazia che pratica la guerra affidandosi all’equazione sicurezza=forza + consenso. Questa equazione non potrà che non funzionare poiché la democrazia e la guerra fanno strade diverse e non possono essere forzate a fare la stessa strada. Inoltre, al di là di ogni ragionamento sia etico che morale rimane il fatto che l’uso costante della forza in difesa della “sicurezza” da parte di una democrazia non può che costruire un consenso parziale al proprio interno- in continua oscillazione- ed erodere il consenso più ampio internazionale, in quanto la “sicurezza” che su questa via si può riuscire a costruire non è ovviamente una sicurezza per tutti. Nel tempo, procendo sulla strada dell’equazione sicurezza=forza + consenso si finirà per costruire inevitabilmente una nuova equazione: poca sicurezza=molta forza + poco consenso. Per questa strada, si arriva dunque a non riuscire a garantirsi più l’elemento ricercato, cioè la sicurezza.
b) La seconda equazione: Sicurezza= pace+giustizia, ha bisogno di tempi più lunghi per essere realizzata. Questo perché necessita di realizzare ancora la pace e la giustizia che, attualmente, sul nostro pianeta non esistono che parzialmente. Si può, tuttavia, realizzare degli strumenti o condizioni che garantiscano l’inizio del processo che vuole costruire la sicurezza su tutto il pianeta attraverso la pace nella giustizia. Procedere sulla strada di questa seconda equazione significa procedere alla costruzione di questi strumenti o condizioni. Quali sono questi strumenti o condizioni? Quelli che annullano le disuguaglianze sociali troppo grandi tra le persone sul pianeta e creano, nel contempo, le condizioni per una politica di pace tra i popoli. La realtà che serve alla bisogna è una realtà dove le persone si sentano tutte più tutelate e, quindi, meno esposte alla condizione del più forte. Tutto questo è possibile ottenerlo tramite leggi e comportamenti sociali.
Un comportamento sociale solidale diffuso a vasto raggio e ampiamente maggioritario sull’intero pianeta ha bisogno che si affermi una cultura che oggi esiste ma non è vincente: la cultura della pace nella giustizia. Gli strumenti da implementare sono molti e vanno da un consumo critico e da un commercio equosolidale alla ricerca di più giustizia sociale e di un lavoro e di un ambiente decisamente migliori e a misura d’uomo. Di tutti questi strumenti si è da tempo avviata parzialmente la loro costruzione. Esiste, tuttavia, uno strumento di costruzione di pace, particolarmente utile in questa fase storica, di cui lo stesso movimento per la pace non ha ancora preso pienamente coscienza. Questo strumento è dato dai Corpi Civili di Pace. Possiamo anche vedere i c.c.p. come un controllo e, in pari tempo, una supplenza, che la società civile fa nei confronti degli stati riguardo al tema della sicurezza. Questo avviene perché gli stati non riescono attualmente a realizzare una politica estera di pace, ma sono anzi pericolosamente sbilanciati verso una politica di guerra. E’ un lavoro prezioso, di cui da anni ha cominciato a farsi carico la società civile, organizzandolo dal basso e di cui gli stati devono prendere atto e quanto prima assumere in proprio. Ciò significa che oggi gli stati devono approntare i corpi civili di pace a partire dal riconoscere e tutelare il lavoro dei corpi civili di pace già esistenti. Solo se gli stati daranno nei fatti più importanza a organismi civili di questo tipo,che premono dal basso per superare l’attuale concezione che i conflitti si risolvono solo con le armi, si potrà iniziare un lavoro sistematico da parte della società civile di prevenzione delle guerre che uccidono la vita sul pianeta.
Da ormai alcuni anni, numerosi volontari della società civile internazionale intervengono utilmente nelle varie zone di conflitto del nostro pianeta in aiuto della popolazione civile locale. I volontari intervengono a proprie spese e a proprio totale rischio senza alcun riconoscimento e sostegno da parte delle varie istituzioni nazionali e internazionali, anche se si sono avuti vari e ripetuti pronunciamenti, a partire dal 1995, in sostegno della realizzazione di Corpi Civili di Pace da parte del Parlamento Europeo, ONU e singoli stati nazionali, compreso il nostro. Tuttavia, tutti questi pronunciamenti ad oggi sono rimasti lettera morta.
Questa situazione non è più sostenibile. Anche perché, di recente, in Palestina sono stati uccisi dei volontari di pace internazionali ed altri sono stati arrestati e allontanati. Bisogna impedire che alla società civile venga negato dagli eserciti di intervenire in difesa dei diritti umani senza che ci sia una risposta forte anche delle istituzioni internazionali. Il lavoro da fare è molto ed è appena agli inizi.
Per questa ragione è nata la Rete C.C.P., che si propone, tra l’altro, di lanciare una Campagna Internazionale per il sostegno e il riconoscimento dell’azione dei Corpi Civili di Pace ovunque questi interveranno.
L’aiuto e il riconoscimento, nelle forme e nei modi possibili, da parte delle varie istituzioni nazionali e internazionali è vitale per il prosieguo del nostro lavoro di costruttori di pace. Senza aiuti dalle istituzioni non potremo costruire che modesti interventi e difficilmente potremo verificare la vadilità del nostro progetto di pace. Inoltre senza una autorevolezza istituzionale non potremo essere credibili per i nostri interlocutori. E infine questo riconoscimento delle istituzioni permetterà a tutti i volontari costruttori di pace ( Corpi Civili di Pace) di continuare la propria attività in zona di conflitto in maggiore sicurezza e serenità contribuendo così a meglio rappresentare la volontà di pace della maggioranza dell’umanità che non vuole la guerra e intende realizzare al più presto una politica estera di pace.
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