Nonviolenza e tecniche di difesa nonviolenta Pubblicato nell'Annuario di filosofia "Pace e guerra tra le nazioni",
Nonviolenza e tecniche di difesa nonviolenta
(pubblicato in Annuario di filosofia 2006, “Pace e guerra tra le nazioni”, Ed Guerini e associati, Milano 2006, pp. 243-282)
- Lo spirito e le tecniche
È giusto esigere efficacia da chi propone la nonviolenza nei conflitti umani. La nonviolenza non è solo l’astenersi dal fare violenza. Questo è il minimo di una vita umana moralmente decente. Se la nonviolenza vuole proporsi come sostituzione dei metodi armati per i fini giusti con essi cercati, deve promettere un’efficacia almeno pari a quella che si attende solitamente dalle armi. La nonviolenza è la scelta fondamentale di un atteggiamento attivo, positivo, per sostituire nelle relazioni umane ogni comportamento offensivo e distruttivo con comportamenti rispettosi e costruttivi, e questo anche e proprio nei conflitti più acuti, anche e proprio quando si pensa di avere ragione contro il torto dell’avversario. «La nonviolenza – ha scritto Gandhi – appare nella sua vera e più profonda natura quando viene opposta alla violenza» 1. Perciò, chi fa l’opzione nonviolenta si pone problemi pratici: come agire nei conflitti senza fare violenza, come lottare per le cause giuste con metodi che non duplichino la violenza altrui, e siano alternativi rispetto ai mezzi violenti giustificati da altri col perseguire un fine giusto. Cardine dell’etica e della politica nonviolenta è il nesso inscindibile tra la qualità dei mezzi, le forme dell’azione, e la qualità del risultato, qualunque fosse il fine nell’intenzione di chi agisce. Insieme al lavoro interiore, di acquisto della padronanza di sé, sperimentata continuamente da ciascuno nei piccoli o grandi conflitti della vita quotidiana; insieme alla indipendenza profonda dal conformismo nei metodi di azione, insieme soprattutto all’emancipazione dal rispetto per la legge della violenza; insieme alla fiducia nel valore ineliminabile della testimonianza del valore, abbia o no successo nel conflitto; insieme a tutto ciò, chi sceglie la nonviolenza sceglie la lotta, niente affatto la rassegnazione all’ingiustizia. E scegliendo di lottare incontra subito, come problema centrale, la decisione sul tipo di mezzi dell’azione, sulla loro elaborazione, affinamento, articolazione, efficacia.
Quindi, lo studio e l’esperienza relativi alle tecniche dell’azione sono un impegno centrale nella nonviolenza, tanto quanto il lavoro spirituale, interiore, culturale e filosofico per questa mutazione antropologica dall’uomo duramente competitivo all’uomo cooperativo. «Violenza è distruzione della vita, nonviolenza è amore per la vita, cura per la vita e forza che fa vivere» 2. «La storia dice: violenza. La coscienza ha un soprassalto e dice: amore» 3. Ma la cura e l’amore si concretano precisamente in forme accurate di azione, in tecniche. Le tecniche nonviolente, poi, non sono frutto di sola razionalità strumentale, efficientistica, settoriale, per la quale la ragione e le sue capacità sono strumenti per ottenere un risultato; sono invece azioni della ragione globale, valoriale e critica, che intende realizzare visioni e valori mediante rispetto, cura, amore. L’ossessione dell’efficienza immediata e totale è ingannevole, porta al cortocircuito della violenza, forza i tempi e la realtà e compromette il futuro: «La regola dell’azione non è […] l’efficacia a ogni costo, ma anzitutto la fecondità» 4.
- Aldo Capitini
Aldo Capitini (1899-1968), il filosofo e pedagogista che introdusse in Italia il pensiero nonviolento, per primo nel nostro paese cercò di individuare le tecniche dell’azione nonviolenta gandhiana 5 . Dal suo pensiero si coglie subito come per lui «la questione della prassi non sia riducibile a un fatto tecnico, organizzativo, e tanto meno a una ricerca di potenza da esercitare in nome di supposti fini superiori di bene». Pur interessandosi proprio degli aspetti operativi e tecnici dell’azione nonviolenta, pur mentre riferisce esperienze pratiche e istruzioni altrui, Capitini «non ha voluto presentare alcun manuale operativo, tattico o strategico. Piuttosto, ha insistito sulla natura e sulla qualità dell’azione nonviolenta. Per lui, secondo l’insegnamento di Gandhi, la pratica della nonviolenza è amore in atto» 6 .
- Mezzi e fini
Il primo capitolo de Le tecniche della nonviolenza (nell’edizione del 1967) tratta della «coincidenza» di mezzi e fini. «Per Gandhi i mezzi sono più che strumentali, sono creativi, costruttivi già di per se stessi» (p. 13). «La cosa fondamentale non è la conoscenza del metodo come il possesso di uno strumento, ma ciò che è nell’animo, cioè l’apertura allo spirito della nonviolenza» (p. 10). Capitini tratta quindi del Satyagraha (vedi oltre), nome del metodo nonviolento usato da Gandhi, il «contributo massimo» che Gandhi ha dato 7 . Tecniche nonviolente individuali ci sono sempre state, sicché si può veramente dire, contro le impressioni superficiali dovute al clamore delle violenze, che «la storia dell’uomo è una lunga marcia verso una luce, una libertà, una mitezza più grandi. […] Se la competizione ha alcune volte portato avanti la causa del progresso, la cooperazione è stata fondamentale per la sopravvivenza della specie» (p. 15) 8 .
«Ma Gandhi ha decisamente preso la nonviolenza dall’esperienza soltanto individuale e ne ha fatto un metodo per moltitudini», alla luce della «influenza formidabile» che esercitò su di lui ancora bambino un verso di una poesia del Gugerat: «La vera bellezza consiste nel ricambiare il male col bene», specie dopo avere ritrovato questo principio nell’evangelico Discorso della Montagna, nelle Bhagavad Gita, e definitivamente in Il Regno di Dio è dentro di te, di Tolstoj (p. 16) 9 . Da virtù personale, sempre esistita, «antica come le montagne», Gandhi ha fatto della nonviolenza una virtù politica, una possibile azione storica.
- Satyagraha
La forza di queste ispirazioni è appunto il Satyagraha, cuore del nuovo metodo, che supera la “resistenza passiva”, ed è qualcosa di fortemente attivo e positivo. Gandhi lo spiega come «la Forza che è generata da Verità e Amore» (p. 18) 10 . Capitini continua esponendo ampiamente la concezione gandhiana della Verità, e mostrando che questo è un metodo per tutti, come prova l’esperienza contemporanea di Martin Luther King. Dunque, come si vede, non si tratta di dovere semplicemente applicare regole pratiche, ma di acquisire un metodo sostanziale di azione costruttiva, a rimedio della distruttività.
Capitini espone dodici Tesi sulla nonviolenza, riassuntive del suo pensiero ormai maturo. Anche qui si tratta ancora di capire, di entrare nella realtà antica e nuova della nonviolenza. Capire l’essenziale per potere viverlo è qualcosa di “pratico”, è un fare, ma non è certo applicare meccanicamente formule tecniche come ricette. «Se si sceglie la nonviolenza, cioè l’apertura incessante all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti gli esseri, sta poi alla tecnica (giuridica, amministrativa, sociologica, ecc.) trovare i modi della sua attuazione. […] L’importante è rendersi conto che la scelta è fatta per un principio» (p. 31).
Il metodo di lotta nonviolenta creato da Gandhi «è fondamentalmente un principio etico, l’essenza del quale è una tecnica sociale di azione». Con questa parole (prese dal libro citato di Joan V. Bondurant), Capitini introduce il terzo capitolo La nonviolenza come rivoluzione permanente (questo termine si poneva come alternativo ad uno slogan del comunismo cinese, corrente in quegli anni). L’indicazione capitiniana essenziale è la creazione di «centro al livello delle moltitudini», che corregge ogni potere accentrato ed escludente; è il potere e controllo dal basso, o democrazia diretta, quella che chiamerà poi «onnicrazia, o potere di tutti» 11 . «Per il problema sommo che è “il potere”, cioè la capacità di trasformare la società e di realizzare il permanente controllo di tutti, bisogna che l’individuo non resti solo, ma cerchi instancabilmente gli altri, e con gli altri crei modi di informazione, di controllo, di intervento. Ciò non può avvenire che con il metodo nonviolento» (p. 39). «La sintesi di nonviolenza e di potere di tutti dal basso diventa così un orientamento costante per le decisioni nel campo politico-sociale» (p. 40).
