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Il metallo del disonore

Stefania Divertito

Se fosse un film sarebbe un thriller, all’americana. Gli ingredienti ci sono tutti: le vittime, innanzitutto. Almeno cinquanta giovani soldati morti per malattie emolinfatiche, forme tumorali insidiose e dolorose. Le bugie: un fronte trasversale di politici, tutti intenzionati a nascondere la verità. Documenti top secret, che una volta svelati indicano precise responsabilità penali.
Al centro della vicenda c’è un rifiuto tossico, l’uranio impoverito. Si tratta dello scarto delle lavorazioni delle centrali nucleari, che come tale andrebbe stoccato e smaltito, ma che invece viene riciclato dall’industria bellica. Infatti i proiettili costituiti da uranio impoverito risultano molto efficaci per perforare bunker e carri armati, e quindi sono una straordinaria arma.
Ma non è un film. Quindi per ora il lieto fine è solo una speranza diventata sempre più sottile.
Luca Sepe aveva 28 anni, un sorriso sincero e due occhi piccoli e vivaci. Con la sua cadenza napoletana raccontava con entusiasmo la sua esperienza in Kosovo. Lui esperto di telecomunicazioni, era fuggito dalla disoccupazione del Sud per trovare impiego e soprattutto un ruolo sociale in una polverosa città distrutta dalla guerra. Poco prima di morire, il 13 luglio 2004, stroncato da un linfoma tenace e aggressivo, ricordò in un’intervista di quando chiese al suo comandante perché i soldati americani andavano in giro bardati con tute, guanti e maschere protettive. “Sono tutte buffonate”, fu la risposta.
Corrado Di Giacobbe lascia un padre e una madre che non hanno retto la sofferenza. Lei si è ammalata subito dopo la morte del figlio, lui si è incurvato perdendo in pochi anni il portamento fiero da ex militare. Corrado era un ragazzo vivace e intelligente. Anche per lui la terra del sud non prometteva occasioni di lavoro. E da Vico del Gargano decise di seguire le orme paterne nell’esercito. Fu arruolato come alpino e partì per la Bosnia nel 1997 e poi di nuovo nel 1998. Al ritorno si sentiva sempre stanco affaticato. La diagnosi fu linfoma di Hodgkin. Durante il suo ultimo capodanno, il 31 dicembre 2000, intervistato dal Tg5 disse: “Non so se l’uranio c’entra oppure no. So che tutti noi ci stiamo ammalando, e siamo stati tutti nei Balcani”.
Andrea Antonaci da Martano, minuscola frazione in provincia di Lecce, si era trasferito a Firenze, innamorandosi della città e di una ragazza. Poi, in divisa, atterrò a Sarajevo. Ne tornò malato: prima una strana tosse, poi l’implacabile referto: linfoma non Hodgkin. Oggi Andrea avrebbe 32 anni. È morto il 12 dicembre 2000, mentre l’allora ministro della Difesa italiano Sergio Mattarella sosteneva che la sua malattia non poteva essere ricondotta alla missione all’estero, poiché in Bosnia l’uranio impoverito non era stato utilizzato. Poi, alcuni giorni dopo, dovette smentirsi alla Camera. Il ministro fece sapere all’Italia intera che Andrea aveva ragione, e che anche durante la campagna militare in Bosnia l’uranio era stato utilizzato dalla Nato.
È stato grazie alla denuncia coraggiosa di questi ragazzi, e di tanti atri, che la vicenda è venuta alla luce. Quando nel settembre 1999 Salvatore Vacca, giovane militare cagliaritano morì, nessuno parlava ancora della Sindrome dei Balcani. Ma Giuseppina, la mamma di “Tore”, da subito cominciò ad insospettirsi. Qualcuno pensava al dolore inconsolabile di una madre, ma il muro di silenzio dell’esercito cominciò a incrinarsi. I giovani soldati si scrivevano mail, e vennero così alla luce i nomi dei colleghi malati. Una geografia tutta meridionale di storie, testimonianze, croci. Un rosario da sgranare a poco a poco: a dare i contorni della vicenda sono due associazioni, l’Osservatorio militare, che con il maresciallo Domenico Leggiero e l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, riesce a dare assistenza legale gratuita alle famiglie delle vittime, e l’Anavafaf, presieduta dall’ex ammiraglio Falco Accame. Se non fosse per loro, non sapremmo neanche quanti soldati sono ammalati, perché i distretti militari non sono autorizzati a fornire i dati.
