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Afghanistan: la democrazia assente

Graziella Longoni e Laura Quagliuolo

In occasione dell’8 marzo 2006 due donne afghane di due differenti organizzazioni, che sosteniamo e con cui collaboriamo da molti anni, hanno pronunciato la stessa frase di Bertolt Brecht: “Non voglio essere un criminale per non aver detto la verità”. Si tratta di Malalai Joya, presidente di Opawc (Organization for Promoting Aghan Women Capabilities) e deputata eletta nel parlamento afghano, nel settembre del 2005, per la provincia di Farah e di Zoya, attivista di Rawa (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane), un’associazione femminista costretta tuttora a lavorare in clandestinità. Sono parole che colpiscono per la loro durezza e perché dischiudono una finestra sulle menzogne che l’Occidente e lo stesso governo afghano continuano a raccontare.
Qual è, dunque, la vera condizione in cui versa la popolazione afghana? E perché la realtà viene costantemente coperta da menzogne?
Questi sono i fatti seguiti all’11 settembre così come ci sono stati raccontati dalla maggior parte dei media: dopo l’attacco alle torri gemelle si forma una coalizione di Paesi (tra i quali l’Italia), guidata dagli Usa, che decide di bombardare l’Afghanistan, Paese schiacciato dal regime dei taleban e nel quale si muovono e vengono addestrati i miliziani di al Qaeda, comandati da Bin Laden, ritenuto responsabile dell’attacco. Bush assicura che sarà una guerra “chirurgica”, che spazzerà via la centrale terroristica più importante del mondo e libererà le donne dalla schiavitù del burqa. La missione comporta un pesante bombardamento aereo; come truppe sul campo vengono invece utilizzate le milizie armate presenti sul territorio, le stesse milizie che avevano combattuto il jihad (guerra santa) contro l’invasione sovietica iniziata nel 1979. Viene istituito un governo ad interim con a capo Hamid Karzai, uomo della Unocal (compagnia petrolifera statunitense) di etnia pashtun, maggioritaria nel Paese, formato nella grande maggioranza dai comandanti delle milizie utilizzate sul campo. Con il beneplacito dell’Onu vengono mandati, solo a Kabul, 5mila soldati dell’Isaf (oggi arrivati a 15mila), la cosiddetta forza di pace formata da soldati di diversi Paesi della coalizione; queste forze hanno un mandato che le impegna a favorire il processo di “democratizzazione”, accompagnare la ricostruzione del paese, garantire la maggiore sicurezza per la popolazione.
Nel sud-est del paese restano i soldati che fanno parte dell’operazione Enduring Freedom, per combattere le ultime sacche di resistenza da parte dei taleban e di al Qaeda.
Nel gennaio 2004 la Loya Jirga (grande assemblea) costituzionale approva la nuova Costituzione, le elezioni presidenziali del 2004 confermano Karzai quale capo del governo e quelle parlamentari del 2005 insediano il nuovo parlamento. Nel frattempo, con due conferenze di donatori, vengono accordati all’Afghanistan aiuti per un totale di 18 miliardi di dollari al fine di finanziare la ricostruzione.
La storia degli ultimi anni dell’Afghanistan, raccontata in questo modo, lascia capire che il Paese, seppur lentamente e tra mille difficoltà dovute ai quasi 30 anni di guerre passate, sta trovando la sua strada verso la pacificazione e la democrazia.
Questa storia però non rivela la realtà dell’Afghanistan; l’Occidente vuole solo dimostrare che è possibile esportare la democrazia con le bombe e, visto che l’Iraq non può essere portato ad esempio, si cerca di fare questa operazione con l’Afghanistan.

Oltre il velo della menzogna
Questa storia purtroppo non racconta che le milizie usate sul campo, e soprattutto i loro comandanti, sono milizie di signori della guerra fondamentalisti, con una mentalità identica a quella dei taleban e che questi signori della guerra (al tempo dell’invasione sovietica già armati e finanziati da Usa, Arabia Saudita, Pakistan, Iran) si sono resi responsabili di quattro sanguinosissimi anni di guerra civile, tra il 1992 e il 1996, dove nella sola Kabul sono stati massacrati 65mila civili e la città è stata ridotta in macerie (vedi il rapporto Human Rights Watch del 2005, Blood Stained Hands). Oggi l’Afghanistan conta, oltre allo sgangherato esercito ufficiale, 1.800 milizie private che controllano pressoché tutto il territorio.