Alle Tecniche individuali e collettive della nonviolenza è dedicata la seconda parte del libro di Capitini. «La strategia della nonviolenza, con il rifiuto deliberato del metodo violento, cioè con l’uso di certi modi o tecniche, a cui sia strettamente congiunta una speciale disposizione d’animo verso gli avversari, è rara nel passato – rara non vuol dire assente - e si è fatta molto più frequente in questo secolo, insieme con la pressante entrata di grandi moltitudini nella storia e nei diritti comuni». La possibilità della distruzione atomica generale «ha reso più imperioso lo studio di una strategia della pace, ma anche di una strategia della nonviolenza, in quanto essa renda efficace la pressione dal basso sui nuclei ancora ispirati alla strategia della violenza» (p. 45).
- Tu-tutti
Ma anche qui, per Capitini, la tecnica nonviolenta è soprattutto un fatto di spirito e di pensiero: «La prima tecnica nonviolenta da esaminare è quella del tu, del rivolgersi con l’anima e con l’azione ad ogni singolo individuo, in modo da interiorizzarlo, da sentirlo come prossimo, come sé stesso. Anzi, l’atteggiamento è tanto importante che lo si può vedere come più che una tecnica, ma la premessa di molte tecniche, un orientamento dell’animo» (p. 46). Con l’«atto del tu», anzi del tu-tutti, siamo nel cuore della filosofia di Capitini: questo pensare è già atto pratico. Egli vi si sofferma citando Gesù Cristo, Ernesto Buonaiuti, Guido Calogero, lo estende poi alla zoofilia e al vegetarianesimo, ascoltando Buddha, i Jainiti, l’imperatore Asoka, san Francesco, Piero Martinetti (di cui cita La psiche degli animali )12, la Carta internazionale degli animali (Delhi 1953) che riporta da una pubblicazione della Società vegetariana italiana (pp. 47-55).
«Una delle tecniche fondamentali della nonviolenza verso gli esseri umani è il superamento della vendetta e del risentimento»: la vera tecnica continua ad essere un atto interiore pratico. Le voci qui richiamate sono quelle di Socrate nel Critone, del profeta Isaia, la tradizione indiana, il vangelo, san Paolo e san Francesco, Tolstoj e Gandhi, Richard Gregg, autore di Il potere della nonviolenza 13 (pp. 55-59).
Atti di questo rispetto religioso verso il tu, sono la preghiera, la persuasione (qui cita Giovanni XXIII, Calogero e Socrate), il dialogo (dove ricorda un grande atto coraggioso di padre Gauthier, prete-operaio), l’esempio, il digiuno (riferendo parole di Danilo Dolci e di Gandhi), la croce di Cristo, l’autoincendio religioso (dei monaci buddhisti in Vietnam, e vi riflette per comprenderlo), la pietà verso i morti (porta ad esempio la storia del film giapponese di Kurosawa, L’arpa birmana) (pp. 59-70).
Venendo sempre più ad azioni pratiche, Capitini le pone sotto il principio della noncollaborazione, della quale scrive che «non esclude il mantenimento di un rapporto di amicizia, di amore, di vicinanza. […] Cioè, la noncollaborazione non è totale, non esclude il tu, l’altro, l’unità con tutti, il tu-tutti; ma esclude semplicemente di dare il proprio aiuto all’attuazione di una cosa che non si accetta». Essa «così realizzata, viene ad essere una specie di sollecitazione all’altro […], si può dire che è una noncollaborazione collaborante […], dà all’avversario un contributo che può avvertirlo e anche persuaderlo; e questa vicinanza all’altro compensa quella certa freddezza che potrebbe apparire nel rifiuto della collaborazione» (pp. 71-72). Esempi citati sono Martin Luther King, l’opposizione al fascismo durante il ventennio, Antigone («Io non sono nata per condividere l’odio, ma per condividere l’amore»), gli insegnanti statunitensi che rifiutano di addestrare gli allievi ad una falsa difesa nucleare. Anche manifestare il rimorso, come fa Claude Eatherly, un pilota di Hiroshima, per aver collaborato alla violenza, è segno – come gli scrive Günther Anders 14 – che è possibile anche a noi tenere viva la coscienza (pp. 73-75).
- Obiezione di coscienza
Appunto l’obiezione di coscienza al servizio militare è il mezzo d’azione trattato successivamente. Essa «si fonda su due tipi di ragioni. Il primo tipo è di non riconoscere a nessuno e nemmeno allo Stato il diritto di costringere un uomo ad agire contro la propria coscienza. Il secondo tipo è di porre come superiore al potere dello Stato il rapporto amorevole con tutti gli esseri umani, nessuno escluso» (pp. 77-78). Ricorda l’obiezione antica di san Massimiliano 15, quella dei terziari francescani (laici chiamati alle armi, difesi dal papa nella loro obiezione) nel 1221 a Rimini: «Noi non possiamo combattere né portare le armi, sia di offesa che di difesa, perché noi vogliamo la pace con gli uomini e con Dio, conquistandola con opere di bontà, trasformando il male che è nel mondo in bene». Ricorda le minoranze cristiane nonviolente, e specialmente i Quaccheri, poi il Movimento Internazionale della Riconciliazione 16 e la War Resisters International 17, nati rispettivamente prima e dopo la prima guerra mondiale. Ricorda l’obiezione di Claudio Baglietto, suo collega nella Scuola Normale di Pisa, morto in esilio nel 1940, e poi ampiamente Pietro Pinna, primo esplicito obiettore italiano, incarcerato nel 1949. La prima legge che riconosce l’obiezione e istituisce il servizio civile sostitutivo del militare si avrà in Italia solo nel 1972: qui Capitini registra il relativo dibattito, fino a quel momento, con le idee di Gandhi, di Calogero, i progetti legislativi di Nicola Pistelli e quello di Luciano Paolicchi, mentre ammira l’apertura mentale del ministro degli esteri norvegese Halvard Lange, e cita la lettera di don Milani ai cappellani militari (11 febbraio 1965)18. Conclude sull’obiezione di coscienza: «Non ci sono leggi o istituzioni che possono farla contenta se non quelle che per sempre sostituiscano efficacemente il modo bellico di regolare i conflitti» (pp. 78-90).
- La coscienza
La necessità che ha talora la coscienza di opporsi a qualche legge o comando, richiede di soffermarci un momento su questo atto centrale della lotta nonviolenta alla violenza. La coscienza non è un mezzo tecnico o tattico, ma è il movente e l’anima di tutte le azioni della nonviolenza, che cercano efficacia. La coscienza che deve negare collaborazione alla violenza organizzata è quel principio a noi intimo, e nello stesso tempo superiore, che ci impegna a fare ciò che ci appare sinceramente un bene e a ripudiare ciò che ci appare un male. È la nostra identità più propria eppure ci trascende perché può confliggere con l’istinto, col nostro interesse e la nostra volontà, alla quale sempre comanda come istanza superiore e, nello stesso tempo, è la più vera realizzazione della stessa più propria volontà nostra. La coscienza può essere tacitata, piegata, accomodata, e così l’uomo si falsifica nel profondo, ma sta come voce della verità che attira. Non occorre saper definire teoricamente la verità per sentirne l’appello nella coscienza. Certo, essa è condizionata in tanti modi, può confondersi ed errare, ma resta capace di chiarirsi e correggersi, specialmente se si tiene in dialogo con le coscienze altrui 19 , come sorgente che zampilla di nuovo limpida nonostante fango e pietre che la otturano. Prima, dentro e oltre ogni argomentazione oggettiva – che pure è da cercare con cura – è la coscienza il criterio che giudica il male e il bene. Per quante siano le nostre incertezze e i campi di realtà sfumati, difficili da valutare, la coscienza sincera vede bene i due poli chiari, del bene e del male. Bene è il rispetto positivo della realtà, anzitutto dei viventi, evitando di far soffrire, male è ciò che offende e distrugge. Noi non sapremmo che il male è male se non avessimo il criterio intimo del bene. Tante volte non sappiamo con tutta chiarezza quale è il bene, ma sappiamo quale è il male da cui allontanarci: questo ci mette sulla via, per quanto sia lunga, del bene. La coscienza che, come a Socrate, indica che cosa non si deve fare, più che il da farsi, è l’energia in prima istanza negativa, ma in realtà positiva, che muove l’obiettore. Gli obiettori di coscienza, anche quando non sapessero argomentare, sanno che devono obbedire al bene cercato. La coscienza richiede coraggio, ma anche dà il coraggio che richiede, e sta come energia interiore – il Satyagraha gandhiano, la voce di Dio, lo spirito dell’umanità migliore, la consapevolezza illuminata – che sostiene l’obiettore, anche nella solitudine in cui spesso si trova. Il no degli obiettori a qualcosa di ingiusto è soprattutto un sì alla verità cercata della vita 20 .
