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Guerra e informazione

Dialogo con Toni Fontana

Dopo la guerra del Vietnam – persa dagli Usa anche per “colpa” dei media – gli spazi per una informazione libera in guerra si sono progressivamente ridotti e la censura si è fatta più pressante: ai giornalisti – più o meno dalla prima guerra del Golfo in poi – viene fornita “una notizia al giorno” già confezionata, spesso dagli stessi comandi militari; molti giornalisti sono diventati embedded, e quelli not embedded rischiano di diventare un bersaglio sia da parte di chi la guerra la fa, sia da parte di chi la guerra la subisce, come nel caso del bombardamento Usa alla tv di Belgrado il 23 aprile del 1999, dell’attacco all’Hotel Palestine a Baghdad, dei sequestri di questi ultimi mesi. Come è cambiato il modo e la possibilità di fare informazione in questi 15 anni? E soprattutto, è ancora possibile oggi raccontare la guerra?
Negli ultimi decenni gli strumenti di controllo, di censura e di selezione delle notizie si sono raffinati, sono diventati più sofisticati. Nella prima guerra del Golfo, le cose funzionavano più o meno così: la stampa veniva confinata a Daharan (in Arabia Saudita), a circa 250 chilometri dal fronte del Kuwait occupato, dove c’era il comando americano. Gli americani selezionarono alcuni giornalisti, tutti americani e inglesi, che venivano portati al fronte dove potevano vedere i soldati in attesa del combattimento. Le loro corrispondenze venivano censurate dagli ufficiali americani , che erano vestiti da impiegati e usavano il pennarello per depurare i pezzi. Questi ultimi ci spiegavano che il loro obiettivo era quello di rimuovere nell’opinione pubblica l’idea che la guerra del Golfo fosse simile a quella del Vietnam; doveva insomma trasparire un’immagine diversa, positiva e vincente. C’era un casellario, simile a quello dei grandi condomini, nel quale venivano depositati questi report che venivano venduti a 200 dollari la settimana, con tanto di ricevuta. Quando iniziò l’attacco di terra si creò un grande caos e noi giornalisti italiani riuscimmo a superare le linee irachene e ad arrivare a Kuwait city con gli americani. La censura dunque riesce a controllare l’informazione fino ad un certo punto. Se i reporter affrontano le situazioni, senza andare allo sbaraglio, ma cercando di documentare i fatti, ben difficilmente sono controllabili.
Dodici anni dopo, nel 2003, nel corso della seconda guerra del Golfo, ho potuto constatare che la censura aveva perfezionato i propri strumenti ed era diventata scientifica. A Kuwait city, quando andavamo al comando Usa, ci veniva chiesto di metterci in posa con un muro alle spalle, si veniva fotografati, e ci venivano consegnate le ground rules, le ‘regole di ingaggio’ dei giornalisti. Si trattava di 50 disposizioni, un vero e proprio contratto, nel quale il giornalista che firmava si impegnava, nella sostanza, a non dire quanti soldati, quanti morti, quanti feriti, quanti carri armati, quanti aerei, quante navi vedeva, a non descrivere i luoghi dei combattimenti, chi vince, chi sopravvive, chi soccombe, quanti prigionieri, chi sono i prigionieri, a non divulgare notizie che possono anticipare operazioni militari, ecc. Era un vero e proprio manuale dell’ auto-censura preventiva.

Riguardava solo i giornalisti embedded?
Assolutamente sì. Era scritto che chi contravveniva a quelle regole veniva allontanato dai reparti militari nei quali era stato inserito.

E gli altri?
I giornalisti erano divisi in due categorie: embedded e unilateral. Gli embedded venivano prelevati dai soldati americani e portati nelle basi; alcuni di loro hanno indossato la divisa militare, gli anfibi e l’elmetto; i grandi network americani hanno comprato anche mezzi simili a quelli dei militari, colorati come quelli dell’esercito. Quando, a Baghdad, sono arrivati i giornalisti embedded, mi sono trovato in fila al self-service dell’Hotel Palestine, insieme ai soldati, e mi sono accorto che alcuni giornalisti erano vestiti come i militari Usa ma, ovviamente, non erano armati. Solo grazie a questo particolare ho capito che erano giornalisti e non soldati. Del resto per i grandi media americani essere presenti dentro le unità combattenti era una necessità.
Tutti dovevano comunque firmare questo “contratto” ed anche io l’ho fatto per avere un altro documento, quello unilateral, cioè un pass che sostanzialmente recitava: tu non sei dei nostri, te ne stai per conto tuo, però hai un accredito che ti permette di uscire da Kuwait city. Senza quel documento sarei rimasto confinato a Kuwait City, con quel documento invece sono arrivato fino al fronte. Si trattava però di due categorie nettamente distinte.