Questa storia non racconta che sono sempre questi stessi signori della guerra a rivestire tutti i ministeri e i posti chiave nel governo e nel Parlamento e, dove non c’erano più posti a disposizione, a vedersi assegnati i posti di governatori delle Province (equivalenti alle nostre Regioni), nelle quali spadroneggiano a loro piacere, visto che la presenza delle truppe Isaf è quasi praticamente ancora limitata alla capitale e comunque non assolve al suo mandato, dal momento che, invece di proteggere la popolazione e favorire i processi di ricostruzione, fa da garante a un governo e a un Parlamento formato da criminali di guerra.
Questa storia non racconta che la Costituzione siglata nel gennaio del 2004 (che se fosse applicata rappresenterebbe, nonostante tutto, un passo avanti), pur non menzionando esplicitamente la legge coranica (sharia), demanda tutto al rispetto della “sacra religione islamica” e il giudizio è affidato a mullah che interpretano il Corano a loro discrezione e nella totale indifferenza per i diritti umani, regolarmente calpestati; una Costituzione che sancisce la parità tra uomo e donna, anche se non si contano i casi di donne messe a morte per lapidazione per “reati” come l’adulterio.
Questa storia non racconta che il “democratico” Parlamento afghano è stato eletto a suon di brogli ed è composto per il 6% da trafficanti di droga, per il 4% da taleban “moderati”, per il 72% da signori della guerra, per il 3% da religiosi conservatori e per il restante 15% da un’opposizione democratica e non compromessa con i signori della guerra fondamentalisti. Il caso di Malalai Joya, che dal suo scranno parlamentare continua a denunciare la situazione e che per questa ragione è stata aggredita fisicamente nella stessa aula parlamentare e viene continuamente minacciata di morte, non suscita grande scalpore nei media e nelle coscienze dei governanti occidentali.
Questa storia non racconta che in Afghanistan, nonostante i miliardi di dollari concessi per la ricostruzione, dei 21mila km di strade presenti solo 2.793 sono asfaltate, e dei 47 aeroporti solo 10 hanno piste di atterraggio asfaltate.
Secondo un rapporto dell’Undp (United Nations Development Program – Programma di sviluppo delle Nazioni Unite), il 39% della popolazione nelle aree urbane e il 69% di coloro che vivono nelle aree rurali non ha accesso ad acqua pulita. Si contano sulla punta delle dita i fortunati ad avere elettricità in casa. La speranza di vita è 44 anni, e il 53% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La percentuale di popolazione alfabetizzata è del 29%. Nonostante si siano iscritti alle scuole di vario livello oltre tre milioni di studenti, la maggior parte degli edifici scolastici, danneggiati durante gli anni di conflitto, non sono stati ricostruiti e non sono sicuri. Il salario medio mensile è di 40 dollari al mese, il costo medio mensile di una casa in affitto è di 200 dollari e le spese per il cibo per una famiglia ammontano a 200 dollari. La popolazione di Kabul è passata, dopo la caduta dei taleban, da 1 milione a 5 milioni: sono persone arrivate dai campi profughi del Pakistan e dell’Iran e da altre parti dell’Afghanistan in cerca di lavoro. La maggioranza di queste persone sono senzatetto che affollano gli slum della capitale e che in molti casi vorrebbero ritornare da dove sono venuti; ogni mattina, davanti all’Ambasciata iraniana si forma una lunghissima coda di afghani che vogliono un permesso per poter rientrare in Iran a lavorare.
Ebbene, dove sono finiti i soldi della ricostruzione? È sufficiente passare un paio d’ore a Kabul per rendersene conto: nella capitale, accanto a case distrutte e fatiscenti, prive di acqua, luce e fogne, stanno sorgendo decine di lussuose case private, hotel con piscina da 300 dollari a notte e centri commerciali che vendono beni che ben pochi afghani si possono permettere.
Questa storia non racconta che in questi anni l’Afghanistan è tornato a essere il maggior produttore al mondo di papavero da oppio che oggi viene raffinato in loco e non più esportato per la raffinazione. I proventi di questo sporco commercio sono sempre appannaggio dei governatori delle province e dei signori della guerra, che possono così accrescere i loro patrimoni e finanziare le loro milizie.