- Equivalente morale della guerra
Capitini cataloga quindi una serie di impegni civili sostitutivi della guerra, o «equivalente morale della guerra» (espressione di William James, nel 1910, e di Gandhi, nel 1931) (pp. 90-97).
Nel settimo capitolo, tra le tecniche collettive, Capitini indica la vita interna e l’azione esterna delle comunità nonviolente (terziari francescani; Comunità dell’Arca, fondata da Lanza del Vasto), poi le marce per la pace, dimostrative e nonviolente: sono «comunità momentanee e in movimento»; la marcia «manifestazione dal basso, al livello minimo, che tende a comprendere tutti, è assolutamente nonviolenta, cioè priva di armi e opposta perciò alla sfilata militare». «La marcia è il simbolo della moltitudine povera, che sa di essere nel giusto, che accomuna volentieri tutti». Ne riferisce realizzazioni diverse, in diversi paesi (Germania, Giappone, India e Cina, Canada, Stati Uniti, Cuba, Spagna), poi parla naturalmente della Perugia-Assisi, da lui stesso promossa nel 1961 col Centro di Perugia per la nonviolenza, il quale «invitò a prender parte persone e associazioni politiche e religiose di ogni tendenza, e pose come condizione non la propria ideologia, ma l’assenza di ogni fatto o accenno violento per quelle ore» (pp. 98-107).
Questo tipo di azione è diverso dalla manifestazione cittadina, pur giusta ed efficace in certi momenti, che ha forma di corteo, dal simbolismo quasi marziale, più facilmente abusata e rovinata da elementi violenti, dei quali poi quasi unicamente riferiscono gli organi di informazione. La marcia fuori città, realizzata nei nostri anni in forme varie, meno vistose e clamorose, è piuttosto un cammino da una località significativa ad un’altra, simbolo più mite di un percorso anche interiore di trasformazione personale e politica verso la pace 21 .
Altre forme di lotta nonviolenta sono lo sciopero (esperienze di Danilo Dolci in Sicilia) nelle sue varie forme, fino allo hartal gandhiano (anche a Budapest nel 1956); il boicottaggio economico, «tecnica prettamente nonviolenta del principio di noncollaborazione», realizzato da Gandhi (produzione artigianale per non acquistare i tessuti inglesi) e da Martin Luther King (non uso dei bus). Ma riguardo al sabotaggio (danno o distruzione contro il funzionamento di un servizio o di un’industria, oltre il limite della legalità), si chiede Capitini: «È una tecnica della nonviolenza?». È una misura estrema – risponde – la quale esige che il danno procurato sia inferiore al danno apportato dal funzionamento di quel servizio, e che non vi sia nessun rischio per esseri viventi, particolarmente umani. «Nessuno può sostenere che rendere inefficiente un meccanismo o un servizio disposto da oppressori o invasori per tormentare o uccidere persone, non sia lecito anche ad un nonviolento». Così, antimilitaristi o familiari dei soldati hanno ostacolato la partenza di treni per la guerra (pp. 107-112). Azioni simili, in anni recenti, contro il transito in Italia di treni di armi per le nuove guerre, sono state assolte in tribunale.
«Nelle azioni nonviolente collettive è necessaria la pubblicità delle iniziative». Capitini fa risalire questa regola gandhiana mirante a ridurre nell’avversario paura e dunque violenza, al dovere civico, propugnato da Kant (in Che cos’è l’illuminismo?), di contribuire, con l’uso pubblico della ragione, al miglioramento della società. Così, ogni gruppo, pur addestrandosi alle lotte nonviolente, deve rendersi utile con un continuo servizio sociale alla comunità, senza cercare potere o prestigio ad ogni costo, ma dimostrando fiducia nella coscienza di tutti che possa comprendere la giustizia di una causa (pp. 112-114).
- Disobbedienza civile
La disobbedienza civile si distingue chiaramente dalla noncollaborazione. Questa «non esce dall’ambito della legalità ed ha un carattere di rinuncia a ciò che lo Stato può dare». La disobbedienza civile, invece, «infrange la legalità, senza tuttavia attentare alla vita, o all’onore di alcuna persona». Essa «può essere difensiva, rivolta contro leggi ingiuste: p. es., in uno Stato che neghi la libertà di associazione, formare corpi di volontari nonviolenti». «La disobbedienza civile di attacco è disobbedienza volontaria, è una rivolta contro lo Stato oppressore».
Questo metodo, che Capitini chiama col termine gandhiano Satyagraha (forza che viene dalla fedeltà alla verità), prevede ben nove fasi successive: la prima: tentare anzitutto trattative e accettare un arbitrato; la seconda: esaminare bene i motivi dell’azione, esercitarsi all’autodisciplina, anche con un digiuno purificatore, considerare bene le procedure, la situazione dell’avversario, l’opinione pubblica; la terza: svolgere un’attiva campagna di propaganda; la quarta: rivolgere un ultimo forte appello all’avversario, spiegandogli le fasi ulteriori dell’azione e offrendogli una via d’uscita dignitosa e costruttiva; la quinta: iniziare boicottaggio e scioperi; la sesta: azioni di noncollaborazione alle pubbliche istituzioni; la settima: scegliere bene quali leggi disobbedire; l’ottava: preparare le funzioni di governo alternativo, cioè un Satyagraha affermativo; la nona fase: sviluppare tali funzioni, renderle così solide da ottenere la cooperazione della popolazione. Si tratta di fasi successive nell’azione gandhiana, ma anche di regole di questa azione, che gli studiosi hanno estratto dalle lotte di Gandhi, formulandole in modi diversamente dettagliati, ma sostanzialmente coincidenti 22 .
Citando ancora Gandhi - «Ogni lotta per la giustizia passa per la prova di cinque tappe: l’indifferenza, il ridicolo, la calunnia, la repressione, il rispetto» 23 - Capitini sottolinea che la lotta nonviolenta «poggia principalmente non sulla quantità ma sulla qualità, sulla forza dell’anima (che può essere anche in donne e ragazzi), sulla padronanza di sé, sullo spirito di sacrificio, insomma sul valore morale di ciascun combattente». Insiste poi sulla persistente ricerca di un accomodamento onorevole con l’avversario, senza alcun trionfo, sul rifiuto di cedere sull’essenziale, sulla necessità di controllare bene lo stato d’animo dei combattenti nonviolenti, sul non nutrire mai astio o collera, né usare insulti, sul comportarsi in modo esemplare in caso di arresto. Questo metodo gandhiano si è diffuso nel mondo, più che nell’India stessa (pp. 114-118).
Nel seguito di questo libro, Capitini registra alcune tecniche più recenti, da quelle dei neri statunitensi contro la segregazione, a tante altre in ogni parte del mondo, create con molta fantasia (p. 118-124); propone i principi e il lavoro di addestramento alla nonviolenza (pp. 127-147); espone il Piano De Ligt contro la guerra, del 1934, chiaro e accurato, ma proposto a moltitudini «assolutamente immature ad una mobilitazione contro la guerra» (pp. 150-157); riassume il Manuale dell’organizzatore dell’azione diretta nonviolenta, di Charles C. Walker, del 1961 (pp. 158-165). Nell’ultima parte (pp. 169-197), Capitini racconta le grandi campagne nonviolente, quelle di Gandhi in Sudafrica, poi in India, sia contro i mali interni a quella società, sia contro il dominio inglese; quelle dei plebei nell’antica Roma; quelle esemplari dei norvegesi (gli insegnanti, la chiesa, gli operai, le organizzazioni professionali) contro l’occupazione nazista; quelle di Albert Luthuli in Sudafrica contro l’apartheid, sebbene segnate da «gravi insufficienze»; quelle più mature di Martin Luther King negli Usa, per i diritti civili dei neri, che hanno anche creato nuove tecniche. E termina osservando che sia l’Italia nel 1924, dopo il delitto Matteotti e l’Aventino non proseguito, sia l’Europa nei confronti del regime nazista, si trovarono completamente impreparate e immature a lottare contro quei gravi mali con metodi nonviolenti, e caddero o nella rassegnazione passiva o nell’uso della forza militare pari e contraria 24 .
