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"Il pacifismo e la politica" Pubblicato su Giano, Pace ambiente problemi globali, n. 55, marzo 2007, pp. 158-164;

Il problema della pace – come quelli della giustizia, della verità, della libertà, dell’ambiente - non è primariamente politico, ma culturale e etico. E’problema di ideali utopici e di programmi concreti, di volontà e di testimonianze di vita.
29 marzo 2007

Il pacifismo e la politica
di Enrico Peyretti

Il problema della pace – come quelli della giustizia, della verità, della libertà, dell’ambiente - non è primariamente politico, ma culturale e etico. E’problema di ideali utopici e di programmi concreti, di volontà e di testimonianze di vita.

Pubblicato su Giano. Pace ambiente problemi globali, Rivista quadrimestrale interdisciplinare, n. 55, marzo 2007, anno XIX, pp. 158-164; via Fregene, 10, 00183 Roma Tel-fax 06/70491513 e-mail: redazionegiano@fastwebnet.it pagina web: http://www.odradek.it/giano

Prendo il discorso alla lontana, per inserire la mia voce tra quelle che nello scorso numero di “Giano” si sono espresse sul tema dei rapporti tra pacifismo e politica.
Ogni governo scontenta. A meno che non blandisca gli egoismi individuali e collettivi. Tentare di “governare” (bene o male che lo si faccia) gli interessi differenti entro un interesse comune (realmente comune o spacciato per tale; bene o male individuato) scontenta sempre alcuni o molti. Ovviamente, ciò non giustifica affatto gli errori di questo o quel governo. Una politica giusta e democratica ha bisogno anche del consenso, ma deve accettare di scontentare qualcuno. Dipende da chi scontenta e per quali motivi.
Anche questo governo di centro-sinistra, che abbiamo votato per disperazione e per speranza (in dosi diverse tra noi), scontenta e delude molti dei suoi elettori. Dico che è uno scontento che è necessario sopportare, ricordandoci di quei determinanti motivi di disperazione datici dalla precedente coalizione berlusconiana, disastrosa e pericolosa: violare le regole è male, togliere le regole è peggio.
Non mi soffermo sugli aspetti deludenti del governo attuale: la guerra in Afghanistan, le spese militari crescenti, la delicatezza verso i privilegi economici, l’insufficiente sostegno a scuola e ricerca, la poca comunicazione con la società. Criticare la politica è partecipare alla politica. Cercare concessioni e accontentarsene è tradire la politica.
Come critica il governo la nostra società? Quali alternative sa maturare? Questa è la domanda che ci riguarda.