Da sei anni i governi che si sono succeduti hanno dato risposte parziali e contraddittorie alla domanda di fondo: cos’è che fa ammalare e morire ragazzi poco più che ventenni?
La scienza oramai riesce a indicare nell’uranio impoverito il nemico. Quando questo materiale, che ha elevato peso specifico e capacità piroforica, impatta un bersaglio (che sia un carro armato o un bunker) lo perfora come fosse un panetto di burro ed esplode, generando temperature superiori ai 2.500 gradi centigradi e, contemporaneamente, una nuvola tossica, un aerosol formato da particelle di metalli pesanti e nuove leghe chimiche. Sono proprio queste molecole a uccidere. Su questo la scienza è univoca: solo le autorità italiane in merito hanno ancora dubbi. A mostrare in tutto il mondo il lavoro chirurgico di queste nanoparticelle (cioè della dimensione nanometrica) è stata un fisico-chimico modenese, Antonietta Morena Gatti. La dottoressa, a capo di un progetto di studio internazionale, ha scoperto con un microscopio elettronico a scansione ambientale, che in tutti gli organismi dei soldati malati c’erano queste sostanze metalliche e tossiche. In alcuni casi ha addirittura individuato inedite leghe chimiche nei tessuti bioptici esaminati. Queste nanoparticelle si depositano nei tessuti, negli organi e nello sperma dei soldati, facendo poi insorgere forme tumorali. Un quadro clinico identico anche per alcuni cittadini bosniaci, per pastori sardi e per gli agnellini nati con malformazioni a ridosso del poligono di tiro sperimentale a Perdasdefogu, cittadina sarda sviluppata intorno alla base Nato. In questa zona d’Italia da tempo i sanitari riscontrano incidenze statistiche anomale dei casi di linfomi e tumori sulla popolazione. Alla fine del 2005 la regione Sardegna ha commissionato uno studio epidemiologico mettendo a confronto il tasso di mortalità interno. Dividendo il territorio in zone ex minerarie, industriali e militari, si è scoperto che l’incidenza di tumori linfatici tra i cittadini che vivono intorno alle basi Nato è decisamente superiore a quello delle altre zone della regione.
Nonostante tutti i passi della scienza, la politica continua a dare risposte contraddittorie.
Ci sono voluti cinque anni prima che un ramo del Parlamento votasse la Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito.
Costituita al Senato nel novembre 2004, ha iniziato i lavori solo ad aprile del 2006, avendo a disposizione poco più di sei mesi per rispondere a due quesiti: cosa fa ammalare i soldati? Cosa sta accadendo in Sardegna?
Il 28 febbraio 2006 la relazione finale è stata accolta dai giornali con un’indifferenza quasi totale. Eppure si trattava di un documento importante. In esso si dice che l’uranio impoverito, se non è il killer diretto dei soldati, è il mandante. Perché esplode creando aerosol tossici che si inseriscono in un contesto di un elevato inquinamento ambientale causato proprio dalla guerra. Si definisce cioè, anche se tra mille distinguo, un concetto nuovo, quello di contaminazione bellica. Ma per comprenderne l’importanza di questo documento, frutto del lavoro di venti senatori e altrettanti consulenti esterni (tra i quali il maresciallo Leggiero e la dottoressa Gatti) occorre fare un salto all’indietro, di cinque anni. Al gennaio 2001, per la precisione.
Dall’aeroporto di Ciampino partì un aereo militare, destinazione Sarajevo. A bordo c’erano giornalisti di molte testate nazionali e l’allora ministro della Difesa Sergio Mattarella.