- Filosofo militante
Capitini è un teorico, di una teoria che passa naturalmente, come in Gandhi, nell’azione, e che sull’azione riflette teoricamente. Con lo studio e la promozione dell’azione nonviolenta, egli rappresenta il tipo del filosofo militante. A questo proposito, lascio la parola a Jean-Marie Muller: «Dunque, potrà il filosofo riflettere sulla nonviolenza se non è lui stesso un “militante”? Ma l’uomo ragionatore diffida del militante. Costui non ha forse la cattiva reputazione di essere un attivista? Poiché prende partito, non gli si rimprovera di cadere nell’intolleranza? Non è egli sospetto di avere idee troppo fisse per essere ancora capace di riflettere? Certo, nessuno dubita che il militante sia un uomo di convinzioni, ma – paradossalmente – è proprio per questo che si dubita che possa essere uomo di riflessione. Come se l’agire con convinzione non gli permettesse di avere la distanza necessaria alla riflessione, come se fosse meglio non agire per meglio riflettere!… Non conviene invece mettere in questione l’immagine del filosofo che riflette tenendosi fuori dalle beghe della città? Come se il fatto di non impegnarsi, di non prendere partito permettesse di riflettere meglio!… Non bisogna piuttosto affermare che, se la filosofia è una ri-flessione sull’azione, il filosofo non può non agire e, in questo senso, non può non essere un militante? Noi pensiamo in effetti che si debba procedere a una riabilitazione filosofica della militanza. Non è senza significato che il termine militante abbia la stessa radice etimologica della parola militare (dal latino miles, soldato): come il militare pratica l’arte del combattimento armato, il militante nonviolento pratica l’arte della lotta nonviolenta» 25 . Su questo come su ogni altro materiale di vita si esercita, prima e dopo, la riflessione.
- Sharp, teoria del potere
Un ampio lavoro sulle tecniche di lotta nonviolenta è il secondo dei tre volumi di Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta,26 , dedicato appunto a Le tecniche. Nel vol 1°, Potere e lotta, Sharp propone sette ipotesi per spiegare perché gli storici hanno per lo più trascurato ed ignorato (se non occultato) questo genere di lotte (cap. III, pp.133-136). Ecco alcune delle sue spiegazioni: il pregiudizio della società in cui gli storici vivono, secondo cui la violenza è il solo modo veramente efficace di lottare; il loro legame, in certi casi, con gruppi di potere e sistemi oppressivi, di cui si preoccupano di salvaguardare gli interessi, perché far conoscere forme di lotta utilizzabili da persone senza armi sarebbe come istruire il popolo ad un metodo praticabile da tutti contro i dominatori (in effetti, le tecniche nonviolente valgono per la difesa popolare dalla sopraffazione interna ad un determinato sistema politico, e non solo, come le tecniche militari, per i conflitti esterni guidati da chi ha il potere, e quindi sono temute e possibilmente occultate da questi); come ogni nuova concezione scientifica o sociale deve solitamente attendere vario tempo per essere accettata, così la gestione nonviolenta dei conflitti, la sua natura e le sue potenzialità, hanno bisogno di tempo per essere scoperte e accettate; fino a poco tempo fa, non esisteva alcun sistema concettuale per raggruppare come esempi di lotta nonviolenta casi storici verificatisi in tempi e luoghi i più diversi della storia umana, apparentemente separati e scollegati, di cui non si scorgeva un comune metodo di azione; quando la violenza fallisce, si tende a vederne la causa in specifici fattori e carenze, e non al metodo in se stesso, mentre quando la nonviolenza fallisce o ha risultati limitati, si condanna integralmente come impotente questo metodo, a causa del suddetto pregiudizio diffuso.
Contro il luogo comune della invincibilità del potere, se non ad opera di un potere più forte, di fatto più violento, Sharp presenta, nel cap. I, una teoria del potere come, in realtà, consistente essenzialmente nell'obbedienza dei sottomessi. Già in Aristotele c’è la semplice osservazione che gli “onori” (le cariche politiche) dipendono più da chi conferisce l’onore che da chi è onorato 27 . La teoria di Sharp ha un illustre precedente in Etienne de la Boétie col Discorso sulla servitù volontaria 28 , pubblicato tra il 1546 e il 1550. Se così è, allora possiamo vedere le possibilità di un controllo nonviolento del potere mediante la gestione del proprio consenso, necessario al potere, da parte della società consapevole. Lo lotta nonviolenta a qualunque potere prevaricatore consiste dunque, in sostanza, nell’amministrazione consapevole del consenso che il popolo dà o nega, secondo il giudizio sul modo in cui viene esercitato il potere. Non occorre, quando è ingiusto e non si hanno mezzi democratici per sostituirlo, abbatterlo col ferro e col fuoco: basta negargli il consenso in modo sufficiente per svuotarlo e farlo cadere nel proprio vuoto, senza colpo ferire, sebbene, per lo più, non senza costi umani, probabilmente sempre inferiori a quelli della lotta violenta. Un grande esempio recente sono state le rivoluzioni politiche nonviolente (nei fatti, non sempre nella consapevolezza teorica) avvenute nei paesi dell’Europa orientale, nel 1989 29 .
- Centonovantotto tecniche
Nel vol 2°, Le tecniche, di 340 pagine, Sharp elenca 198 tecniche (un numero aperto, ovviamente) che non ha immaginato a tavolino, ma ha osservato nella storia di tutti i tempi e luoghi 30 . Per ognuna di queste tecniche, egli colleziona diversi casi storici; si tratta dunque di una raccolta, pur sommaria, di molte centinaia di realtà storiche di nonviolenza attiva in luogo della guerra o di altre violenze. Da vari decenni Sharp promuove questa ricerca nel Program on Nonviolent Sanctions in Conflict and Defense at the Center for International Affairs, Harvard University 31 .
Un elenco delle 198 tecniche catalogate da Sharp è in appendice all’edizione italiana. Indico le maggiori categorie individuate dall’Autore: Protesta e persuasione nonviolenta; Noncollaborazione, distinta in sociale, economica, politica; Intervento nonviolento. Nel primo gruppo troviamo: Dichiarazioni formali; Forme di comunicazione rivolte ad un pubblico più vasto; Rimostranze di gruppo; Azioni pubbliche simboliche; Pressioni sui singoli individui; Spettacoli e musica; Cortei; Onoranze ai morti; Riunioni pubbliche; Abbandoni e rinunce. Ognuno di questi sottogruppi comprende singole forme di azione, da tre o quattro ad una dozzina, individuate da Sharp nella storia. Sotto la noncollaborazione economica, per esempio, troviamo ancora due grandi sottogruppi, a loro volta molto articolati: i boicottaggi economici e gli scioperi. Rimando al libro per vedere tutte le 198 diverse tecniche rintracciate nell’esperienza: si tratta evidentemente di un elenco aperto, che i fatti integrano continuamente, che ovviamente può essere discusso e corretto, emendato qui o là, ma che resta comunque indicativo della ricchezza di fantasia, concretezza e coerenza delle lotte nonviolente nella storia.
E come mai tanta esperienza di mezzi nonviolenti non è arrivata a caratterizzare più ampiamente la politica, le lotte sociali, il pensiero teorico sui conflitti umani? Jean-Marie Muller scrive: «Bisogna ben riconoscerlo, quelli che affermano la necessità della violenza, generalmente non hanno mai provato la nonviolenza. Una cosa è dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa è dire: bisogna ricorrere alla nonviolenza il più possibile. Se l’uomo non si prepara a mettere in atto i mezzi dell’azione nonviolenta ogni volta che è possibile, allora la violenza sarà ogni volta necessaria. Non si può fare davvero risparmio di violenza se non facendo risolutamente la scelta della nonviolenza. Il risparmio di violenza non è possibile che nella dinamica della nonviolenza» 32 .
