La nuova strategia di Bush: la colpa ora è degli iracheni
L'amministrazione Bush sta disperatamente cercando una nuova strategia che le valga una cosa che si possa chiamare «vittoria», o che le consenta almeno di prendere tempo a sufficienza affinché la colpa del fallimento ricada sul successore di Bush. L'attuale strategia d'occupazione militare e di appoggio politico a un governo artificiale e impotente è fallita così clamorosamente, che persino alcuni alti generali si sono rifiutati di appoggiare l'ultimo invito di Bush all'escalation. Il dibattito sulla «nuova direzione» arriva proprio mentre il parlamento iracheno sta preparando una legge che consentirebbe alle compagnie petrolifere straniere (e specialmente americane) di controllare circa il 70% del profitto nelle future esplorazioni di greggio.
I Democratici hanno vinto le elezioni di novembre con un mandato per cercare una nuova via d'uscita dall'Iraq, non per mandare più truppe in Iraq; ma resta incerto se loro useranno l'unico potere effettivo che hanno - quello sui cordoni della borsa - per fermare effettivamente la guerra. Vi sono dei segnali di speranza tra cui la lettera di Pelosi e Reid in cui si chiede di iniziare il ritiro delle truppe, e l'attribuzione alle audizioni sull'Iraq di una priorità e di una visibilità molto più alte; ma vi sono anche motivi di pessimismo, tra cui la mancanza di un minimo di incisività nella lettera di Pelosi e Reid, e il successivo impegno di Pelosi a non tagliare i fondi.
C'è urgente bisogno di aumentare la pressione sul Congresso, particolarmente per richiamare i Democratici alla forte contrarietà alla guerra che lo scorso novembre li ha portati alla vittoria; le mobilitazioni del 27-29 gennaio a Washington rappresenteranno un elemento molto importante di questa pressione. Anche se si cercherà si sostenere che i nuovi invii di truppe sono legati direttamente a una specifica «nuova strategia per la vittoria», la realtà è che esse saranno inviate per «stabilizzare» Baghdad, un compito che si è già dimostrato impossibile finché l'occupazione Usa continua. L'aumento di truppe dell'estate 2006, con cui sono stati trasferiti a Baghdad circa 15.000 soldati, spesso provenienti da altre postazioni in Iraq, ha prodotto un'immediata escalation della violenza in città.
Per quanto riguarda i nuovi finanziamenti Usa all'Iraq, è improbabile che saranno legati a un qualunque cambiamento dell'attuale sistema affaristico degli appalti, grazie al quale la stragrande maggioranza dei miliardi stanziati per la «ricostruzione» in Iraq è andata ad appaltatori americani. Bisogna riconoscere che gli Usa hanno un enorme debito finanziario nei confronti dell'Iraq - i risarcimenti per dodici anni di sanzioni soffocanti, una vera ricostruzione delle infrastrutture distrutte dall'invasione, un indennizzo per aver fatto a pezzi il tessuto sociale e la vita nazionale dell'Iraq - ma non possono cominciare a fare fronte a questi obblighi finché è in corso l'occupazione militare.
Il discorso di Bush propone una questione che è diventata un luogo comune in tutto il fronte politico «mainstream» di Washington da parecchi mesi a questa parte: gli iracheni sono i responsabili della loro crisi, e il governo iracheno farebbe bene a «smettere di fare affidamento» sulle forze Usa per avere assistenza. La realtà, naturalmente, è che il parlamento, che si trova nella Zona verde, è di fatto dipendente dalle forze di occupazione Usa per ricevere protezione e per il poco potere che ha: molti parlamentari eletti con una forte piattaforma anti-occupazione hanno fatto marcia indietro quando si sono resi conto che la loro posizione dipendeva dagli americani.