Il movimento pacifista e nonviolento. Mi limito qui al tema della pace, che presumo di conoscere meno male degli altri. Nel composito movimento pacifista e nonviolento, dopo i dissensi più aspri, rimangono differenze tra chi condanna la politica internazionale del governo e chi la critica con responsabile cautela. Nessuno la approva semplicemente.
La quantità crescente di spese militari per armamenti pesanti e troppi, e per mantenere un eccesso di personale professionale nell’esercito; la permanenza sempre meno spiegabile in Afghanistan, per una concezione ancora troppo militare dei conflitti; la sopravvivenza, nella classe politica e di governo, di retorica nazionale e militaresca di fronte a dolori, errori e orrori delle politiche armate; la continuazione della passività italiana davanti alla presenza nucleare illegale e espansiva (base di Vicenza) degli Stati Uniti sul nostro territorio: ecco i motivi di delusione nei tanti cittadini che hanno votato la coalizione di centro-sinistra per avere una più chiara politica di pace. Penso che, d’altra parte, dobbiamo riconoscere al governo tentativi apprezzabili sul piano diplomatico, anche per una conferenza globale sul Medio Oriente, non senza contraddizioni; sostegno ad azioni dell’Onu (come la presenza in Libano, ora diventata più difficile) riduttive dello sciagurato unilateralismo statunitense; contatti per costruire una politica mediterranea di collaborazione pacifica. Ma rimangono i pesanti motivi di critica appena detti.
Oggi credo che dobbiamo, al tempo stesso, disapprovare la politica militare di questo governo, e difendere questo governo. Le alternative che si vanno ventilando – non è difficile prevederlo - farebbero una politica peggiore, non solo sul piano militare, ma in tutti gli altri settori. Criticare il governo e appoggiarlo non è contraddizione, ma libera relazione di stimolo. Farlo cadere sarebbe un nuovo peggiore danno per la pace, e per tutta la politica.
Questa posizione ci permette e ci impegna - in corretta competizione culturale e politica con le diverse componenti della coalizione, in collaborazione con le sue componenti più sensibili al pensiero della pace - ad esigere dal governo dei passi avanti più significativi in una politica internazionale che riduca progressivamente e continuamente lo strumento militare platealmente controproducente e disastroso; che sviluppi la cooperazione sociale e culturale tra i popoli, privilegiando i più bisognosi e oppressi; che promuova la mediazione civile, l’intervento nonviolento a prevenire i conflitti, e l’azione internazionale corretta, non imperiale, ma secondo la Carta dell’Onu, a moderarli e placarli; che dissoci l’Italia, almeno nei fatti, dai coinvolgimenti in alleanze bellicose e in istituzioni belliche, come è la Nato dal 1999.
Naturalmente, a parte le loro idee personali, i governanti legittimamente possono chiedersi se l’opinione pubblica li seguirebbe in una più decisa politica di pace. Non mi faccio troppe illusioni. Come nella classe politica, così nella popolazione in generale è carente una positiva cultura di pace, in grado di articolare in passi concreti il bell’obiettivo desiderato. Ci sembra che la popolazione (a parte settori razzisti e bushisti) sia contro la guerra, contro le guerre folli di questi anni (anche, ma non solo, per sana paura), ma che attenda dalla cultura e dalla politica di vedere vie politiche di pace, per sperare che la pace non resti un sogno fuori dalla storia, e un motivo di disperazione storica. Nel suo insieme, la società non ha una cultura di pace più positiva di quella della classe di governo, che non è positiva. Pace negativa è non fare la guerra per primi, pace positiva è cercare e conoscere alternative alla guerra, che permettano di ripudiarla davvero.
Se la politica di governo desse segnali più chiari, e non equivoci, di voler procedere senza esitazioni dal minimo di guerra al massimo possibile di pace, se desse risposte non contraddittorie alla cultura di pace che fermenta nelle coscienze più attente e laboriose, allora farebbe la parte che la politica può fare, nei suoi limiti, per incoraggiare la morale popolare a passare da interessi stretti ed egoisti, monetari, che spesso la infettano (anche e specialmente in chi vive nel benessere), alla sensibilità per le sorti del mondo, per il dolore e l’offesa alla vita della maggioranza dell’umanità depredata, esclusa, colpita.
In questa sensibilità sta la nostra dignità. Il pensiero della pace sente sempre più la propria responsabilità politica, oltre la dichiarazione ideale e morale. Esso chiede, vuole, attende che la politica comprenda e decida con maggiore chiarezza e coerenza che il suo senso e scopo è la pace positiva, cioè la gestione vitale, e mai mortale, mai omicida, dei conflitti umani.

