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Il resistibile declino dell'Onu

In Libano l'Onu ha mostrato di avere ancora un ruolo indispensabile nella soluzione dei conflitti ma ha confermato la sua incapacità di prevenire guerre e difendere gli aggrediti
5 settembre 2006
Richard Falk (Professore "emerito", docente dell'Università di Princeton, storico della II guerra mondiale e della guerra del Vietnam. Il presente testo è stato pubblicato sul sito della TFF (http://www.transnational.org) come PressInfo # 241.)
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Va da sé che respiriamo un po' più facilmente dopo la notizia di un cessate il fuoco nel Libano, anche se le prospettive che esso possa costituire un argine definitivo alla violenza non sono favorevoli in questo momento. E dopo aver tremato per 34 giorni mentre le bombe cadevano e i missili prendevano il volo dobbiamo riconoscere che le Nazioni unite, nonostante tutte le loro debolezze, svolgono tuttora un ruolo indispensabile in una vasta gamma di situazioni internazionali di conflitto. È degno di nota che, in questo caso, nonostante il malcontento di Israele nei confronti dell'autorità dell'Onu, e la riluttanza degli Stati uniti ad accettare ogni interferenza nelle priorità della loro politica estera, come è avvenuto in Iraq, entrambi i paesi siano stati costretti a rivolgersi all'Onu quando la guerra di Israele contro il Libano si è impennata di fronte alla resistenza particolarmente forte degli Hezbollah.
Nello stesso tempo bisogna ammettere che questo non è certamente il momento di celebrare l'Onu per la sua capacità di adempiere al suo ruolo programmatico di organizzazione intesa a prevenire le guerre e ad assicurare la difesa di stati vittime di un'aggressione. Può darsi che questa sia un'occasione per fare un bilancio di ciò che ci si può aspettare dall'Onu nella prima fase del XXI secolo ,concludendo che l'Organizzazione non può essere considerata né come un fiasco né come un successo, ma come qualcosa di intermedio fra questi due estremi che è complicato e sconcertante insieme.
Le origini e le speranze
Dopo la II guerra mondiale uno stato d'animo di sollievo per la fine della guerra si mescolava alla soddisfazione (...) e alla preoccupazione (che una futura guerra su vasta scala potesse essere combattuta con armi nucleari, e, anche se ciò non fosse avvenuto, che la tecnologia militare fosse destinata a rendere le guerre sempre più devastanti per la società civile). Una risposta atta ad alimentare le speranze era costituita dalla fondazione dell'Onu sulla base di un accordo di fondo sul punto che il ricorso alla forza da parte di uno Stato, tranne che in casi di stretta necessità di autodifesa, era incondizionatamente vietato. Si dava per scontato che questa norma dovesse essere accompagnata da un meccanismo per la sicurezza collettiva destinato a proteggere le vittime di un'aggressione, ma questo dispositivo, benché inserito nella Carta dell'Onu, non è stato mai messo in atto.
I paesi vincitori della II guerra mondiale più la Cina furono designati come membri permanenti del Consiglio di sicurezza e dotati del diritto di porre il veto a qualsiasi decisione. L'intento era quello di riconoscere che l'Onu non poteva sperare di assicurare l'osservanza del diritto internazionale da parte di questi stati dominanti e che, per evitare di alimentare aspettative troppo elevate, era meglio riconoscere fin dall'inizio che questa deferenza del «diritto» nei confronti della «potenza» limitava sostanzialmente il ruolo dell'Onu.
Ma ciò che non era stato previsto nel 1945, e che, ora, è tornato nuovamente a danneggiare la reputazione dell'Onu, è stata la realizzazione del fatto che l'Organizzazione avrebbe potuto servire da strumento della geopolitica fino al punto di scavalcare le limitazioni più fondamentali al «diritto» di far guerra dei singoli Stati che erano state incorporate fin dall'inizio nella Carta dell'Onu; esattamente ciò che è accaduto nel contesto della guerra condotta da Israele contro il Libano.