- Capitini e Sharp
Giovanni (Nanni) Salio ha abbozzato un confronto fra le tecniche nonviolente nella concezione di Capitini e di Sharp 33 : «L’approccio di Sharp è più pragmatico; egli intende introdurre le tecniche della nonviolenza in una società, indipendentemente dall’adesione o meno alla filosofia della nonviolenza. Capitini […] si propone obiettivi più ambiziosi, che comportano una cambiamento strutturale della società, per ridurre non solo la violenza diretta, ma anche quella strutturale e culturale» (p. 51). «Colpisce il fatto che l’obiezione di coscienza assuma un grande rilievo in Capitini, mentre addirittura non compare nella classificazione proposta da Sharp come voce a sé stante, sebbene possa rientrare nella disobbedienza civile. Non è una differenza di poco conto, ed è forse riconducibile alla maggiore attenzione che Capitini presta agli aspetti interiori della nonviolenza rispetto alle preoccupazioni più pragmatiche di Sharp».
Gene Sharp, per questa sua impostazione, è chiamato addirittura “il Machiavelli della nonviolenza” ed è stato criticato. Alcune recensioni lo hanno accusato di «avere strappato il cuore alla nonviolenza». È essa soltanto un mezzo meno costoso? È intercambiabile con la violenza se questa si presenta più efficace? 34 Se la nonviolenza è soprattutto una tecnica, potrà servire a qualunque scopo? 35
In una intervista torinese del 1987, che raccolsi io stesso, Sharp ha dato una risposta a questa obiezioni: «La nonviolenza adottata per ragioni pratiche farebbe scoprire la sua superiorità morale. La maggior parte della gente ha respinto la nonviolenza, magari ammirandone il valore morale, perché la riteneva non efficace, non praticabile. Non guardo il mondo solo in termini di tecnica. La violenza mi ripugna. Le tecniche nonviolente non sono panacee, ma sono rilevanti di fronte alla violenza. Vista la sua efficacia, si apprezzerà il valore morale della nonviolenza» 36 .
- Senz’armi di fronte a Hitler
Il libro di Jacques Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler 37 studia la resistenza civile al dominio nazista in Europa. Si limita al periodo 1939-1943 allo scopo di illustrare le sole forme di lotta nonarmata 38 autonome dalla lotta armata, e non quelle successive, combinate con questa. Semelin studia propriamente, da sociologo, le forme sociali della resistenza nonarmata al nazismo in tutti i paesi occupati e nella stessa Germania, ma così facendo ne realizza la raccolta storica finora più ampia, per il periodo indicato.
È particolarmente importante che l’obiettivo di queste lotte, scelte da Semelin, fosse il potere militare nazista, cioè la forma più violenta che abbiamo conosciuto nell’età contemporanea. Se resistenze nonarmate e/o nonviolente hanno potuto sorgere come riscatto di dignità e con speranza di riuscita, se hanno potuto contenere quel terribile potere, imporgli restrizioni, frustrarne almeno alcuni obiettivi, ciò significa che se la nonviolenza diventasse cultura politica e strategia, se disponesse di un centesimo dei mezzi economici e organizzativi e simbolici di cui dispone la difesa statale armata, militare, costruita per uccidere vite umane, la difesa nonviolenta potrebbe diventare anche la forma istituzionale con cui una società politica si difende dalle aggressioni tanto esterne quanto interne.
Questa osservazione non è annullata dalla abituale obiezione che Hitler è stato vinto dalla guerra degli stati democratici e non dalle resistenze nonviolente. Questo è vero (senza dimenticare il contributo di queste lotte) sul piano semplicemente fattuale, ma rimangono ben aperte due domande: una diversa cultura della politica, dei conflitti e della difesa non avrebbe potuto contrastare e impedire la violenza di Hitler fin dall’inizio con mezzi alternativi, anziché quegli stessi usati da lui, le armi e la guerra, cioè l’uso della morte? La vittoria su Hitler mediante la guerra, certo da lui provocata, ma accettata dalle democrazie come unico piano possibile di confronto, non ha trasmesso alle democrazie stesse quel virus bellico e quel distruttivismo che era l’essenza del nazismo e a cui le democrazie non hanno saputo essere radicalmente alternative?
Non sembrino domande eccessive o irreali. La nonviolenza, che il pensiero e l’azione della politica non hanno finora capito, ha posto con Gandhi, fino dal primo Novecento, questa domande radicali. Egli vide subito (lo disse nel 1925), che gli intenti, in astratto nobili, della rivoluzione sovietica, non potevano realizzarsi né durare perché ottenuti con la violenza 39 . Egli propose agli inglesi, nel 1940, mentre erano sotto attacco tedesco, un coraggioso metodo alternativo di resistenza nonviolenta, perché, con la guerra, non avrebbero potuto eliminare il nazismo, e, per vincerlo in guerra, avrebbero dovuto diventare più crudeli dei nazisti. Egli aveva scritto, nel 1938, che «democrazia e violenza non possono coesistere». Nel 1940, con un severo giudizio che non possiamo liquidare in fretta, disse che, poiché non esclude la violenza e non dà al più debole le stesse possibilità del più forte, «la democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo» 40 . Per questo, la domanda «Chi ha vinto la seconda guerra mondiale? L’ha forse vinta Hitler?», domanda paradossale ma non assurda, è stata posta da diversi studiosi che si sono interrogati in profondità, sotto la superficie dei fatti 41 . Un pensatore che da molto tempo medita seriamente su questi temi, in un ampio lavoro di prossima pubblicazione su Gandhi come via d’uscita dalla nuova barbarie del XXI secolo, osserva che molte caratteristiche essenziali della mentalità e pratica nazista, sotto vesti e forme diverse, e con diversa retorica, sono pure le caratteristiche del sistema di potere vigente oggi nel mondo.
- Forme di resistenza nonviolenta al dominio nazista
Alla fine del suo lavoro, Semelin raccoglie gli esempi storici citati, nel tempo e luoghi detti, classificandoli secondo le forme di resistenza e di lotta.
Forme generali sono: il lavoro al rallentatore, la stampa clandestina, l’infiltrazione delle amministrazioni.
Le mobilitazioni di popolazioni comprendono le manifestazioni (almeno dieci casi), gli scioperi (quasi altrettanti), la disobbedienza civile di massa (rifiuto del lavoro obbligatorio in Francia), movimenti particolari di resistenza “professionale” (medici olandesi, insegnanti norvegesi, l’insegnamento clandestino in Polonia).
Una categoria di azioni particolarmente significativa comprende i movimenti di solidarietà e assistenza agli Ebrei perseguitati, in Francia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Bulgaria. Sul caso danese, il più efficace di tutti nel salvare il 95% degli ebrei di quella nazione, è noto il giudizio di Hannah Arendt (a parte l’improprietà del vecchio nome di “resistenza passiva” per un’azione nonviolenta di massa altamente attiva e organizzata): «Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università in cui vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori» 42 .
Le mobilitazioni istituzionali si attuarono in proteste (responsabili delle chiese della Germania, Paesi Bassi, Bulgaria, Francia, Belgio, associazioni norvegesi, politici e intellettuali della Bulgaria, organi giudiziari del Belgio), in forme di noncooperazione limitata (opposizione alla persecuzione e deportazione degli Ebrei, da parte degli stati danese, finlandese, italiano, rumeno, ungherese; consegna ai tedeschi delle navi danesi rese inutilizzabili; resistenza parziale della corte di cassazione in Belgio), in forme di noncooperazione totale (nella Norvegia occupata: resistenza al colpo di stato di Quisling, fermezza dello stato, dimissioni della corte suprema e della chiesa di stato norvegese; nella Danimarca occupata: dimissioni del governo per non cedere alle pressioni tedesche, dopo aver mantenuto una dignitosa quasi-indipendenza, e conseguente legittimazione della resistenza popolare, in larga parte nonarmata).
- L’altra Resistenza
La ricerca storica, più attenta a protagonisti e forme di resistenza non soltanto armata e militare, ha fatto progressivamente scoprire aspetti non visti nei primi anni e nelle prime fasi della storiografia resistenziale. Anzitutto, la “Resistenza taciuta”, quella delle donne, scoperta e valorizzata, cominciando dalla memorialistica e dalla storia orale, arrivando quindi a individuare e a proporre nella più vasta storiografia il concetto strategico e politico di resistenza civile, o nonviolenta, soprattutto ad opera di donne ricercatrici e studiose di storia 43 .