Per voi quindi era un modo per poter ottenere il lasciapassare?
Esattamente. Noi eravamo totalmente fuori da questo meccanismo. Vorrei fare un esempio: insieme ad altri colleghi siamo arrivati dentro la guerra nel sud dell’Iraq; abbiamo raggiunto un accampamento inglese. Attorno a noi sparavano, siamo andati degli inglesi per chiedere di poter dormire nell’accampamento, ma l’ufficiale ci ha allontanato perché non eravamo embedded, e così abbiamo dormito fuori, ad un centinaio di metri, mentre i nostri colleghi embedded stavano dentro. Quella notte mi svegliai e mi trovai davanti ad un paracadutista britannico che, con altri, andava “a caccia” di iracheni. Si trattava dunque di due “inquadramenti” totalmente e radicalmente diversi.
È tuttavia necessario fare qualche precisazione. Non intendo dividere i giornalisti in buoni e cattivi: né tutti gli embedded erano ideologicamente favorevoli alla guerra di Bush, né tutti gli unilateral erano dei giornalisti indipendenti. Fra gli embedded c’erano dei giornalisti che ritenevano che essere nella prima linea con le forze combattenti fosse professionalmente importante; e ce ne erano altri (ho conosciuto alcuni colleghi americani) che dicevano di essere dei patrioti e di partecipare alla guerra con spirito patriottico.
Del resto, come ho già detto, i grandi network, le grandi testate avevano bisogno di essere lì, questo è anche in parte comprensibile perché se muoiono 10 soldati americani e non c’è la Cnn lo racconta la Nbc, se non c’è il “New York Times” lo racconta il “Washington Post” e così via. La concorrenza fra i media americani è forte e violenta. Non sono tra coloro che danno giudizi morali, non penso che tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra. Ritengo tuttavia sbagliato che i giornalisti vadano in guerra scegliendo preventivamente di non raccontare nulla: ho visto e letto corrispondenze di reporter che stavano al fronte che dicevano sono qua, non posso dire dove, non posso dire con chi; si vedevano solo alcuni soldati che camminavano.

In Iraq hai vissuto sia l’esperienza della cattura da parte delle milizie irachene a Bassora, sia le cannonate da parte delle Forze armate americane venute a “liberarvi” mentre eravate prigionieri all’Hotel Palestine di Baghdad...
Il momento più difficile è stato per noi quando gli americani ci hanno sparato una cannonata e ho visto morire due colleghi, Josè Couso di Telecinco e Taras Trotsyuk della Reuters. Successivamente i comandi militari americani hanno commentato: vi avevamo avvisato di non venire a Baghdad, siete venuti comunque e dunque sono affari vostri. Un’arroganza inaudita, non è stata data nessuna spiegazione sulla morte di questi due colleghi, ma di fatto si è imputato ai giornalisti la responsabilità.
Su questa tragica vicenda sono state fatte analisi ed inchieste indipendenti e da quanto si è capito pare che i carristi che hanno sparato la cannonata contro l’Hotel Palestine non fossero a conoscenza del fatto che quello era l’albergo della stampa internazionale, ma, al tempo stesso, è dimostrato che i comandi erano perfettamente consapevoli di ciò, tanto che, tramite un giornalista embedded che era con loro, arrivò all’Hotel il consiglio di esporre un lenzuolo bianco alla finestra. I rischi più grandi li ho vissuti in quel giorno mentre nel periodo trascorso all’ Hotel Palestine nelle mani degli iracheni non ho subito alcun tipo di violenza. Ciò non modifica il mio giudizio assolutamente negativo sul regime di Saddam, ma ritengo opportuno dire come sono andate veramente le cose.

Hai seguito anche alcuni conflitti africani. In quel contesto cambia il modo di fare informazione?
Il problema principale, se ci riferiamo alle guerra africane, è spesso la scarsità di fonti. Pochissime tra le agenzie internazionali, ritengono strategica la loro presenza in Africa, e quindi spesso è difficile raccontare ciò che succede, soprattutto se non si ha la possibilità di essere in loco.
In Italia si parla poco di Africa, l’interesse dei media è limitato, se si escludono i giornali che fanno riferimento alla Chiesa cattolica. Altri Paesi hanno atteggiamenti diversi. La stampa spagnola, per esempio, che è molto attenta all’America Latina, dedica anche molto spazio all’Africa; e così pure la stampa americana, anche perché gli Usa hanno notevoli interessi in quel continente.

