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Voci dentro la rete di dolore ereditata dall'apartheid

In «Terra del mio sangue» Antjie Krog rielabora la mole di materiali raccolti seguendo i lavori della Commissione per la verità e la riconciliazione. Memorie che trovano eco nelle opere di altre autrici, da Zoë Wicomb a Sindiwe Magona
20 marzo 2007
Maria Teresa Carbone
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Osservava tempo fa il camerunese Achille Mbembe, docente di scienze politiche a Johannesburg e studioso fra i più importanti in materia di teoria postcoloniale, che in Sudafrica «dalla fine della supremazia bianca nel 1994, i nomi ufficiali dei fiumi, delle montagne, dei borghi e delle metropoli non sono molto cambiati. Ancora oggi si può raggiungere il proprio luogo di lavoro risalendo l’avenue Verwoerd (l’architetto dell’apartheid), mangiare in un ristorante sito lungo il viale John Vorster o andare a messa in una chiesa all’incrocio di due strade intitolate entrambe a qualche lugubre figuro degli anni di ferro del regime razzista».
Invisibilità a caratteri d’oro
In generale, aggiungeva Mbembe, la toponimia sudafricana è tale che ci si potrebbe credere non in Africa, ma in qualche provincia inglese o olandese o tedesca: «La lunga umiliazione dei neri e la loro invisibilità sono ancora scritte a caratteri d’oro su tutto il territorio del paese». Eppure, si affrettava a sottolineare lo studioso, il mantenimento di questi riferimenti di stampo coloniale non significa che il paesaggio simbolico sudafricano non si sia trasformato. Al contrario, «di tutti i paesi del continente il Sudafrica è quello dove ha avuto luogo la riflessione più sistematica fra memoria e oblio… L’idea di fondo qui non è distruggere necessariamente i monumenti la cui funzione un tempo era quella di sminuire il senso di umanità degli altri, ma di assumere il passato come una base per creare un futuro diverso».
Che questo sia stato (e sia) un lavoro immenso, complicato e sofferto, da sottrarre a qualsiasi prospettiva banalmente agiografica, lo dimostra oggi un libro di straordinaria densità ed efficacia stilistica, che ripercorre da vicino i due anni e mezzo di attività, fra il dicembre ’95 e l’estate del ’98, della Commissione per la verità e la riconciliazione istituita da Nelson Mandela e presieduta da Desmond Tutu.
Un’epica contemporanea
Rielaborazione dell’enorme mole di materiali raccolti dalla sua autrice, Antjie Krog, incaricata in quel periodo di seguire quotidianamente il lavoro della Commissione per conto di una radio sudafricana, Terra del mio sangue (in originale Country of My Skull, uscito da Nutrimenti nella traduzione di Marina Rullo e per la cura di Maria Antonietta Saracino, pp. 525, euro 18) è un documento la cui lettura andrebbe suggerita a tutti quelli che a distanza di decenni rivangano episodi lontani per rivendicare il primato – o addirittura l’unicità – della «loro» storia. Ma è anche, al tempo stesso, la versione in chiave contemporanea degli antichi poemi epici, un’opera all’apparenza spoglia e fattuale, dove tuttavia le testimonianze dei perseguitati e dei persecutori, i dialoghi degli osservatori, i commenti e le riflessioni dell’autrice si susseguono, si intrecciano e si ripetono come tante voci di un unico canto fino a comporre il quadro di un paese lacerato e al tempo stesso deciso a evitare tanto la tragedia di un nuovo scontro frontale, quanto i rischi di una subdola rimozione.
Fu del resto come poetessa che Antjie Krog, di origine afrikaner (bianca, dunque), divenne famosa nel suo paese ancora giovanissima, nel 1970 – quando il regime dell’apartheid era al culmine – scrivendo dei versi in cui il suo amore per il Sudafrica si univa alla protesta per la discriminazione nei confronti dei neri. Di queste sue origini, della sua appartenenza critica e insieme appassionata alla cultura un tempo dominante, così come del dolore anche fisico che il confronto con le testimonianze dell’apartheid le ha inflitto, la scrittrice non fa mistero nel libro: «Settimana dopo settimana; voce dopo voce; racconto dopo racconto. È come guidare in una notte di pioggia dietro un camion enorme. Immagini di devastazione che gettano scrosci di pioggia sul parabrezza. Non puoi sorpassare perché non vedi niente e non puoi rallentare o fermarti perché non arriveresti mai. Non è tanto la morte e i nomi delle vittime, ma la rete di dolore infinito che li avvolge». Commenta nella postfazione Maria Antonietta Saracino: «Tra corpo e racconto il legame è profondo. Il narrare può lenire le ferite del corpo, può dare il sollievo di un dolore condiviso. La guarigione sta nel dire. Non così per chi ascolta, per chi quel dolore è invece chiamato a contenere».
