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"Il dissenso? Non è mai favorire la destra"

Ingrao: "Un’Italia di pace dava fastidio"

Il popolo di Rifondazione incontra il vecchio leader comunista e Franco Giordano in una sezione romana del Prc. Il segretario di Rifondazione: «Esiste una maggioranza, un programma, ed esiste un presidente del Consiglio: Prodi deve restare al suo posto»
24 febbraio 2007
Fonte: Liberazione venerdì 23 febbraio 2007

Le domande non sembrano da comunità «ferita». Come l’hanno descritta. Le domande parlano di Vicenza, di come dare un seguito a quel corteo, parlano di battaglie sociali. Una addirittura riguarda dettagliatamente la vicenda delle pensioni, un’altra i contratti. Però si intuisce che è una «comunità» nell’occhio del ciclone. Suo malgrado. Tanto che hanno dovuto cambiare il senso della loro assemblea. Ieri, nella sezione di Rifondazione di via Dancalia, a Roma, a due passi da viale Libia, gli iscritti, gli elettori, le persone di questo strano quartiere - un po’ dormitorio un po’ servizi avanzatissimi - avrebbero dovuto fare un’intervista collettiva a Franco Giordano e a Pietro Ingrao. Volevano discutere con l’anziano leader comunista del suo ultimo libro, autobiografico, «Volevo la luna». Ma da quando è stato organizzato l’incontro a ieri, in mezzo c’è stata la crisi di governo. Non provocata, certo, ma aiutata anche dal voto di un senatore del gruppo di Rifondazione. E allora, senza bisogno neanche di discuterne, s’è deciso di cambiare l’ordine del giorno. Trasformandolo in cosa? Massimiliano Smeriglio, segretario della federazione romana, prova a definirlo così: «Come uscire dall’angolo?».
Per farlo, però, prima bisogna capire cos’è successo. E’ allora, forse, non bisogna solo tornare a due giorni fa, a quel «brutto» voto al Senato. Occorre tornare indietro di molti mesi e ripercorrere la storia di questo governo. «Di uno dei governi più avanzati», come l’ha definito Pietro Ingrao.
Una storia fatta di continui attacchi, pressioni. Una storia segnata dai tentativi, a volte scoperti, a volte più subdoli, per tornare indietro. Anche sulla politica estera. Ed eccoci all’altro giorno. Quando D’Alema - sono le parole di Franco Giordano - ha letto «un innovativo discorso di politica estera» a Palazzo Madama. Innovativo, di più: coraggioso. Perché ha sottolineato quanto e come le scelte del governo Prodi siano in totale discontinuità con quelle della precedente maggioranza di destra. Perché il ministro ha rivendicato il ritiro dall’Iraq delle truppe italiane, perché ha rimarcato come la scelta di inviare le truppe di interposizione in Libano sia stata una scelta di «autonomia» sulla scena internazionale. Perché l’Italia ha deciso di tornare ad investire sull’Onu, contro l’unilateralismo americano. Perché anche sull’Afghanistan - paese dove comunque per Rifondazione è in «atto una guerra» -, anche sull’Afghanistan, si diceva, c’erano i segnali di un possibile riscatto della politica. Di una politica che non punta più solo alle armi ma guarda alla conferenza internazionale, quella che l’America di Bush ha finora ha sempre negato. E ancora: un’inversione di rotta anche sulla vicenda di Vicenza. Perchè il ministro degli Esteri aveva aperto un timidissimo spiraglio, quando ha parlato della necessità che il governo ascoltasse, parlasse, si confrontasse con quella città che era scesa in piazza appena cinque giorni prima. Uno spiraglio, piccolo quanto si vuole ma che andava nella direzione sollecitata dalla sinistra: quello di creare uno strumento di comunicazione - «canale di scorrimento» l’ha chiamato il segretario di Rifondazione - fra governo e popolo, fra coalizione e il suo programma. Fra la politica e la società.
Questa era stata in sintesi la relazione di D’Alema. E cosa è accaduto? Qualcosa che forse va al di là dello stesso voto del Senato. «E’ accaduto che ogni volta che la politica torna, o semplicemente prova a tornare in sintonia col bisogno, col sentire delle persone, ecco che questa politica viene bloccata dal Palazzo».
La politica, questa politica, riesce insomma ancora a frenare le spinte che arrivano dal basso. Dietrologia? Pietro Ingrao ha 91 anni, ha attraversato quello che ha sempre chiamato «il secolo terribile», ha passato una vita ad interrogarsi sui modi e sui tempi dei processi di liberazione. Neanche lui ha molti dubbi. Con poca voce, amplificata da due microfoni per farla arrivare fin laggiù, agli ultimi della sala, coperti da un «muro» di persone, Ingrao chiede a tutti di stare «in guardia». Di stare attenti. A lui interessa poco ragionare su questa o quella formula, ai giornalisti che lo incalzano dice di non «essere abilitato» a rispondere sul se e sul come si potrebbe allargare la maggioranza. Lui chiede solo all’assemblea di non sottovalutare quel che sta avvenendo. Chiede all’assemblea di non discutere e appassionarsi solo su un voto istituzionale. Ma su cosa significhi quel voto, che per altro «non l’ha sorpreso».