Il Consiglio di sicurezza è rimasto in silenzio di fronte alla decisione di Israele di avvalersi del pretesto fornito dalla provocazione di confine da parte degli Hezbollah del 12 luglio, che aveva coinvolto solo un piccolo numero di militari israeliani, per scatenare una guerra in piena regola contro un Libano sostanzialmente privo di difese. Ha avuto luogo, così, un mese di spietati attacchi aerei israeliani contro villaggi e città del Libano, mentre le Nazioni unite si rifiutavano perfino di chiedere un cessate il fuoco immediato e totale (...). E proprio questo banco di prova è indicativo di quanto siano cadute in basso le aspettative riposte nell'azione del Consiglio di sicurezza in tutti i casi in cui esiste una qualche seria divergenza fra la Carta delle medesime e le priorità della politica degli Usa, e cioè del membro che esercita il suo controllo su tutto il funzionamento dell'Organizzazione.
Bisognerebbe ricordare che è stato il governo Usa a dichiarare le Nazioni unite «irrilevanti» nel 2003, quando il Consiglio di sicurezza rimase saldo sulle sue posizioni, e si rifiutò di autorizzare un'invasione del tutto illegale dell'Iraq. Nel caso dell'Iraq, inoltre, l'esperienza, più di qualsiasi altra cosa, fece toccare con mano la caduta delle aspettative associate un tempo al Consiglio di sicurezza. Esso fu applaudito, allora, per il fatto di non avere autorizzato l'aggressione contro l'Iraq, ma quando l'invasione procedette, nonostante tutto, nel marzo 2003, il Consiglio di sicurezza si rese complice dell'aggressione tramite il suo silenzio, e più tardi si spinse ancora più oltre, agendo, se si può dir così, come un «junior partner» nell'occupazione guidata dagli Americani dell'Iraq.
Il punto che intendiamo sottolineare è che l'Onu è incapace di impedire ai suoi membri permanenti di violare la Carta, e, ancor peggio, collabora a tali violazioni con l'appoggio che fornisce al suo membro più potente.
La «promessa di Norimberga»
L'Onu si è ridotta, purtroppo, ad essere, in situazioni di questo genere, piuttosto uno strumento di carattere geopolitico che uno strumento per imporre l'attuazione del diritto internazionale. Questa regressione tradisce la visione che aveva guidato gli architetti dell'Onu nel lontano 1945, fra cui un posto di primo piano era occupato da diplomatici americani.
Bisognerebbe anche ricordare che quando i capi tedeschi e giapponesi sopravvissuti furono giudicati e puniti in tribunale, dopo la II guerra mondiale, per avere condotto guerre aggressive contro altri popoli, nei processi tenuti a Norimberga e a Tokio, i loro accusatori promisero che i principî giuridici applicati per giudicare gli imputati appartenenti ai paesi sconfitti sarebbero stati applicabili in futuro per valutare il comportamento della potenza vittoriosa che allora sedeva in giudizio. Questa «promessa di Norimberga» è stata da allor dimenticata dai governi in carica, ma non dovrebbe essere ignorata dall'opinione pubblica e dai cittadini dotati di coscienza.
Nulla illustra questa condizione decaduta dell'Onu meglio della Risoluzione unilaterale di cessate il fuoco 1701 approvata con un voto unanime in data 11 agosto. Questa risoluzione, benché sia, per certi aspetti, un compromesso che riflette l'esito non conclusivo delle operazioni che si sono svolte sul campo di battaglia, è sbilanciata, in molti dei suoi particolari, a favore del paese che, da un lato, ha illegittimamente «scalato» un incidente di frontiera, esagerandone la portata e le conseguenze, e che, dall'altro, ha condotto massicce operazioni militari contro obbiettivi civili in flagrante violazione del diritto di guerra: la Risoluzione 1701 fa rimprovero agli Hezbollah di aver dato inizio al conflitto; si astiene dal fare qualsiasi commento critico sui bombardamenti e sulla campagna di artiglieria israeliani diretti contro l'intero territorio del Libano; impone un obbligo di disarmare Hezbollah senza sottomettere ad alcuna restrizione le capacità e le politiche militari israeliane; manca ancora di censurare Israele per l'espansione del raggio della sua presenza sul territorio libanese nella misura del 300 per cento, attuata per battere sul tempo la «deadline» del cessate il fuoco, e si pronuncia per la proibizione di «tutti» gli attacchi da parte di Hezbollah mentre richiede, da parte di Israele, solo che esso ponga termine alle «operazioni militari offensive», lasciando la definizione di che cosa sia «offensivo» nelle mani dei politici di Tel Aviv e di Washington.