I conflitti “minori”, soprattutto quelli in Africa, fanno fatica a trovare spazio nell’informazione: è come se il sistema dei media decidesse qual è il conflitto e oscurasse deliberatamente tutti gli altri. Perché succede questo?
Il mercato segue alcune regole. Molti direttori di giornali e telegiornali ritengono, a mio avviso sbagliando, che l’Africa “non faccia vendere” o non “faccia audience”. Inoltre l’Africa evoca tragedie, dolore e sofferenze, e quindi raccontare tutto ciò è difficile, viene da molti ritenuto poco “produttivo”, non in linea con i valori dominati. Viviamo in una società che ha fatto della bellezza, della perfezione e dei consumi i valori centrali. L’Africa tuttavia non e non è affatto solo tragedie, aids e carestie, ma anche risorse e gioia di vivere.

Il generale Carlo Jean, in una relazione tenuta al Centro alti studi difesa di Roma nel 1999 – in piena guerra dei Balcani – diceva che “ormai ci si deve orientare a combattere due guerre parallele: una sul campo di battaglia, l’altra sui media”. E in effetti, in questi anni, i media sono stati usati come un’ “arma”, soprattutto nella preparazione della guerra, contribuendo alla costruzione dell’immagine di un nemico “cattivo” da togliere di mezzo – che si chiamava Milosevic, Bin Laden, Saddam... – , avvalorando la “giusta causa” della guerra – profughi da salvare, donne da liberare dall’integralismo islamico, armi di distruzione di massa da eliminare... – , non lasciando altra possibilità che la soluzione bellica. Ti sembra che i media abbiano delle responsabilità in questo senso o che siano stati solo sapientemente usati dal potere politico e militare?
Il generale Jean, a modo suo, dice la verità, è convinto che bisogna trasformare i media in strumenti di battaglia...

Ma allora, per fare l’esempio di una delle trasmissioni televisive più seguite dal pubblico italiano, Bruno Vespa che durante “Porta a Porta” simulava le battaglie con tanto di soldatini e carri armati giocattolo era solo strumento del potere o era convinto che quello fosse il modo migliore per fare informazione?
Il giornalista deve essere per il più possibile onesto. Non credo tuttavia che possa esistere una stampa assolutamente libera. La stampa è schierata, ci sono proprietà, redazioni e, che lo si voglia o no, ci sono collocazioni; vedi anche la questione di questi mesi in cui c’è il coinvolgimento dei servizi segreti nell’orientare certa stampa in una direzione piuttosto che in un’altra, anche per portare acqua al mulino della guerra preventiva.
Vorrei rievocare un episodio. A Baghdad ho visto abbattere la statua di Saddam e mi sono accorto che l’orario, erano le 18.30 del 9 aprile 2003, coincideva con l’apertura dei telegiornali americani. I giornalisti embedded erano arrivati alcune ore prima ed erano tutti “sintonizzati” su quell’avvenimento. Ho visto arrivare i primi due carri armati americani e poi un carro-gru. Mi è parso strano che gli americani arrivassero con due carri armati e un carro-gru al seguito proprio nel luogo dove si erano ammassati tutti i giornalisti del mondo e dove c’era la più importante statua di Saddam in tutta Baghdad. Credo di aver assistito ad un avvenimento curato sapientemente e scientificamente da una regia televisiva, che aveva addirittura scelto l’orario, in modo da far vedere al mondo, e prevalentemente agli americani che si svegliavano, la statua di Saddam che cadeva rovinosamente a terra.
Per quanto riguarda “Porta a Porta”, i carri armati di plastica, i generale in pensione, gli ospiti, se ben assortiti, finiscono per rappresentare, un po’ come in una partita di Risiko, un avvenimento che perde ogni drammaticità e diventa uno spettacolo. Viene in sostanza rappresentata una guerra asettica, senza morti e feriti, una guerra sostanzialmente bella, televisivamente bella.
Il primo maggio 2003 Bush andò su una nave per annunciare che la “missione in Iraq è compiuta”. Fino ad allora erano caduti 150 soldati americani. Nel periodo successivo e fino ad oggi sono morti in Iraq 2.600 soldati; la guerra vera per gli americani è cominciata dopo l’incauto annuncio di Bush. E in Italia hanno “abboccato” molti commentatori che, per mesi, hanno sostenuto che il terrorismo era stato sconfitto, la guerra era stata vinta, l’Iraq era stato liberato e si avviava ad un radioso futuro. Anche nel corso della guerra nei Balcani sono state compiute operazioni analoghe. Milosevic unico responsabile di tutte le tragedie avvenute è una di queste. Al tempo stesso vorrei dire, con franchezza, che sono stato due mesi in Macedonia e le migliaia di profughi che arrivavano dal Kosovo c’erano davvero, le violenze sono state commesse e poi l’assedio di Sarajevo non è certamente un’invenzione, e noi, noi europei intendo dire, abbiamo colpevolmente subìto il fatto che migliaia di persone per quattro anni sono rimaste sotto il tiro dei cecchini. Ci sono insomma notizie false e notizie vere, false rappresentazioni di situazioni reali, e situazioni reali che non vengono adeguatamente rappresentate.