Arrivati nella capitale bosniaca, tutto il gruppo fu trasferito, a bordo di pullman, alla caserma Tito Barracks del quartiere di Grbavica, oggi famoso grazie a un film di una giovane regista che ha vinto l’Orso d’oro all’ultimo festival del cinema di Berlino.
Una volta in caserma, fu raccontata la verità di Stato: “Non bisogna generare allarmismi – disse il ministro –, questi ragazzi sono al sicuro e dobbiamo fare in modo che le loro famiglie non siano preoccupate”. Infatti in quel periodo l’attenzione generale, in Italia, era focalizzata sull’uranio impoverito. C’era chi parlava di seconda Ustica, di muro di gomma. I titoli dei giornali erano pieni di testimonianze, esperti, resoconti dal fronte. Si scoprì in quei giorni che i nostri giovani soldati, partiti per le missioni di pace internazionali in Bosnia e nel Kosovo, potevano ammalarsi e morire per qualche cosa di misterioso che avveniva una manciata di chilometri da casa.
Il governo allora costituì una commissione medico scientifica, guidata dal professor Franco Mandelli, noto ematologo, presidente dell’Associazione italiana leucemie, e formata da fisici, esperti di nucleare, chimici e dal direttore della sanità militare, generale Antonio Tricarico, che aveva il compito di fornire dati e numeri della vicenda. A marzo di quello stesso anno, proprio quando Corrado Di Giacobbe dovette arrendersi alla malattia, la commissione convocò una conferenza stampa per esporre i primi risultati del lavoro: sostenne che il numero di soldati ammalati o deceduti era inferiore ai casi attesi. Insomma, la sindrome dei Balcani non esisteva.
Successivamente però un professore di Statistica dell’università di Torino fece notare che era stato applicato un modello matematico sbagliato, e la Commissione, riconoscendo l’errore, tornò a riunirsi. Stavolta trascorse più di un anno. Nel giugno 2002 il professor Mandelli annunciò le conclusioni del loro lavoro. Fu rilevato un eccesso statisticamente rilevante dei linfomi di Hodgkin rispetto ai casi attesi ma, si disse, non era possibile riscontrare un nesso causa effetto tra le malattie e l’utilizzo di uranio impoverito.
In realtà, al di là di quanto annunciato in conferenza stampa, leggendo tutta la terza e conclusiva relazione Mandelli si apprende tutt’altro. Gli scienziati hanno studiato il caso avendo come letteratura di riferimento quella risalente a Hiroshima e Nagasaki, dove, cioè, la contaminazione da materiale radioattivo e chimicamente tossivo avviene per irraggiamento esterno. Nel caso della sindrome dei Balcani, invece, c’è inalazione di particelle radioattive e tossiche. Quindi la contaminazione dell’organismo avviene dall’interno. “Non avevamo gli strumenti per trovare il nesso causa effetto”, spiegò più tardi in un’intervista rilasciata al quotidiano “Metro” nel 2004 Martino Grandolfo, fisico dell’Istituto superiore di sanità e braccio destro di Mandelli durante i lavori della commissione. Oggi non parla volentieri di quel periodo e in genere di tutta la vicenda. Però è lui a mostrare l’altra faccia della verità. “Noi non scagionammo l’uranio – precisa – ma dicemmo una cosa ben diversa. In quel periodo studiammo gli effetti dell’uso dell’uranio con strumenti scientifici che risalivano ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, quindi i nostri strumenti analitici erano inadatti. Per questo non è stato possibile trovare il nesso”.
Ma, nonostante la precisazione, che sui media ha trovato un’eco irrisoria, l’assoluzione dell’uranio impoverito, decretata da una frettolosa conferenza stampa, è stata utilizzata in tutti questi anni per neutralizzare qualsiasi dibattito, non concedere le cause di servizio ai soldati, non dare seguito alle denunce delle associazioni. Ad esempio, quando sul finire del 2004 il ministro per i Rapporti con il parlamento Carlo Giovanardi andò a riferire alla Camera sulla vicenda, poté affermare che “l’uranio impoverito è innocuo. Non fa male, come ha sostenuto il professor Mandelli”.