Apprendiamo, da questa esperienza, alcune cose importanti a proposito delle Nazioni unite. Anzitutto, questa organizzazione è incapace di proteggere qualsiasi stato, quali che siano le circostanze particolari in cui si trova, che sia la vittima di una guerra aggressiva che sia stata iniziata dagli Usai o dai loro alleati più stretti.  (...)
In secondo luogo, il Consiglio di sicurezza, pur senza appoggiare direttamente, nell'immediato, queste pretese di una guerra aggressiva, finisce per collaborare con l'aggressore nella situazione che si è venuta a creare dopo il conflitto allo scopo di ratificare gli effetti dell'aggressione. Questa combinazione significa, di fatto, che la proibizione della Carta relativa alle guerre non difensive si applica solo ai nemici degli Usa. Ogni ordine legale che merita rispetto tratta gli eguali in modo eguale. Le Nazioni Unite sono colpevoli di trattare gli uguali in modo diseguale, e così facendo minano costantemente la propria autorità.
L'illegittima «autodifesa punitiva»
C'è un altro elemento disturbante che riguarda il modo in cui gli stati allineati con gli Usa fanno uso della forza contro attori non statali. Questi stati, di cui Israele è un esempio eminente, s'impegnano in quella che un analista giuridico, Alì Khan, ha definito «difesa punitiva». L'articolo 51 della Carta dell'Onu ha cercato deliberatamente di restringere questa opzione di rivendicare il diritto all'autodifesa con la richiesta di «un attacco armato precedente» da parte dell'avversario, che era espressamente inteso come tale da rappresentare un inizio molto più consistente e più severo di conflitto violento di quanto non possa esserlo un episodio di violenza dovuto a un attacco isolato o a una scaramuccia di frontiera. Più concretamente, gli eventi che si sono svolti ai confini di Gaza e del Libano, e che hanno dato origine a una belligeranza prolungata da parte di Israele, non davano a quest'ultima il diritto legale di agire in tal modo in nome della propria autodifesa, anche se, com'è ovvio, autorizzavano Israele a difendere se stessa con azioni di rappresaglia in misura proporzionata all'offesa ricevuta. Questa distinzione costituisce un elemento cruciale della concezione degli usi legittimi della forza nei rapporti internazionali che è esposta e contenuta nella Carta.
Ciò che si intende per «autodifesa punitiva» è una politica deliberata di reazione eccessiva, o di superreazione, che ha per effetto di dar luogo a una grossolana sproporzione fra la violenza inflitta dall'attore non statale, e cioè, nel caso libanese, da Hezbollah, e la risposta dell'attore statale, cioè Israele.
Ciò significa, inoltre, in contrasto con la Carta dell'Onu e col diritto internazionale, che ogni provocazione violenta da parte di un attore non statale può essere trattata come un'occasione valida per rivendicare il diritto di condurre una guerra in piena regola basata sul concetto di autodifesa. Questo approccio punitivo alla condotta di avversari non statali nega completamente un principio cardinale sia del diritto internazionale che della tradizione della «guerra giusta», autorizzando e legittimando ogni sorta di usi sproporzionati della forza di rappresaglia.
Questa interpretazione scoraggiante (...) non dovrebbe condurre a una liquidazione cinica dell'Organizzazione in quanto tale. Abbiamo bisogno dell'Onu perché intervenga e aiuti ad avviare e a portare avanti il processo postbellico (o post-conflittuale) di ripresa e di ricostruzione delle aree interessate.