- Le lotte di Gandhi: verità, nonviolenza, sofferenza
Fulvio Cesare Manara, nel libro già citato dal bel titolo Una forza che dà vita, dedica il terzo capitolo, Tra profezia e strategia: pratiche di satyagraha, alle lotte gandhiane, non senza aver prima chiarito origine e significato dell’idea e del metodo che Gandhi chiama satyagraha: «Satyagraha significa, etimologicamente, “fermezza nella verità”, “ferma adesione alla verità”, “insistenza sulla verità”. (…) Aderire fermamente alla verità implica mettere alla prova – agendo con piena trasparenza – le proprie verità “soggettive”, avendo cura di non assolutizzarle e di aprirsi alla Verità che le trascende» 44 . Questa è per Gandhi «la forza più grande nel mondo»; va oltre la “non-resistenza” tolstojana; dista «come il Polo Nord dal Polo Sud» dalla “resistenza passiva” che è «l’arma del debole». Satyagraha è la nonviolenza “di principio” e non solo “pragmatica”; si oppone al “duragraha”, che è «l’ostinata aderenza a una causa sbagliata, o una cattiva maniera di perseguire una causa giusta», «un modo di agire diabolico», e tale è, per Gandhi, la prima guerra mondiale in corso mentre dice queste cose (pp. 101-118).
Quindi, Manara elenca le principali lotte condotte da Gandhi tra il 1906 e il 1942. Gandhi stesso aveva redatto un primo elenco delle lotte da lui realizzate fino al 1923-1925, quando scrive Satyagraha in South Africa 45 . Si tratta, nell’insieme, di conflitti in difesa degli indiani in Sudafrica, di contadini e operai in India, contro leggi e atti repressivi degli inglesi, contro l’esclusione degli intoccabili, contro aumenti esosi di tasse ai contadini, contro il monopolio inglese del sale, contro la guerra, per l’indipendenza. «Molto importante è comprendere che Gandhi in questo metodo d’azione mira non semplicemente alla realizzazione di una politica di potere, ma al consolidamento di una forma diversa di potere, basata sull’autorità morale, la quale a sua volta si fonda sull’autonomia morale individuale» 46 . Una costante di queste lotte è la presenza di regole fondamentali, un vero codice di disciplina, e della previsione di gradi o fasi della contesa, invariabili nei diversi casi.
Al combattente “satyagrahi” era richiesto anzitutto un impegno scritto, una specie di “voto solenne”, da inviare alla Commissione del Congresso per il satyagraha. Chi firma questa promessa si impegna a restare nonviolento nelle parole e nelle azioni, a credere nell’unità di tutte le componenti etniche e religiose dell’India, a rimuovere «il male dell’intoccabilità» e a «rendere servizio alle classi sommerse», a praticare il lavoro manuale per l’indipendenza economica dell’India dagli inglesi, ad eseguire le istruzioni di chi guida la lotta «non incompatibili con lo spirito di questa promessa», si dichiara «preparato a soffrire l’imprigionamento o anche la morte per questa causa e per il mio Paese, senza risentimento» 47 .
Le regole fondamentali di una campagna satyagraha si basano sulla distinzione tra forza e violenza: la forza nonviolenta “costringe” l’avversario senza offenderlo, conquistandone l’animo con la capacità di soffrire piuttosto di far soffrire lui, rendendogli meno costoso l’accordo che l’ostinazione. Quelle regole possono essere indicate così: autosufficienza del gruppo; mantenere l’iniziativa nelle mani dei satyagrahi; diffondere gli obiettivi, strategie e tattiche della campagna; richiedere il minimo coerente con la verità; avanzamento progressivo e graduale del movimento; esame delle debolezze interne al gruppo; ricerca continua di cooperazione onorevole con l’avversario; disponibilità al compromesso su punti non essenziali e rifiuto di cedimento sui punti essenziali; insistere per un pieno accordo sui fondamenti prima di accettare una soluzione. In sintesi: verità, nonviolenza, accettazione della propria sofferenza.
Gandhi stesso precisò il “codice di disciplina” durante le campagne del 1930, che prescriveva: non nutrire alcuna rabbia, ma soffri per la rabbia dell’oppositore e non restituire i suoi colpi; non sottometterti ad alcun ordine dato nella rabbia; astieniti da insulti e provocazioni; proteggi gli oppositori da insulti e aggressioni, anche a rischio della vita; non resistere all’arresto né all’attacco alla proprietà (a meno che tu non ne sia amministratore fiduciario: allora difendila a rischio della vita); se fatto prigioniero, comportati in modo esemplare; obbedisci agli ordini dei leader del satyagraha e dimettiti dall’azione in caso di serio disaccordo.
Una campagna satyagraha ha diverse fasi: negoziato e arbitraggio; preparazione del gruppo per l’azione diretta; agitazione; lancio di un ultimatum; boicottaggio economico e scioperi; noncooperazione; disobbedienza civile; usurpazione di funzioni di governo; governo parallelo 48 .
- Un esempio concreto
Manara fornisce ancora un esempio concreto di questo metodo di lotta, descrivendo bene il caso del satyagraha di Vykom, cittadina dell’estremo sud dell’India, nell’autunno 1925, per affermare il diritto di passaggio sulla strada di un tempio, negato dai bramani agli intoccabili. Il racconto mostra nel concreto l’applicazione di quei princìpi e regole, il loro valore altamente morale e la loro efficacia pratica. Gli avversari erano rispettati nei loro sentimenti. Quando, alla fine, fu tolto dalle autorità il blocco della strada, i satyagrahi non vollero passare fin quando i bramani non si fossero detti persuasi che gli intoccabili ne avevano il diritto. Così avvenne quando quelli dichiararono: «Non possiamo resistere ulteriormente alle preghiere che ci sono state rivolte, e siamo pronti ad accogliere gli intoccabili» 49 . Questa è la “coercizione nonviolenta”, quella che Gandhi in altra occasione disse essere la stessa che Cristo dalla croce esercita sui cuori umani 50 .
Oggi, sempre di più, tante lotte sociali e politiche cercano di ispirarsi alla nonviolenza, almeno come vaga intenzione. Se si curasse anzitutto la preparazione interiore dei lottatori, la scelta di principio e non solo pragmatica, quindi l’organizzazione strategica e la chiara comunicazione, qualificate nel modo che abbiamo visto, si eviterebbe molto di più (evitarlo del tutto era impossibile anche a Gandhi) che episodi, intemperanze o infiltrazioni e provocazioni violente inquinino o addirittura – per opera dell’informazione deformante, sensibile solo alla violenza – occultino e rovinino del tutto il messaggio di tante manifestazioni giuste. La nonviolenza non è solo l’astensione dalla violenza, o una bella intenzione, ma una cultura e un addestramento profondo, da imparare. La nonviolenza si impara, come dicono i ricercatori, come fanno i formatori. Si impara dalla storia, dall’esperienza, dall’immaginazione di ciò che è giusto, ma anzitutto educando in noi stessi personalità intimamente nonviolente 51 . Questa è la prima forma di lotta nonviolenta, la lotta con noi stessi. La quale, contro un diffuso equivoco, è anche il primo e principale significato dello jihad islamico: lo jihad maggiore, jihad del cuore, lotta contro il male e la debolezza che sono in noi 52 .
- Nonviolenza e società
Dall’esempio descritto di Vykom, ma anche dall’insieme delle sue lotte, risulta che Gandhi combatté per fini sociali, di giustizia, più che per fini politici nazionali. Questi sono rimasti i più noti nella conoscenza comune, sicché solitamente si chiede alla nonviolenza di dimostrare le proprie capacità fermando le guerre, e la si sfida a sostituirsi ad esse come efficace alternativa. Ma è chiaro che solo con una profonda riforma della società e della cultura politica, e poi col loro sviluppo istituzionale, i metodi nonviolenti possono presentarsi per tempo come efficace alternativa alla corrente concezione tutta bellica dei conflitti e della difesa.
Forse un lettore, partendo dal titolo di questo articolo, poteva aspettarsi un resoconto su difese nonviolente, anziché belliche e militari, di territori, confini statali, istituzioni politiche. Anche questo si trova nella storia della nonviolenza – e la progettazione e sperimentazione di Difesa Popolare Nonviolenta (questo è il termine usato in Italia) è un impegno centrale degli studi e delle pratiche relative 53 – ma, prima che a livello politico istituzionale, la lotta e la difesa nonviolente si fondano nella vita e nella cultura sociale, e prima ancora, come abbiamo visto, nella vita personale.