E quando l’ex ministro della Difesa Antonio Martino fu audito in Commissione d’inchiesta, l’11 maggio 2005, poté sostenere che “l’uranio è un falso problema, una bufala giornalistica. Esistono decine di studi nel mondo che lo testimoniano e che confermano quanto sostenuto in Italia dalla commissione Mandelli”. Senza peraltro fornire mai indicazioni precise su questi studi.
Eppure proprio documenti provenienti dagli Stati Uniti, fino a pochi anni fa riservati e oggi reperibili anche su internet, sostengono il contrario. In un memorandum dei laboratori militari di Los Alamos, nel New Mexico, datato 1 marzo 1991 e redatto per conto del governo degli Stati Uniti si legge che “l’impatto ambientale è talmente elevato che se ne rende politicamente inaccettabile l’uso”. E nell’aprile del 2000 la nostra scuola interforze per la difesa nucleare biologica e chimica con sede a Rieti aveva diffuso un documento sui rischi conseguenti all’impiego dell’uranio impoverito. I composti dell’uranio “qualora venissero inalati – si legge – potrebbero rimanere negli alveoli per lunghi periodi di tempo (mesi o addirittura anni) e ci sarebbero effetti nocivi (…). L’esposizione interna è conseguente alla contaminazione interna da Du (Depleted uranium, uranio impoverito, n.d.r.) che si ha quando esso viene incorporato a seguito di ingestione, inalazione o ferite aperte”. E si elencano poi le precauzioni da adottare in caso di missione in luoghi che sono stati bombardati con tali tipi di proiettile. Tutto ciò proprio mentre i politici si affannavano a spiegare che per i militari non c’era alcun rischio, che le missioni internazionali sono sicure.
Comunque, uno degli argomenti a sostegno della tesi dell’innocuità di tale materiale è che l’aerosol sprigionato dall’impatto cessa di essere letale già dopo qualche ora, perché le polveri si sospendono. Una tesi, questa, facilmente ribattuta dagli studi della dottoressa Gatti, le cui prime formalizzazioni risalgono al 2003: le polveri generate dall’esplosione di uranio impoverito sono talmente sottili e fini (ben più delle Pm10 che tanto “terrorizzano” i nostri centri urbani) che facilmente vengono risospese e trasportate dal vento per chilometri. Ecco che, quindi, anche i nostri soldati, arrivati in Bosnia e in Kosovo dopo i bombardamenti, sono esposti ai metalli killer. E il discorso è purtroppo attuale dato che l’uranio è stato utilizzato massicciamente anche in Afghanistan e in Iraq. “Lì – spiega la Gatti – il pericolo è maggiore a causa dei terreni secchi e dei venti che trasportano polvere dal deserto per chilometri”. Tanto è vero che recentemente si sta diffondendo un appello tra gli intellettuali indiani per fare chiarezza su una serie di malattie sorte al confine dove, secondo gli studi di un pool di medici, sarebbe stato trovato uranio impoverito spinto fin lì dal vento proveniente dall’Afghanistan.
Anche la Commissione del Senato ha scritto, nella relazione finale, che è necessario continuare gli studi e le ricerche anche – forse soprattutto – per rendersi conto del grado di contaminazione ambientale avvenuto in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Iraq. Perché oramai è univocamente chiaro che l’inquinamento provocato dallo scoppio delle bombe intelligenti targate Nato è totale. Si tratta, poi, di materiale radioattivo che ha tempi di decadimento lunghissimi, quasi biblici. Per cui una vota contaminato, l’ambiente può essere considerato definitivamente compromesso.
A differenza di quanto sostenuto dall’ex ministro Martino, in molti Paesi gli scienziati stanno volgendo la loro attenzione proprio al degrado ecologico causato dai bombardamenti.