Per quale motivo quando viene bombardato per errore un mercato o un ospedale provocando numerose vittime civili si descrive l’episodio classificandolo come “effetto collaterale”? Perché le torture vengono chiamate più asetticamente “abusi”? Qual è il senso di questa “rivoluzione lessicale” che sembra fatta apposta per edulcorare la realtà della guerra?
C’è e c’è un progressivo tentativo di trasformare la guerra in un avvenimento puramente tecnico e dunque “tecnicamente” interpretabile. Le cosiddette bombe intelligenti non sono state realizzate per ragioni umanitarie, per ridurre le perdite civili, ma semplicemente perché sono più efficaci e permettono di colpire in modo mirato degli obiettivi. L’obiettivo degli scienziati che hanno inventato questo tipo di armamenti non è di rendere più umana la guerra, ma di rendere più efficace l’attacco. Un’altra espressione assolutamente inaccettabile è quella di effetto collaterale: è un’espressione ipocrita, falsa e inaccettabile, nel senso che effetto collaterale, tradotto, significa i civili che muoiono, e nelle guerre moderne questo accade sempre più spesso. In Afghanistan, sulla base di un’informazione sbagliata, gli americani hanno bombardato una festa nuziale uccidendo decine di persone e questi sarebbero i “danni collaterali”.
“Danni collaterali” sarebbero anche la strage di Haditha i morti bruciati dalle bombe al fosforo, le torture che, solitamente, vengono chiamate “abusi”. Noi giornalisti dovremmo bandire questa espressione ipocrita e raccontare invece l’orrore della guerra. Sicuramente c’è una progressione, la formazione di un nuovo linguaggio e su questo punto è aperto un conflitto: ci sono giornalisti che lo usano e ci sono giornalisti che si battono contro. Noi all’ “Unità” non abbiamo mai usato queste espressioni.

Una critica frequente all’informazione sulla guerra data dai grandi network, soprattutto televisivi, è quella di raccontare quello che succede dalle terrazze degli alberghi, con una distanza dai fatti e dalle persone che non permette di andare a fondo negli avvenimenti. Ritieni che queste critiche abbiano qualche fondamento? Se sì, quali possono essere le possibili soluzioni per unire le esigenze di sicurezza dei giornalisti alle esigenze di testimonianza diretta del racconto giornalistico?
Innanzitutto voglio dire che la storia dei giornalisti che stanno negli alberghi non è del tutto vera. Ci sono giornalisti che stanno prevalentemente negli alberghi, ma ce ne sono tanti che sono andati sul campo, come Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, e per questo hanno perso le loro vite. Il problema vero è che oggi in Iraq i giornalisti si trovano stretti fra la morsa del terrorismo e il giornalismo embedded. Ci sono dei giornalisti americani che tuttora vanno a Baghdad, ma stanno nella green zone (nella zona di sicurezza) pattugliata dai marines, oppure si muovono dentro i mezzi militari blindati e corazzati. La guerra prosegue senza che nessuno la documenti, siamo stretti in questa drammatica morsa, e quindi in questo momento è difficile raccontare quanto accade, bisogna ricorrere a fonti alternative, ai contatti telefonici. Anche molti interpreti sono stati uccisi. La situazione per quanto riguarda la copertura degli avvenimenti iracheni, è davvero disperata e credo che lo sarà ancora per tanto tempo.

Hai lavorato a stretto contatto con gli inviati di molta stampa estera. Hai avuto l’impressione che loro godessero di maggiori spazi di libertà e di autonomia rispetto all’Italia dove, al di là delle opinioni politiche, c’è oggettivamente una anomala concentrazione dei mezzi di comunicazione, soprattutto quelli televisivi?
È difficile da dire. Il dato certo è che i grandi media americani si danno veramente battaglia per avere le notizie. Se si analizzano i comportamenti concreti, sul campo non credo che vi siano grandi differenze. In Italia le notizie sul mondo vengono spesso filtrate attraverso le lenti della politica; spesso si parla di una cosa se in Italia si è aperta una polemica fra i partiti, oppure non se parla affatto. Sulla guerra Etiopia-Eritrea, che ha causato 100mila morti, sui quotidiani italiani sono apparsi, si e no, 10 articoli; molti giornali non hanno scritto una riga su una guerra fra due ex-colonie italiane, nei quali risiede una grande comunità italiana, nei quali vi sono università italiane e moltissime persone che parlano la nostra lingua e soprattutto dove i fascisti hanno commesso terribili violenze. Di Iraq e Afghanistan si parla di solito solo per vedere se il centrosinistra si divide o non si divide, e solo pochi ci spiegano cosa succede realmente in quei paesi.

Tranne ricordarsene quando c’è l’attentato che coinvolge i militari italiani...
Sì, se ne parla due giorni e poi finisce lì.

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