Fmi e Banca mondiale in crisi
Gli incontri annuali della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, tenuti a Singapore, passeranno alla storia per il primo goffo tentativo da parte del G7, padrone assoluto delle due istituzioni dalla fine della seconda guerra mondiale, di rivedere il governo della globalizzazione liberista. Una necessità dettata da un'economia mondiale in fase di profondi cambiamenti. Oramai le istituzioni di Bretton Woods, e con esse la Wto, che ha visto a luglio il tracollo dei negoziati commerciali avviati a Doha nel 2001, vivono una palese crisi, sia di legittimità che nel loro funzionamento. Negli ultimi anni la globalizzazione ha prodotto fenomeni che il ricco Nord non aveva previsto, come l'emergere della potenza economica cinese, le pesanti crisi finanziarie del 1997 e l'emancipazione dai prestiti del Fondo monetario da parte delle realtà emergenti in Asia e in America Latina, grazie alla loro rinnovata capacità di ripagare i debiti. Le rovine del sistema finanziario internazionale continuano però a essere gestite da un G7 ormai fuori dalla storia e incapace di agire di fronte alle emergenze economiche e finanziarie del pianeta, per non parlare di quelle sociali, ambientali e umanitarie.
A Singapore gli Stati Uniti, con il consenso di Europa e Giappone, hanno concesso più potere di voto nell'Fmi a Cina, Corea del Sud, Messico e Turchia. Quattro paesi non scelti a caso, o perché tra i pochi clienti importanti delle istituzioni, o, soprattutto come nel caso della Cina, perché nuove potenze da coinvolgere nel sistema multilaterale per poterne influenzare le scelte di politica economica. Il punto di partenza di questo processo è la rivalutazione della moneta cinese, bene o male fino a oggi ancorata al dollaro, che crea enormi problemi ai paesi occidentali incapaci di competere con l'export cinese a prezzi stracciati.
Nonostante il 90% dei paesi azionisti del Fondo abbia dato il via libera alla mini-riforma, non mancano i malumori, a partire dal blocco di paesi sudamericani che si vede trascurato. Per non parlare del malcontento dei paesi africani, dalle cui richieste di avere più voce nell'istituzione era partita questa fase di revisione, che escono addirittura perdenti, vedendo dimezzato il potere di voto a un vergognoso 2,5%. Il tutto con la complicità dello stesso G7, che solo un anno fa a Gleneagles, sotto la guida di Blair, prometteva radicali cambiamenti nelle relazioni con i paesi più poveri, Africa in particolare. L'Europa, che nel Fondo è sovra-rappresentata, continua invece a rinunciare a cedere le sue quote ai paesi più poveri, e così a costruire con loro una relazione strategica che spiazzerebbe gli Usa.
Sul fronte della Banca mondiale, il vertice di Singapore ha registrato un ridimensionamento delle ambizioni del Presidente Paul Wolfowitz, costretto a tracciare un bilancio alquanto deludente nel suo primo anno di mandato rispetto alle aspettative di drammatici cambiamenti associati alla sua nomina al vertice dell'istituzione. La grande strategia contro la corruzione e per la promozione del «buon governo», che aveva generato forti timori di discrezionalità politica nella sua applicazione da parte del Presidente, è stata approvata dagli altri Paesi membri solo con la condizione, voluta con forza da una Ue quanto mai compatta, di essere soggetta a una rigida supervisione da parte del consiglio direttivo della Banca. Molti Paesi del Sud lamentano che la nuova strategia rischia di aumentare i costi di transazione degli aiuti, mentre la società civile ritiene che rappresenterebbe una subdola evoluzione della Banca, dal dettare specifiche politiche economiche al forgiare con un intrinseco approccio liberista addirittura le istituzioni di un Paese, il tutto approfittando della scusa della corruzione e della mancanza di democrazia e facendo forza sul ricatto del taglio degli aiuti. Allo stesso tempo il G7 riconferma l'impegno di 5 miliardi di dollari in «aiuti per il commercio», per convincere i Paesi del Sud a ritornare al tavolo del negoziato commerciale alla Wto. Ma l'attenzione è sempre per i Paesi emergenti, nei cui confronti la Banca mondiale rivede la sua strategia pur di convincerli a continuare a prendere i suoi prestiti, pena la sua stessa sopravvivenza finanziaria. Da qui la proposta di un nuovo piano di investimenti energetici che rilancia carbone e altre tecnologie ben poco sostenibili, ma di interesse per i grandi Paesi del Sud. Anche questa strategia, però, è a forte rischio e non è dato sapere se la Banca riuscirà a trovare i finanziamenti necessari per realizzarla.
Nel complesso la Banca e il Fondo tornano a Washington con molta incertezza sul proprio futuro. La prossima tappa importante a livello globale è in programma a novembre, con l'incontro a Melbourne dei ministri dell'economia del Gruppo dei 20, una potenziale nuova cabina di regia della globalizzazione che racchiude vecchie e nuove potenze, ma lascia sempre fuori la maggior parte dei Paesi del pianeta. Quelli che continuano irrimediabilmente a vestire i panni dei perdenti.
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