Ma non dovremmo farci nessuna illusione circa il fatto che l'esercizio di una funzione di questo genere possa costituire una realizzazione adeguata della visione dell'Onu contenuta nella sua stessa Carta e che esso possa assicurare, di per sé stesso, il rispetto delle norme fondamentali del diritto internazionale.
Che fare?
Ci sono tre aree di sforzo (o di impegno) che sono degne di particolare attenzione:
1) Forse la più importante di tutte è rappresentata dal riconoscimento, da parte degli stati principali, del fatto che la guerra è quasi sempre un mezzo disfunzionale ai fini del perseguimento dei loro interessi nel campo della sicurezza, specialmente quando si tratta di affrontare sfide poste da attori di natura non statale. A questo proposito l'aderenza ai limiti posti dal diritto internazionale può servire gli interessi nazionali meglio di quanto si possa ottenere questo scopo affidandosi alla propria superiorità militare per scavalcare le restrizioni all'uso della forza previste dalla Carta dell'Onu (...).
2) Di importanza immediatamente secondaria è, per tutti i membri dell'Onu, prendere più sul serio i propri obblighi di rispettare e di far valere i principî enunciati nella Carta; può essere appropriato, in questo spirito, far rivivere l'attenzione di tutti alla Risoluzione 337 A (nota sotto il nome di "United for Peace"), che conferisce  una responsabilità residuale all'Assemblea generale di tutti i membri dell'Onu di prendere l'iniziativa di agire per conto proprio quando il Consiglio di sicurezza si dimostra incapace di farlo.
Più voce all'Assemblea generale
Questa risoluzione, che risale all'anno 1950, fu stesa nel contesto della Guerra Fredda, nell'intento di aggirare un possibile veto sovietico, ma il suo impiego fu sospeso dall'Occidente sulla scia del processo di decolonizzazione, che fu percepito, a un certo punto, come tale da rendere l'Assemblea Generale meno disposta a supportare gli interessi del mondo occidentale di quanto non fosse stato il caso nei primi anni di vita dell'Onu.
L'Assemblea generale potrebbe essere restaurata nei suoi poteri per fare in modo che possa aggiungersi agli sforzi del Consiglio di sicurezza in tutti i casi in cui una crisi urgente (...) non è affrontata in maniera compatibile coi principî enunciati nella Carta; lungo linee analoghe potrebbe situarsi una tendenza accresciuta a fare affidamento sulla ricerca di una guida legale da parte della Corte internazionale di giustizia, quando si presentassero problemi del genere di quelli che sono stati sollevati dall'escalation israeliana. (...).
3) E finalmente, date queste delusioni determinate dalla preminenza degli interessi geopolitici nell'ambito Onu, è importante che i singoli individui e le associazioni di cittadini diano prova della massima vigilanza. Il Tribunale mondiale sull'Iraq, che ha avuto luogo a Istanbul nel giugno 2005, ha formulato un giudizio «legale» sulla guerra irachena e sulle persone responsabili del suo avvio e della sua condotta. Ha compiuto, cioè, quella specie di processo legale che le Nazioni unite si sono rivelate incapaci di compiere (...). Ha fornito un esame complessivo delle politiche e dei loro effetti, e formulato, in definitiva, un giudizio di merito insieme a una serie di raccomandazioni stese da un "giurì di coscienza" presieduto dalla nota scrittrice e attivista indiana Arundathi Roy.
Questi pronunciamenti da parte dei rappresentanti della società civile non possono, ovviamente, porre termine alla guerra irachena, ma hanno tuttavia due effetti positivi: anzitutto, essi mettono a disposizione dei "media" e del pubblico un'analisi complessiva della rilevanza del diritto internazionale e della Carta dell'Onu ai fini della valutazione di una guerra altamente controversa e tuttora in corso; e in secondo luogo, così facendo, essi mettono a nudo le carenze e le inadempienze delle istituzioni ufficiali (...) nel loro compito di proteggere il benessere e di garantire la sicurezza di tutti i popoli del mondo.

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