È intollerabile che Bush ed altri rappresentanti del governo americano continuino ad asserire che, nonostante l'invasione e l'occupazione, la decisione di distruggere l'esercito iracheno e licenziare l'intero apparato statale, il crollo dell'economia irachena, e la stessa guerra causata dall'occupazione, è solo la mancanza di volontà da parte degli iracheni ad essere responsabile per la difficile situazione in cui si trovano. La nuova strategia di Bush, «resisti ma aggiungi un po' più di soldati per farla sembrare meglio», sta già fallendo. È in questo contesto che devono essere viste le dimissioni dei generali Casey e Abizaid. Entrambi si sono opposti energicamente e pubblicamente alle proposte di escalation di Bush.
L'attenzione ora dedicata alla contro-insurrezione potrebbe rivelarsi collegata a un altro recente cambiamento, quello del direttore della intelligence nazionale John Negroponte, diventato il vice di Condoleezza Rice al Dipartimento di Stato. Come ambasciatore nell'Iraq occupato, Negroponte ha auspicato il ricorso alla «Opzione Salvador» in Iraq, un riferimento agli squadroni della morte appoggiati dagli Usa che caratterizzarono il suo mandato come ambasciatore americano in Honduras durante gli anni delle guerre dei Contras in America centrale. Il cambiamento collegato è quello dell'attuale ambasciatore in Iraq, Zalmay Khalilzad, il quale prende il posto di John Bolton come ambasciatore all'Onu. Khalilzad, un protégé di Cheney, è un noto neo-con fortemente legato alle amministrazioni Reagan e Bush senior, nonché all'industria petrolifera Usa.
L'allontanamento da Baghdad di Khalilzad, un afghano sunnita, potrebbe rappresentare un'ammissione implicita che la strategia da lui caldeggiata di coinvolgimento della comunità sunnita non stava funzionando.
Mantenere il controllo del petrolio resta in cima all'agenda Usa in Iraq. Nonostante l'escalation bellica, e nonostante i problemi che il parlamento iracheno si trova a dover affrontare - tra cui il boicottaggio, durato settimane, dei trenta legislatori leali a Muqtada al-Sadr - il 7 gennaio il giornale britannico Independent on Sunday ha riferito che l'Iraq sta per approvare una legge che «concederebbe alle compagnie petrolifere occidentali una grossa fetta delle terze maggiori riserve al mondo. Ai vincitori, il petrolio? È così che alcuni esperti vedono questo accordo senza precedenti con un importante produttore petrolifero del Medio Oriente che garantisce agli investitori enormi profitti per i prossimi trent'anni».
Qui negli Usa, non è chiaro se i Democratici che hanno vinto le elezioni prenderanno sul serio il mandato di novembre del popolo americano: fermate la guerra. Il Congresso ha solo un mezzo per impedire una guerra illegale: smettere di finanziarla. Finora solo pochi Democratici si sono mostrati intenzionati a compiere questo passo. Dopo la lettera di Pelosi e Reid a Bush, in cui si chiede un diverso spiegamento delle truppe invece che una escalation, Pelosi ha pensato bene di ripetere che non sosterrà il taglio dei fondi «alle truppe».
Finora nessuno al Congresso ha menzionato il fatto che, secondo il nuovo disegno di legge per lo stanziamento supplementare di 100 miliardi di dollari per finanziare la guerra in Iraq e Afghanistan, solo un decimo del denaro è destinato a giubbotti antiproiettile ed altri mezzi utili a proteggere i soldati. Chi al Congresso non ha il coraggio di votare contro tutti gli stanziamenti per la guerra potrebbe almeno chiedere che si voti in sezioni separate, in modo da poter votare a favore del denaro destinato ai giubbotti antiproiettile, e votare contro tutto il resto.
La mobilitazione del 27 gennaio porterà decine di migliaia di persone a Washington per chiedere che il Congresso rispetti il mandato elettorale: questi parlamentari sono stati eletti affinché pongano fine alla guerra. Non per una «nuova direzione in Iraq», ma per uscire dall'Iraq.
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