E per Ingrao, la «sconfitta» al Senato va letta dentro «uno scenario globale». Va letta dentro la battaglia fra chi vuole la «guerra preventiva» e chi vi si oppone. Per lui, insomma, il ruolo che «questo nostro piccolo» paese stava giocando dentro gli equilibri mondiali poteva dar fastidio. A «forze potenti». Un «piccolo paese» che finalmente sceglie, torna a scegliere, il rispetto del dettato costituzionale sul rifiuto della guerra, provoca resistenze. Non usa queste parole ma il senso è questo. Ecco forse perché Prodi è stato costretto alle dimissioni. Per mano di chi? Su questo l’assemblea - stipata fino all’inverosimile - ha pochi dubbi. Massimiliano Smeriglio dice che tecnicamente è stato fatto cadere anche dalla scelta di due senatori. Due personalità quasi simboliche: Andreotti e Pininfarina. Il primo, «antico e non simpatico democristiano che è riuscito a battere l’abile D’Alema», dirà anche Ingrao. Due senatori simboli di atlantismo, simboli di culture reazionarie sul terreno dei diritti civili, delle libertà del lavoro.
Ma certo l’assemblea sa benissimo che un «pezzo» di responsabilità ce l’ha anche un senatore del gruppo di Rifondazione. E qui, davanti a quest’assemblea, c’è Ingrao. Quasi sessant’anni passati a dissentire nelle fila del Pci, altri dieci passati a dissentire da tutti i luoghi comuni della sinistra. E dice parole pesanti: «Ho speso molto per affermare il diritto al dissenso nel partito, nei partiti. Ma qui siamo di fronte a qualcosa di differente». Qui si viene meno ad un mandato, ad un patto stipulato con gli elettori, con un partito, col suo programma. Con dei simboli. «E in questi casi non si può valutare singolarmente», c’è una comunità, un partito a cui rispondere. Ci sono forze sociali che su quel partito hanno investito - chiedendo protezione, «restituzione» - a cui rispondere. Stavolta per Ingrao è diverso. «Perché si è favorito una vittoria - parziale speriamo ma intanto è una vittoria - di Berlusconi. Della peggiore destra possibile».
C’è un giudizio politico, ma c’è anche molto della storia personale di ciascuno in quest’assemblea. Anche nelle parole di Franco Giordano. Lui ricorda quando ingraiano, assieme ad un gruppo dirigente giovane, lavorò a convincere uno per uno gli altri suoi compagni. E ricorda come riuscirono, nella federazione del Pci di Bari, a far diventare maggioranza la mozione - firmata da Ingrao - che si opponeva allo scioglimento del Pci. Ma si domanda: che cosa ha a che vedere il dissenso, tutto questo con chi, oggi, rifiutando tutte le sedi di confronto, ha utilizzato una posizione di privilegio nelle istituzioni per stravolgere le scelte del partito? Per ribaltarle? Quello non è dissenso, dirà ancora il segretario di Rifondazione, ma «un chiuso autismo, autoreferenziale». Certo, il voto di Turigliatto non è stato determinante, il governo sarebbe andato sotto lo stesso. Ma conta poco oggi. Conta che Rifondazione si ritrova di nuovo «sotto botta», conta che è stata incrinata una comunità politica. Conta che tutto si fa più difficile, difficilissimo.
Si fa cosa? Qui Giordano è netto: chiediamo che Prodi continui il suo lavoro. Torni a chiedere la fiducia alla sua maggioranza. Magari allargandola un po’, chiedono i giornalisti appena finita l’assemblea? «Valuteremo. sapendo che per ogni ipotesi deve esistere un rapporto fra coalizione, programma e Unione». Sapendo, insomma, che qualsiasi nuovo ingresso deve essere in «piena sintonia» col programma dell’Unione. Ecco, allora, i primi impegni: impedire che venga snaturato il programma della coalizione vincente alle elezioni. Lo chiede anche Ingrao. Che ne ha per tutti. Rivolgendosi a Citto Maselli, al suo fianco, rimprovera agli intellettuali di non esserci in questi passaggi cruciali. Chiede al partito, «al suo partito», di darsi da fare ancora con più forza, perché l’Italia torni ad essere protagonista di una politica di pace. Ma chiede soprattutto a questa folla di tornare ad incontrarsi. Invitando ancora altra gente, altre persone, «il vicino di casa», l’amico, il fidanzato. Tornare ad incontrarsi fra pochi giorni. Per fare il punto sulla situazione ma soprattutto per provare ad incidere tutti insieme sulle sorti della politica. L’accontentano subito: Giordano, quando ormai sono tutti in piedi attorno all’anziano leader, annuncia che sabato e domenica, il Prc torna in piazza. In cento pizze, in cento città. Per spiegare perché l’Unione deve continuare a governare.

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