Il Parlamento bosniaco, ad esempio, ha dato incarico a un gruppo di giovani studiosi di esaminare approfonditamente la situazione. Già ad agosto del 2005 i risultati non davano luogo ad equivoci. In uno dei tanti caffè di Sarajevo, in un pomeriggio dal cielo terso e dalle temperature afose, due giovani scienziati, coppia nella vita e negli studi, hanno anticipato i risultati dello studio che è stato poi fatto proprio dal governo per testimoniare, in sede di Tribunale contro i crimini di guerra dell’ex Jugoslavia, che oltre al genocidio di Srebrenica (dove l’11 luglio 1995 furono trucidati più di ottomila cittadini bosniaci musulmani da parte delle truppe serbe guidate da Mladic e Karadgic), bisognerà considerare il genocidio causato dai bombardamenti della Nato. L’unica differenza è che le vittime di Srebrenica hanno un’unica data di morte, mentre le nanoparticelle ammazzano lentamente.
Comunque i biologi bosniaci hanno studiato la mappa cromosomica dei cittadini di Hadgici, una piccola città situata a pochi chilometri da Sarajevo che è stata massicciamente bombardata per colpire le sue fabbriche metalmeccaniche dove i serbi riparavano armi e carri armati. Sono stati messi confronto due campioni: i cittadini rimasti in città durante i bombardamenti e quelli che erano scappati via. Ebbene, la mappa cromosomica dei bosniaci vissuti sempre ad Hadgici è interrotta, segnale, questo, che esiste un danno genetico che potrà essere tramandato anche alle future generazioni.
Studi simili sono stati affrontati da medici iracheni: i risultati sono stati presentati ad Amman, in Giordania, nel corso di un seminario di aggiornamento organizzato nella primavera del 2004 da alcune università tedesche. Gli oncologi di Bassora e di Baghdad hanno sostenuto che il livello di decessi per forme tumorali si è decuplicato negli ultimi cinque anni nei loro governatorati e che le polveri tossiche portate dal vento del deserto iracheno hanno reso l’intero paese pericoloso.
Come spesso in questi casi accade, è internet il luogo virtuale dove tutti questi dati vengono scambiati, aggiornati, confermati o mistificati. Da qui è partito il tam tam mondiale che si è tradotto in convegni, seminari di aggiornamento e di studi. Un dibattito ovunque molto acceso, tranne che in Italia, dove sembra che di questo argomento nessuno voglia più sentir parlare.
Gli unici sono i genitori dei ragazzi, le mogli, i fratelli, le fidanzate. Gli amici, come nel caso di Valery Melis, giovane soldato sardo morto nel febbraio del 2004. Era un acceso tifoso del Cagliari, Valery, e i suoi amici ogni anno espongono allo stadio uno striscione per ricordarlo. Affinché la memoria sia sempre viva.
L’ultimo capitolo della vicenda si svolgerà comunque nelle aule dei tribunali. Sul tavolo scuro dello studio dell’avvocato Angelo Fiore Tartaglia la vicenda uranio è divisa in fascicoli. Tante cartellette verdi quante sono le giovani vittime. Il legale - esperto in ordinamento militare tanto da essere diventato un punto di riferimento per soldati semplici e graduati di ogni Corpo - sta patrocinando gratuitamente le cause. Fino ad oggi sono state depositate circa quaranta denunce, sia in sede civile che legale. L’ipotesi è lineare: “Lo Stato – sostiene Tartaglia – deve essere considerato come il datore di lavoro di questi soldati. Sostengo che esista una responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Così come il titolare di una ditta edile viene incolpato nel caso in cui un suo operaio cada da un’impalcatura in assenza di protezioni e muoia, lo Stato è responsabile della morte o della malattia del soldato inviato in missione senza essere informato adeguatamente dei rischi e senza le misure protettive. Guanti, tute, mascherine, avrebbero potuto salvare questi ragazzi? Non ne siamo certi, ma in questo caso vige il concetto di diligenza del buon padre di famiglia. E i generali, i Capi di Stato Maggiore di Difesa, esercito, aeronautica, non sono stati certo diligenti. Addirittura alcuni di loro ancora oggi sostengono che non esiste un problema uranio impoverito. Noi sosterremo nelle aule di tribunale che, anche a causa della loro superficialità, i nostri soldati si sono ammalati e in molti casi sono morti. Risalire la catena di comando per capire chi in particolare dovrà essere accusato di omicidio colposo e strage sarà più semplice di quanto si possa immaginare”.

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