Questa storia non racconta nemmeno la situazione in cui versano ancora donne e bambini, che avrebbero dovuto essere i primi a ricevere aiuti e protezione. Ogni 30 minuti una donna muore per problemi legati al parto e un bambino su cinque muore prima di compiere cinque anni. Solo il 3% della popolazione femminile è alfabetizzata (e in alcune aree del Paese si arriva al solo 1%), e sono numerosi i casi di scuole femminili riaperte e subito bruciate da chi non voleva lasciare che le bambine potessero godere di questo fondamentale diritto. Centinaia sono i casi di donne che continuano ad autoimmolarsi per disperazione, soprattutto nella provincia di Herat, dove ogni anno si registrano centinaia di casi. La prostituzione, in un Paese in guerra da trent’anni e dove una generazione di donne è stata costretta a vivere senza mariti, padri e figli, è una realtà inquietante; un ricerca, effettuata da Rawa, rivela che già nel 2001 in Afghanistan lavoravano come prostitute 25mila donne, di cui 5mila nella sola Kabul. Il numero è certamente aumentato negli ultimi anni, soprattutto in considerazione del fatto che molti rifugiati sono rientrati nel Paese e che molte donne ricorrono alla prostituzione per sfuggire alla povertà.
Questa è la tragica realtà che l’Occidente rimuove.

La riorganizzazione dei taleban e la risposta militare della coalizione
In questi ultimi mesi (marzo-giugno 2006) l’Afghanistan, che da tempo non occupava più un posto di rilievo nei media, è tornato alla ribalta a causa dell’ondata di terrorismo che, dal maggio scorso, sta colpendo il duramente Paese, provocando migliaia di morti tra i civili. La verità taciuta sta venendo lentamente a galla e ci sta mettendo di fronte a un Paese che rischia nuovamente di precipitare nel caos.
Molti sono gli indicatori che sottolineano la precarietà della situazione afghana e le contraddizioni insite del processo democratico avviato, prima fra tutte la legittimazione politica dei fondamentalisti islamici dell’Alleanza del Nord. Utilizzati dagli Stati Uniti nell’operazione Enduring Freedom, sono stati poi riciclati come nuova classe dirigente in nome di una generica riconciliazione nazionale, che rischia di lasciare impunito chi si è macchiato di crimini orrendi e ha la responsabilità di aver portato il paese al collasso, favorendo l’ascesa dei taleban.
I risultati di questa ambigua operazione, sostenuta dalla coalizione guidata dagli Usa, sono davanti agli occhi di tutti. L’autorità del governo presieduto da Karzai rimane debole e inefficace, non si è mai estesa oltre Kabul e i principali capoluoghi di provincia, nonostante la presenza delle forze dell’Isaf. La sicurezza è un miraggio all’interno di un territorio frammentato in tanti feudi controllati dai signori della guerra e dell’oppio che continuano a spadroneggiare impunemente, compiendo abusi di ogni tipo. La ricostruzione, nei settori in cui è stata avviata, non ha risposto ai bisogni della popolazione, le cui condizioni di vita non sono affatto migliorate, ha favorito soltanto le aziende appaltatrici statunitensi e i corrotti politici che occupano i ministeri dell’attuale governo.
È all’interno di questo quadro desolante che rispuntano e rifioriscono i taleban, sostenuti da terroristi arabi di al Qaeda e dalle milizie di Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra e feroce fondamentalista, strenuo oppositore del governo Karzai e della politica americana in Afghanistan.
I taleban hanno ripreso il controllo delle aree extraurbane delle province sud-orientali di Kandahar, Helmand, Oruzgan, Zabul, Konar, da dove sferrano attacchi continui contro le truppe straniere e governative.
La tecnica dell’attentato suicida e l’omicidio di massa di civili, che caratterizza questa nuova stagione di violenze, fa pensare alla presenza in Afghanistan di operativi arabi di al Qaeda determinati a spingere i ribelli verso una strategia militare di stile iracheno.
La risposta americana agli attentati è durissima: bombardamenti aerei che colpiscono indiscriminatamente la popolazione, arresti arbitrari di civili, brutali rastrellamenti dei villaggi, violenze e abusi sulle donne costrette a subire perquisizioni, torture e uccisioni di detenuti, cui è negata l’assistenza legale nelle strutture di detenzione presso le basi militari di Bagram, Kandahar, Jalalabad, Asadabad.
A quanto pare, la guerra al terrorismo, così come viene condotta, crea una perversa relazione simmetrica tra le forze in campo: più i terroristi alzano il tiro, più dura si fa la repressione militare, e viceversa; le due parti coinvolte sembrano legate a un filo doppio che le imprigiona in una spirale di violenza infinita, destinata ad autoalimentarsi e a gettare il paese nell’instabilità più assoluta.