La storia di Tom e Bernard
Tanto più importante, quindi, la trasparenza e l’onestà che sottendono un racconto in cui il rigore morale di fondo impedisce qualsiasi manicheismo (ci sono le vittime e i carnefici, ma non ci si nasconde che il male, e il bene, possono albergare dalla parte «sbagliata») e non teme di sottoporre a uno scrutinio impietoso perfino quella idea di «riconciliazione» su cui si incardina oggi il lavoro politico e sociale del paese. Ne è un esempio la storiella (quasi un apologo) che affiora a metà circa delle cinquecento pagine di Terra del mio sangue e che è ironicamente rappresentativa delle contraddizioni del Sudafrica contemporaneo: «C’erano una volta due bambini, Tom e Bernard. Tom abitava proprio di fronte a Bernard. Un giorno Tom rubò la bicicletta di Bernard e ogni giorno Bernard vedeva Tom che andava a scuola con la sua bici. Dopo un anno, Tom andò da Bernard, gli tese la mano e disse: "Riconciliamoci e mettiamo da parte il passato". Bernard guardò la mano di Tom: "E la bicicletta?". "No – disse Tom – non sto parlando della bicicletta, sto parlando di riconciliazione"».
Nell’epilogo è del resto la stessa Krog a tracciare un bilancio disincantato del lavoro della Commissione. Positivo per quanto riguarda il «tentativo di offrire una tribuna alle vittime e riequilibrare in qualche modo l’ideale politico di amnistia», questo bilancio si risolve in un fallimento rispetto alla fine delle violazioni dei diritti umani: «La nazione è assediata a tal punto dalla criminalità che è alla disperata ricerca dei modi per punire i colpevoli». Ma soprattutto, è intorno al concetto di riconciliazione che emergono i dubbi: «Le ricerche dimostrano che la gente è più divisa di prima... I neri stanno ridefinendo se stessi con il rinascimento africano, gli afrikaner con la guerra anglo-boera». Eppure, nonostante questa frattura, l’idea della riconciliazione è penetrata nel paese «come una delle abilità più elementari per sopravvivere al conflitto», perché «la riconciliazione non è solo un processo, è un ciclo che si ripete più volte».
Riflessi condizionati
Sull’autostrada, il bel racconto di Zoë Wicomb che chiude l’antologia di autrici sudafricane Il vestito di velluto rosso (Edizioni Gorée, traduzione e cura di Maria Paola Guarducci, pp. 182, euro 15), conferma questa immagine di un paese dove l’esigenza di trovare nuovi punti di equilibrio fra bianchi e neri convive con la difficoltà, da una parte e dall’altra, di sottrarsi alle antiche logiche di potere e di sfruttamento. Di ritorno da una degustazione di vini, tipico rito della borghesia bianca e benestante, una coppia si ritrova bloccata nella notte lungo una strada deserta. Quando dall’oscurità emerge un ragazzo nero, la donna è rapida nell’impugnare la pistola. Ma il giovane è lì per aiutarli, la gomma forata viene sostituita, i due sono pronti a ripartire, mentre Themba li osserva: «Di nuovo il rumore delle loro voci che si fondevano, e la chiave che girava, e la Mercedes che partiva e fu come se da lontano, unendosi ai farfuglii di ringraziamento, lui udisse un suono sottile che arrivava da un luogo sconosciuto dentro di sé e poi le parole scandite, Per favore signore, signora, non avreste per favore qualche rand, poi il movimento concitato nelle tasche, nella borsa, e due paia di mani bianche passarono le banconote – Sì, certo, scusa ragazzo, scusa ci è sfuggito – nelle sue mani protesiche a forma di ciotola».