Se guardiamo il “programma costruttivo” di Gandhi notiamo anzitutto che per lui esso ha la massima importanza, come azione sociale, rispetto alle lotte di opposizione: «Se la disobbedienza civile non è accompagnata da un programma costruttivo, è un atto criminale e una dispersione di energie, (…) è soltanto una bravata ed è peggio che inutile» 54 . Poi, guardandone i contenuti, gli undici punti precisi che Gandhi individuò fino dal 1909, vediamo che sono tutti obiettivi di risanamento sociale: riconciliazione religiosa, abolizione della intoccabilità come primo passo verso l’abolizione delle caste, lotta all’uso di alcol e droghe, lavoro manuale per l’indipendenza economica e la dignità del capitale umano, la piccola industria di villaggio, l’educazione di bambini e adulti, la parità tra i due sessi, miglioramento fisico e psichico mediante la “semplicità volontaria”, propagazione della lingua nazionale, promozione dell’uguaglianza economica come condizione per una società nonviolenta 55 .
- Gandhi e il terrorismo
Ma certamente Gandhi seppe affrontare anche i conflitti sociali più acuti e violenti, confinanti col fenomeno guerra. Il capitolo IV del già citato libro di Manara, Gandhi, il terrorismo e la nonviolenza, è di impressionante attualità. Gandhi, contrariamente ad un errato luogo comune, non ebbe a che fare con un dominio coloniale dolce, ebbe invece esperienza diretta di entrambi i terrorismi, inglese e indiano. Coi terroristi indiani dialogò intensamente, sia a Londra, sia in India: mai interruppe il dialogo franco con loro, mai pensò che la condanna del metodo dovesse chiudere il discorso aperto e critico. Riconosce e ammira il loro zelo, mentre lo critica apertamente come fuorviato. Atti di terrorismo scandiscono continuamente i suoi anni, fino a colpirlo a morte, nel 1948. Egli sviluppa una decina di argomenti sui modi di giudicare e contrastare il terrorismo (pp. 138-147), che è il «culto delle pistole e delle bombe» (Kulke): i principali sono il nesso tra mezzi e fini; la necessità, ben più che della repressione, di cercare le cause profonde del terrorismo “popolare”, il quale è segno di debolezza; i due terrorismi si rafforzano a vicenda, ma più grave è il terrorismo di stato, perché usa le istituzioni e corrompe l’intera popolazione. Soprattutto, Gandhi indica la “non-ritorsione” come l’unica via d’uscita dalla spirale: questa è l’arma del forte, che fa ricorso a profonde forze spirituali, come leggiamo nel lungo grande brano del 1947 (p. 145).
Oggi, al terrorismo internazionale e interno, veramente preoccupante, si è opposta esclusivamente la guerra occidentale dispiegata, senza limiti di mezzi, di forme, di armi illegali, di tempi, senza rispetto delle convenzioni internazionali e degli stessi diritti civili dei cittadini, mettendo a rischio la democrazia, con enorme cecità e insipienza, che accresce disastri e dolori, che risulta analoga e omologa al terrorismo che combatte, e semina altri mali nel futuro. I popoli minacciati possono accettare questa politica per paura, ma appena riescono a ragionare non la riconoscono saggia e giusta. I popoli da cui vengono i terroristi fanatici vivono un tempo di disperazione storica: quando mancano prospettive di azione e di relazioni collettive vivibili, serpeggiano ed esplodono pulsioni di morte. Poche voci sapienti hanno ricordato che anche il criminale è umano, mentre nega l’umanità, anche le culture fuorviate riflettono drammi storici, memorie avvelenate, che vanno risanate col coraggio della verità. Il criminale va certamente contrastato e impedito, ma anche incontrato nel suo distorto stato d’animo, correggendo il rapporto rovinato, per ricuperarlo alla comune umanità, con una prospettiva ampia, storica, attenta alle storie di culture e generazioni, e non angustamente securitaria.
- Terrorismo atomico
La forma di terrorismo più vasta e grave è quello atomico, che è terrorismo di stato, fino dal suo uso nel 1945, minacciato lungo tutta la guerra fredda, fino ad oggi: fino all’uso clandestino di armi all’uranio impoverito nelle guerre recenti e in corso, fino alla possibilità attuale di mini-atomiche usabili anche da singoli, nelle «guerre privatizzate o individualizzate» 56 .
Come difendersi? Quale tecnica nonviolenta vale contro un attacco nucleare? Non c’è difesa. La tecnologia si arrabatta ad inventarne, ma eleva solo
il livello di pericolo e moltiplica i danni e le conseguenze imprevedibili. Così, non c’è difesa dall’arma assoluta, quale è l’uso mortale del proprio corpo-bomba da parte dell’attentatore sui-omicida, che annulla la minaccia di morte oppostagli dall’avversario trasformandola in strumento proprio. Solo la politica saggia, capace di prevenire la guerra con atti di pace e di giustizia preventiva, ha possibilità di fermare prima dell’uso la bomba nucleare e il corpo-bomba. Solo una legge internazionale uguale per tutti, che impegna tutti contro la proliferazione nucleare ed anzi obbliga alla riduzione continua di tali armi, fino alla eliminazione, da parte di tutti, e non imposta solo ad alcuni, può dare qualche garanzia. Nessuna garanzia è assoluta, perché malvagità e follia sono ineliminabili dall’umanità, ma la maggiore probabilità di sicurezza sta nel non eccitare quelle patologie con l’istituire dominio e iniquità, che sono la prima radicale violenza strutturale, più profonda e continua della stessa violenza fisica. Se poi a strutture ingiuste si accompagna la forma ancora più profonda e grave di violenza, che è la violenza culturale, la quale rispetta, giustifica, onora e, quando occorre, occulta le violenze strutturali e dirette, allora il male è della massima gravità. Il fatto è che sono violente appunto le culture, tante culture, anche vantate come civili e con forme democratiche. Non dimentico quelle parole di Raimon Panikkar: «Il compito della filosofia nel momento attuale è tanto semplice da enunciare quanto difficile da realizzare: consisterebbe, a mio parere, nel disarmare la ragione armata» 57 .
- Rigenerazione della politica
Così il discorso necessario e concreto sulle tecniche ci conduce ancora una volta a ciò che include e dà senso al lavoro sulle tecniche, cioè la purificazione incessante della prassi 58 . «Il metodo gandhiano non va inteso come un insieme di regole per prendere più subdolamente e astutamente il potere nel contrasto con chi si oppone a noi, e neppure soltanto alla stregua di una metodologia di risoluzione razionale dei conflitti. Il metodo di Gandhi va visto invece come un autentico cammino di guarigione dell’anima. Guarigione che riguarda sia chi fa la scelta della nonviolenza, sia quanti ne sono provocati mentre si oppongono al nonviolento, sia il tessuto della società nel suo complesso» 59 .
Lo stesso concetto di difesa, così spesso abusato nella storia, tanto da chiamare difesa l’offesa – come fece Hitler nello scatenare la seconda guerra mondiale, e non lui solo – aggiungendo la menzogna alla violenza, in Gandhi è purificato e rettificato. La nonviolenza è difesa della dignità umana, non sempre della proprietà e di altri beni materiali, sebbene anche per questi sia baluardo migliore delle armi; non è di alcun aiuto nel difendere guadagni illeciti e azioni immorali. La difesa della dignità umana è efficace se vale indissolubilmente per la vittima e per l’aggressore 60 . «Il metodo della nonviolenza rappresenta la via della rigenerazione della prassi politica appunto perché la ricolloca sul suo terreno vitale di unificazione, di alimentazione e di purificazione» 61 .
La nonviolenza è un’esigenza filosofica, esistenziale, politica. Anche se ne cerchiamo e ne impariamo le tecniche concrete, resta sempre una ricerca, mai una ricetta preconfezionata. Va vista dunque né come uno strumento impugnabile, né come un sogno sfuggente. Essa è un cammino, una dinamica: non è una caratteristica della politica attuale, ma è una storia realmente cominciata, avviata. Essa comincia a rispondere davvero, e rimane al tempo stesso la domanda buona, anche di fronte all’esigenza critica o scettica. Mi pare che dica bene Muller: «La riflessione filosofica non ci autorizza ad affermare che la nonviolenza sia la risposta che offre in tutte le circostanze i mezzi tecnici per affrontare le realtà politiche, ma ci porta ad affermare che la nonviolenza è la domanda che, di fronte alle realtà politiche, ci permette in tutte le circostanze di cercare la migliore risposta. Se, immediatamente, volessimo considerare la nonviolenza come la risposta buona, noi non vedremmo altro che le difficoltà a metterla in atto e rischieremmo di convincerci rapidamente che esse sono insormontabili. Invece, se noi consideriamo la nonviolenza come la domanda buona, potremo allora guardarla come una sfida da raccogliere e applicarci a cercare la migliore risposta che possa esserle data. Fino ad oggi gli uomini generalmente non si sono posti la (buona) domanda della nonviolenza e hanno accettato subito la (cattiva) risposta offerta dalla violenza. Affermare che la nonviolenza è sempre la buona domanda ci deve far evitare di credere troppo in fretta che la violenza sia la buona risposta. Infatti, se è vero che la domanda buona non ci dà immediatamente la risposta buona, essa orienta la nostra ricerca nella direzione in cui abbiamo le maggiori probabilità di trovarla. E questo è già decisivo. Poiché il fatto di porre la buona domanda è una condizione necessaria, benché non sufficiente, per trovare la buona risposta» 62 .