Il risentimento di gran parte della popolazione verso il corrotto governo centrale che non ha mantenuto le promesse di sviluppo, di democrazia, di giustizia; la crescente insofferenza verso lo strapotere dei signori della guerra e verso le tattiche brutali impiegate dagli Stati Uniti hanno spinto molti afghani a guardare con simpatia ai taleban, i quali godono ormai di un sostegno popolare sempre più ampio, soprattutto tra la popolazione più povera e analfabeta, che viene reclutata, dietro compenso in denaro, per andare a combattere gli stranieri, percepiti come invasori e come forze di occupazione.
Nel suo rapporto del gennaio 2006, Human Rights Watch segnala che nel 2005 più di 1.500 civili afghani hanno perso la vita a causa del terribile acuirsi del livello di scontro, denuncia la pericolosità della situazione attuale, precisando appunto che i taleban si sono riorganizzati con il sostegno delle tribù pashtun delle aree tribali ai confini con il Pakistan, che è aumentato il risentimento popolare verso governo centrale e verso le tattiche militari impiegate dagli Usa, tattiche che, in molti casi, violerebbero il diritto internazionale e gli standard minimi di uno Stato di diritto.
Riflettendo sulla situazione che si è delineata nel corso di questi quattro anni e mezzo e sull’impegno militare dell’Occidente in Afghanistan, non si può negare il fallimento delle missioni Enduring Freedom e Isaf: Bin Laden non è stato catturato, al Qaeda si è nuovamente infiltrata nel Paese, anche se non dispone più di campi di addestramento, la “resistenza” talebana non è stata sconfitta, il territorio afghano è ancora controllato in gran parte dalle milizie dei signori della guerra e dai taleban, la democrazia è una parola vuota in un Paese dove il Parlamento e il governo sono ostaggio dei fondamentalisti islamici e dei signori della guerra.
Tutto questo imporrebbe un ripensamento politico sulle scelte fatte dagli Usa e dai loro alleati dopo l’11 settembre e sulla loro efficacia, invece gli Stati Uniti si limitano a chiedere l’estensione della presenza dell’Isaf nelle zone sud-orientali dell’Afghanistan, dalle quali, a fine luglio 2006, ritireranno le loro truppe, imponendo così all’Isaf di farsi carico della missione di guerra Enduring Freedom.
La missione Isaf, autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nel dicembre 2001 con compiti di peace keeping, aveva già subito un primo snaturamento nell’agosto 2003, quando la Nato, il cui coinvolgimento non era previsto, annuncia, senza previa autorizzazione dell’Onu, di aver assunto il ruolo di comando e di leadership della coalizione.
Da questo momento, a guidare la missione Isaf non è più l’Onu, ma la Nato, e non si tratta di un normale avvicendamento nel comando, ma di un vero e proprio “colpo di mano”, che cambia la stessa configurazione dell’Isaf e il suo ruolo.
Commentando la richiesta americana di dispiegare l’Isaf nelle province sud-orientali dell’Afghanistan, il generale Mini, ex comandante della missione Nato-Kfor in Kosovo, dirà: ”Sostanzialmente, e anche giuridicamente, subentrando agli Usa in un territorio in cui gli Usa stessi non hanno concluso la propria operazione di guerra (Enduring Freedom), l’Isaf-Nato entra in guerra; per questo oggi si parla di assetti di combattimento e perfino di cacciabombardieri da dare alla Nato, impegnata sul nuovo fronte”.
La missione Isaf ha dunque cambiato natura.
Sempre più subalterne agli interessi statunitensi nell’Asia centrale, le forze Isaf stanno perdendo terreno nella considerazione del popolo afghano che in un primo tempo aveva sperato che la loro presenza potesse garantire sicurezza e sostegno al nuovo corso politico, dopo la caduta dei taleban.
Malalai Joya e molti democratici, che in lei si riconoscono, chiedono espressamente che l’Isaf si smarchi dalla politica americana, unicamente interessata a costruire basi militari sul territorio afghano per tenere sotto controllo Cina e Iran; chiedono che ritorni sotto il comando dell’Onu per svolgere una più incisiva azione di peace keeping, il cui obiettivo primario dovrebbe essere il disarmo delle milizie, vera causa dell’instabilità del Paese, e la consegna alla giustizia dei criminali che hanno compiuto abusi contro i diritti umani. Chiedono un radicale cambiamento nel modo di operare dell’Isaf, non il suo ritiro, perché temono che in Afghanistan, dove le forze democratiche sono troppo deboli e non appoggiate dalla comunità internazionale, possa nuovamente scatenarsi la guerra civile, fomentata dal Pakistan e dall’Iran che tuttora sostengono i fondamentalisti.