Sono queste paure, questi sensi di colpa, questi riflessi condizionati incistati come virus all’interno delle strutture profonde, pubbliche e private, del paese durante i lunghi anni dell’apartheid a segnare ancora oggi la vita quotidiana del Sudafrica democratico. In un altro racconto della raccolta, Spia, ambientato proprio sullo sfondo dei lavori della Commissione per la verità e la riconciliazione, Maureen Isaacson contrappone all’io narrante, una giornalista bianca e progressista, uno dei carnefici del regime, determinato ad avvalersi di ogni appiglio, di ogni connivenza vera o apparente, per non perdere il proprio status e i propri privilegi: «Per lui queste udienze rappresentano tutto. È lui quello che chiede libertà e perdono, sebbene sia io a sentirmi colpevole. Mi sono seduta con lui, nella sua macchina. Sono stata ospite della gente le cui riprovevoli azioni sono adesso sotto scrutinio. Eccoli tutti qui. Mi sorridono con complicità. Così, questo significa andare a letto con il nemico».
A nessuno, dunque, è permesso «chiamarsi fuori», fingere che il passaggio a uno stato di normalità sia compiuto, pretendere che il passato sia chiuso. Tanto meno agli scrittori (e alle scrittrici) che in Sudafrica continuano, sia pure sotto forme diverse, ad assumersi quel ruolo di testimoni del proprio tempo che è sempre stato tipico degli autori di tutto il continente.
E se questo è vero perfino per un romanzo a prima vista lontano da qualsiasi tensione politica come Il tempo degli angeli di Patricia Schonstein (Edizioni Pisani, traduzione di Flavia e Costanza Rodotà, pp. 207, euro 14), che all’interno della variegata comunità italiana di Cape Town imbastisce una sorta di favola contemporanea, colorata e carnale, eppure attraversata dall’eco di una tragedia all’apparenza lontana come è quella dell’Olocausto, lo è tanto più per le opere di Sindiwe Magona, da sempre impegnata – nelle sue poesie, nei suoi romanzi (Da madre a madre), nei testi autobiografici (Ai figli dei miei figli) – a scavare nella storia e nel presente del suo paese.
Alla scuola di scrittura
Proprio Sindiwe Magona ha adesso curato un’antologia, Guguletu Blues. Racconti di donne della township (Edizioni Gorée, traduzione di Maria Paola Guarducci e Maria Scaglione, pp. 176, euro 14), che rappresenta un movimento ulteriore di questo impegno. Scritti in lingua xhosa (e l’edizione italiana riporta a fronte anche il testo originale), questi racconti sono infatti il frutto del lavoro di quello che, in tutt’altro contesto, si potrebbe definire come una scuola di scrittura creativa. «Ho messo insieme – spiega infatti Magona nella prefazione – un gruppo di persone che vorrebbero scrivere. Non si paga niente, all’aspirante scrittrice si chiede solo di venire, di partecipare a questa associazione in cui usiamo il xhosa, la nostra ricchezza come popolo, la nostra eredità».
Scrittrici esordienti, quindi, ma spinte da una urgenza di raccontare (e di farlo nella loro lingua madre) che conferisce ai loro testi una eccezionale vitalità, una sincerità priva di qualsiasi affettazione. Come appare evidente, per esempio, dall’incipit di Siamo arrivati in un altro posto di Sindiswa Merile: «La vita non è un gioco da ragazzi; ha alti e bassi. Mai pensare che la vita sia facile. Bisogna lottare».
Gesti essenziali
Vengono in mente le parole che la più celebre scrittrice sudafricana, Nadine Gordimer, scriveva nel 1984 nel suo saggio Il gesto essenziale (non a caso citato anche da Maria Antonietta Saracino a proposito di Terra del mio sangue): «È per il fatto di essere "più che uno scrittore" che molti neri e nere del Sudafrica cominciano a scrivere. Tutti gli ostacoli e i motivi di diffidenza – mancanza di istruzione, di una tradizione di espressione letteraria, perfino la possibilità di assumere l’abitudine quotidiana della lettura, da cui scaturiscono le doti di uno scrittore – vengono rimossi dalla imperiosa necessità di dare espressione a una maggioranza non silenziosa, ma che non ha fruito dell’eloquenza di una parola scritta che testimoniasse le sue iniziative, la sua fierezza e le sue pur notevoli collere contro l’indifferenza».

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