Fondo Monetario Internazionale, le economie emergenti e i paesi poveri chiedono la redistribuzione delle quote
Alla fine il governo di Singapore ha capito di averla fatta grossa. Vietare l’accesso a decine di attivisti che da anni si battono in maniera assolutamente pacifica per una seria riforma delle istituzioni finanziarie internazionali si è rivelato un clamoroso autogol. E allora via con la marcia indietro, con ventidue dei ventisette attivisti dichiarati indesiderabili improvvisamente autorizzati a entrare nella città-stato asiatica. Tra di loro risultano esserci anche gli italiani Antonio Tricarico ed Elena Gerebizza della CRBM/Mani Tese. I rimanenti cinque ancora iscritti tra i “cattivi”, compreso Walden Bello di “Focus on the Global South”, potrebbero ottenere l’ingresso qualora fosse reputato soddisfacente un interrogatorio sostenuto con le forze dell’ordine singaporeane. Troppo poco e troppo tardi, il commento delle Ong, che intanto all’apertura del contro-forum di Batam, isoletta indonesiana a poche miglia da Singapore, avevano lanciato il loro boicottaggio totale agli incontri annuali di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale. La società civile globale, quindi, diserterà tutti i meeting con Banca mondiale e FMI in programma nei prossimi giorni a Singapore. Una decisione dettata non solo dalla presenza di una “lista nera”, ma anche dal trattamento riservato ai tanti attivisti, circa sessanta, che hanno vissuto ore da incubo all’aeroporto di Singapore. Alcuni sono stati già rispediti al loro Paese di origine, di altri si ignora tuttora la sorte. Tra questo gruppo di “sfortunati” c’è anche Filomeno Santa Ana, stimato economista e accademico dell'università delle Filippine, esponente della rete del “Social Watch”.
Il parziale ammorbidimento delle autorità singaporeane è certamente dovuto alle pressioni dei governi europei - con tanto di presa di posizione della presidenza finnica dell’Ue e intervento diplomatico del ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa per l’Italia - ma soprattutto all’iniziativa di Banca e Fondo. Dopo la timida protesta iniziale, il presidente della Banca mondiale Paul Wolfowitz appena sbarcato a Singapore ha fortemente stigmatizzato la condotta del governo singaporeano. Troppo tardi, verrebbe da dire. Wolfowitz avrebbe forse dovuto ammettere che sono state prima di tutto le due istituzioni finanziarie internazionali a fare una figuraccia, sia perché hanno scelto un Paese come Singapore, molto poco sensibile alla tutela dei diritti umani, come sede di un vertice così importante, sia perché non hanno tempestivamente sfruttato i mezzi legali in loro possesso per far rispettare i legittimi interessi della società civile globale.
Basti pensare che già da circa un anno si sapeva che nella città-stato asiatica non si sarebbe potuto manifestare in alcun modo e che l’ultimo corteo per le strade di Singapore si è tenuto addirittura alla fine degli anni ottanta. In realtà secondo il capo della polizia Soh Wai Wah, lo stesso che a inizio settimana aveva affermato che negare l’accesso a “solo” il 5% era un ottimo risultato, non è vero che le proteste saranno vietate del tutto. Si potrà manifestare in un’area all’interno del Centro Congressi dove si svolge il summit, in uno spazio grande quanto un campo da pallavolo! Se non bastasse questa come notizia surreale, aggiungiamoci che coloro che vogliono partecipare alla protesta dovranno prima comunicare le loro intenzioni alla polizia locale, che nell’arco di cinque giorni provvederà a concedere loro il permesso. Peccato che in cinque giorni il vertice sarà bello che finito!
Nel frattempo agli incontri tiene banco una delle principali questioni in agenda, ovvero la revisione delle quote di potere dei Paesi membri del Fondo monetario internazionale. Va subito detto che attualmente il Fondo sta vivendo una profonda crisi di legittimità, percepita fortemente anche dal suo direttore generale, lo spagnolo Rodrigo de Rato. L’iniqua ripartizione dei seggi - ancorata agli equilibri geopolitici di sessant’anni fa - e il sistema della distribuzione dei voti non permettono ai Paesi in via di sviluppo di avere voce in capitolo in seno all’istituzione.
La decisione di rivedere il sistema delle quote deriva dalle forti richieste delle economie emergenti, quali Brasile e India, nonché dei Paesi più poveri, primi fra tutti quelli africani, decisamente sottorappresentati. Entrambi i gruppi chiedono una redistribuzione dei seggi, un provvedimento che colpirebbe in prima battuta l’Unione Europea. In base alla distribuzione attuale, infatti, l’Ue detiene il 23% dei voti, mentre gli Stati Uniti si attestano al 17%. L’intero gruppo dei 47 Paesi dell’Africa si ferma a un misero 5%. Tra le economie emergenti più sottorappresentate figurano la Cina (il cui numero di seggi è inferiore a quello di Paesi Bassi e Belgio), la Corea del Sud e l’India. Le proposte che verranno discusse a Singapore, però, non vanno in direzione di una struttura più democratica dell’istituzione. E’ quasi sicuro l’aumento dei seggi e del potere di voto per Cina, Corea del Sud, Turchia e Messico a discapito dei Paesi africani, per i quali non sono previsti seggi aggiuntivi ma addirittura una riduzione del potere di voto a uno scandaloso 2.1%. Come dire, oltre al danno, la beffa.
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