Costruire la democrazia
Le donne di Rawa, in più occasioni, hanno dichiarato che “nessuno Stato può portare libertà e democrazia a un altro Stato, ma può aiutare un popolo a lottare contro i suoi nemici”. Hanno precisato che i nemici del popolo afghano non sono solo i taleban, ma anche i fondamentalisti dell’Alleanza del Nord, per cui chiedono ai governi veramente amici del popolo afghano di opporsi radicalmente sia agli uni che agli altri, prendendo le distanze dalla politica americana che si limita a combattere i taleban e si serve degli altri come alleati nella sua guerra al terrorismo.
Rawa è inoltre convinta che un Paese deve sempre fare i conti con il proprio passato se vuole aprirsi a un futuro diverso.
Non sarà possibile alcuna riconciliazione nazionale senza il ristabilimento della giustizia, il riconoscimento delle vittime e la condanna dei criminali che hanno ucciso, torturato, rubato, massacrato persone innocenti, portato un intero Paese al disastro.
La sua posizione trova conferma nel rapporto A call for justice, redatto nel gennaio 2005 da “The Afghan Indipendent Human Rights Commission” (Aihrc), commissione prevista negli accordi di Bonn e formalmente istituita dall’articolo 58 della Costituzione afghana con il compito di intraprendere consultazioni nazionali per raccogliere prove sugli abusi del passato e proporre una strategia per realizzare un programma giudiziario di transizione in un Paese, come l’Afghanistan, dove sono stati compiuti gravi crimini contro l’umanità.
Il 76% dei 4.150 intervistati ritiene infatti che gli abusi del passato devono essere ricordati, non cancellati perché questo è l’unico modo per evitare che si ripetano, considera inoltre i criminali di guerra come la fonte primaria dell’instabilità del Paese e chiede urgenti misure per consegnarli alla giustizia in modo da porre fine a quella intollerabile cultura dell’impunità di cui i signori della guerra continuano a beneficiare.
Giustizia e sicurezza sono intrecciate, vanno dunque perseguite insieme. Ristabilire la giustizia è il primo passo per garantire sicurezza e pace, per permettere al popolo di esercitare i diritti politici e di poter partecipare, da protagonista e in un clima di effettiva libertà, alla costruzione della democrazia, unica garanzia di futuro.
A quanto pare Karzai ignora queste richieste; si rifiuta infatti di pubblicare un circostanziato documento relativo al periodo compreso tra il 1978 e il 2001, redatto dall’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, dove, sulla base di prove accertate, si accusano di crimini contro l’umanità parlamentari e politici che sostengono l’attuale governo , tra i quali Sayyaf che, nel 1993, diede l’ordine di massacrare 900 sciiti e fu il principale riferimento di Bin Laden, quando risiedeva in Afghanistan.
A questo punto si pone un problema molto serio per i governi della coalizione che hanno mandato contingenti militari in Afghanistan. Per loro è davvero arrivato il momento di decidere se continuare a restare alleati degli americani, rischiando di essere corresponsabili delle molte violazioni dei diritti umani già denunciate da Human Right Watch e a sostenere il governo Karzai, legittimando i criminali e la cultura dell’impunità che li protegge, o dare ascolto alla voce dei democratici afghani che chiedono di essere aiutati a consegnare alla giustizia chi minaccia la sicurezza del paese e rende di fatto impossibile la democrazia.
Chiunque ami la pace e sia sinceramente preoccupato per il futuro di questo paese martoriato chiede, insieme al popolo afghano, un cambiamento di rotta e in particolare chiede all’Europa di ritornare protagonista nella politica internazionale, impegnandosi sul versante della giustizia, sostenendo cioè il programma giudiziario di transizione, già raccomandato dalla Commissione Afghana per i diritti umani, affinché sia possibile, in tempi rapidi, documentare i crimini di guerra, far emergere la verità sul passato, risarcire le vittime e portare davanti a un tribunale internazionale i responsabili di tutte le atrocità.
È questa l’unica strada per rompere con l’assurda politica imperiale americana che, con la guerra, impone solo false democrazie, l’unica strada per dare una speranza al popolo afghano e per aiutarlo a costruire il suo futuro di democrazia.

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