- Quando la politica non comprende
La strana concretezza della nonviolenza, tale che sempre sfugge alla riduzione a tecnicismo e sempre rimanda alla ricerca morale e alla lettura intelligente del reale, cioè il suo carattere di ideale concreto, rappresenta per l’Occidente, secondo Antonino Drago, una difficoltà a comprenderla: «La nonviolenza non è stata una ideologia (che a freddo darebbe una risposta intellettuale, come in Occidente si pretende che debba darci un ideale); più che a contrapporsi (con le idee) è stata rivolta soprattutto ad una prassi di ricostruzione, qui e ora. È stato facile allora squalificarla come una “non teoria” politica» 63 .
Conclude Drago su questo punto: «La nonviolenza sa fare politica, l’ha fatta (come ha dimostrato in molti casi, da quello di Gandhi al 1989) e la fa. […] Ma, facendo politica dal basso, subisce tutto il peso delle tradizionali strutture di dominio occidentale, anche quelle intellettuali e quelle istituzionali religiose. La politica occidentale ancora non sa vedere la nonviolenza in maniera adeguata: in prima battuta, la schiaccia su giudizi affrettati, che ripetono schemi mentali tradizionali, schemi che non si vorrebbero mettere in discussione, perché, nonostante tutti gli sconvolgimenti degli ultimi decenni, tuttora le tradizionali istituzioni occidentali (economia, forze armate, scienza, ecc.) riescono a sopravvivere in posizioni di dominio; quindi la vita politica occidentale si stringe attorno ad esse, relegando le novità storiche a delle idealità tipiche del movimentismo volontaristico. Ma questa è una risposta di corto respiro ad una novità politica che ha già fatto storia» 64 .
E ancora da questo autore amo raccogliere una nuova sottolineatura del limite entro il quale possiamo parlare propriamente di tecniche nonviolente. Egli osserva che queste tecniche cominciano ad essere studiate in alcune Università e molti nonviolenti ne sono soddisfatti come di un riconoscimento della nonviolenza politica. «In realtà tutto ciò non rende giustizia alla nonviolenza. Sia perché nell’Università la sua teoria non è stata ancora collocata tra le altre teorie politiche. Ma soprattutto perché il trattare la nonviolenza solo sociologicamente, come insieme di tecniche sociali oggettive, fa guardare solo dall’esterno le azioni nonviolente, che invece sono essenzialmente creative; quindi non fa partecipare al contesto personale e antropologico della tecnica descritta» 65 .
- Conclusione
Si sa: quel che non si cerca, che non si desidera, non lo si vede. Si ignora e si nega ciò che non si vuole cercare e conoscere. Sulla base delle motivazioni, delle esperienze e delle tecniche operative qui sommariamente richiamate, e non con invenzioni a tavolino, è possibile proporre non ricette magiche, certo, ma ricerche fondate nella realtà per predisporre mezzi di difesa, forme di rivendicazioni di diritti umani, in lotte giuste, che siano costruttive e non distruttive, che realizzino un vero ripudio della guerra omicida, senza rinunciare alla politica e alle giuste rivendicazioni. La strada è lunga, perché i modelli di difesa, in pressoché tutte le culture politiche attuali, sono modelli militari, di rassegnazione alla guerra, nel migliore dei casi non fatta di propria iniziativa, ma accettata, e comunque sempre predisposta, con altissimi costi sociali e umani. Al quale proposito, è vero ciò che ha detto Teresa Sarti, di Emergency: «Finché la guerra sarà una possibilità della politica la guerra ci sarà».
Per limitarci ora all’Italia, che ha, nel mondo, il più forte ripudio costituzionale della guerra, troviamo stabilito, nella mentalità politica più ancora che nelle leggi 66 , il monopolio militare della difesa, che in realtà la riduce e ne restringe possibilità, efficacia, qualità umana. L'idea che un conflitto acuto, in definitiva, non possa essere risolto che con la forma militare, è quasi generale. Anzi, esponenti maggiori della sinistra, da cui si aspetterebbe un pensiero politico nuovo e disinteressato, nel '99 (guerra della Nato alla Serbia per il Kosovo) dichiararono che saper governare si dimostra anche col saper fare la guerra. Così, il governo di centro-sinistra di allora fece partecipare l’Italia a quella guerra, ingiustificabile e voluta per loschi fini, come sa, al di là delle falsità ufficiali, chiunque ha seguito dall’inizio, attivamente, per tutto il periodo precedente la guerra, il dramma jugoslavo e in particolare kosovaro, e la decennale difesa nonviolenta della popolazione albanese del Kosovo dal dominio serbo, ignorata e abbandonata dalla comunità degli stati, incapace di capirla. Per non dire, naturalmente, della servile e criminale partecipazione del governo di centro-destra alle guerre Usa all’Afghanistan e all’Iraq, guerre chiamate pace.
I movimenti nonviolenti, durante la campagna elettorale del 2006, hanno fatto arrivare in sede politica suggerimenti e indicazioni precise per una evoluzione, attraverso il transarmo (passaggio strutturale dagli armamenti offensivi attuali ad armamenti esclusivamente difensivi), nella direzione della difesa nonviolenta, e della politica di pace nei conflitti nel mondo. Non sappiamo ancora con quale sperabile risultato siano state ricevute queste proposte, ma certo senza una sensibile attenzione. E' la cultura del conflitto che va affrontata e ripensata a fondo, con le risorse migliori che il pensiero contemporaneo e l’esperienza ci offrono.
Ho cercato in questo articolo di rispondere al tema: le tecniche di difesa nonviolenta. Tecniche nonviolente, sì, ma prima l’opzione morale e politica per la nonviolenza come forma più umana. Una intelligenza come quella di Aristotele riteneva naturale la schiavitù, la differenza essenziale tra uomini-persone e uomini-strumenti. Così, nel nostro tempo civile e sviluppato, orgoglioso dei suoi progressi e conquiste, ci sono ancora “intelligenze” politiche - la grande maggioranza dei filosofi, politologi, e operatori della politica - che continuano o ritornano a giudicare inevitabile, nel caso estremo, e dunque praticabile, utile e naturale, la guerra, cioè la morte procurata ad altri, lo stragismo organizzato e studiato, scientifico e industriale, come uno degli strumenti della politica. Brutta cosa, che nessuno di loro ama - figuriamoci! - ma una cosa da fare, per necessità politica. Restare fermi in questa concezione è una “stupidità” - nel senso etimologico: abbacinazione sul fatto e sul passato, senza uno sguardo e un’esigenza intima che lo trascenda – che impedisce di vedere davvero che la politica è l’arte di convivere e non di vivere uccidendo, e che la politica è pace e nonviolenza, oppure non è politica, abusa di questo nome. E non basta una concezione negativa dell’esistenza, che vede morte e distruttività insediate come legge interna all’esistenza e alla sopravvivenza, per giustificare tanta limitatezza di visuale davanti alla storia e al futuro della nostra specie a rischio 67. Non basta, perché legittimare ancora, teoricamente e politicamente, lo strumento dell’omicidio programmato di massa, significa non tanto custodire la propria vita al prezzo drammatico e angosciante dell’uso inevitabile della morte altrui, quanto ormai inchinarsi alla morte, la regina del nulla, la dea negatrice di ciò che è; significa puntare sulla distruzione della specie, e forse della intera vita sul pianeta, per salvare una breve sopravvivenza di qualche potente e della sua fazione, tenuta strettamente prigioniera nell’ignoranza brillante e nell’illusione. Cecità ingiustificabile, ormai criminale. Costoro non sono nascosti in qualche antro brigante
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