I limiti della politica. Da una mail dell’8 agosto 2006: «Non ce ne importa niente se il governo cade, per noi è la Pace a non dover cadere». A me cadono le braccia. Ma le rialzo subito. Molto raramente, quasi mai, il problema è “sì o no; tutto o niente”. Quasi sempre il problema è “un po’ meglio, un po’ peggio”. Perciò non è indifferente, ma molto importante che non cada un governo, pur difettoso, insoddisfacente, deludente, se c’è rischio di un governo peggiore; ed è altrettanto importante che cada un cattivo governo, però solo se è possibile averne uno migliore in ordine a passi anche parziali verso la pace.
Sono evidenti i limiti della politica, tanto più quando appaiono nella parte che tu hai scelto, dalla quale aspettavi molto, o abbastanza. E tuttavia tanti, specialmente a sinistra, continuano a chiedere alla politica qualcosa che è vicino alla perfezione. Sento molti delusi, sempre più arrabbiati. I comunisti sono tornati al governo, sia pure insieme agli ex-comunisti e ai democristiani più accettabili, ed ecco che il governo ti conferma la guerra in Afghanistan, ti fa un indulto che serve anche ai peggiori tra quelli che abbiamo cacciato. Sento non pochi che vedono e dichiarano il governo Prodi, se non peggiore, uguale al governo Berlusconi. Una mail mi informa che dei dirigenti di PRC e Cobas in provincia di Bergamo dicono e scrivono: «Sarebbe meglio che tornasse il Caimano, almeno con lui avevamo un nemico con cui combattere!». Poi, contestati, dicono che era un paradosso. Ma è ugualmente grave. Il bisogno di nemico è un pessimo sintomo di atteggiamento tutto negativo e etero-dipendente, incapace di idee e costruttività.
Norberto Bobbio diceva: «Io ritengo che il politico di sinistra deve essere in qualche modo ispirato da ideali, mentre il politico di destra basta che sia ispirato da interessi: ecco la differenza» (dall'intervista Che cos'è la democrazia?, Torino, Fondazione Einaudi, 28 febbraio 1985). Certo, questa è la differenza qualitativa, e non è da perdere di vista, mai, anche quando sfuma e si confonde, anche quando le persone che erano di sinistra hanno più interessi che ideali e diventano di destra.
C’è poi da aggiungere, con Sartori, che la politica ha tre livelli: ideali, idee, opinioni. Per alcuni è fatta solo di opinioni, cioè di consensi da plasmare nelle teste con la forza (pubblicità e tv), di voti da accaparrare in ogni modo per avere potere, a favore dei propri affari. Per altri la politica è fatta di idee, di progetti, più o meno giusti, compresi, condivisi: ed è già meglio. Per altri, infine, è fatta anche di ideali, di scopi con un valore, che certo hanno bisogno, per realizzarsi, di farsi progetti e di trovare consensi.
Ora, la sinistra in genere, e la sua punta avanzata che è la cultura nonviolenta, è composta di idealisti anzitutto. E facciamo benissimo, perché gli ideali sono la parte più carente, scarsa come l'oro, nella politica. Ma la cultura politica nonviolenta ha anche alcune idee: sappiamo articolare l'ideale in poche proposte concrete che abbiamo presentato nel dibattito pre-elettorale all’Unione (senza vero ascolto). E' il consenso che ci manca. Siamo un'ultraminoranza. Perciò, prima di tutto, la nonviolenza deve continuare a fare cultura, educazione, propaganda ideale, esperienze, pur premendo quanto può sulla politica operativa. Fare politica nonviolenta positiva è assolutamente necessario, ma è ancora impossibile. Il divorzio (ripudio, come dice l’art. 11) tra politica e violenza è ancora da fare. Altra cosa è la forza della legge, che non si può identificare con la violenza, nonostante la confusione verbale e concettuale tra forza e violenza, perché l’una è costruttiva, l’altra distruttiva.
La maggioranza della gente non vuole la guerra, né qui né là: costa tanto, ci vanno i nostri ragazzi per il gruzzolo ma ci lasciano la pelle, vedere tutti quei massacri fa star male. Sì, questo è dissenso dalla guerra, ma non è consenso per costruire concretamente la pace, cioè la nonviolenza positiva, intesa come metodo di gestione dei conflitti, come economia di solidarietà, come cultura dei diritti umani e corrispondenti doveri. La nonviolenza diventerebbe una politica se, oltre ad avere ideali, idee, proposte, avesse mezzi per farsi conoscere e ricevere consensi. Ne ha pochissimi, perciò ha pochissimi rappresentanti in Parlamento. La cultura e volontà della quasi totalità della classe politica è ignara, lontana o estranea alla nonviolenza, se non avversa, incredula, e dunque disposta alla guerra come risorsa ultima, non esclusa, non mentalmente superata.
Allora, o i parlamentari nonviolenti obiettano e si dimettono perché non possono attuare l'ideale; oppure, continuando a presentare l'ideale della pace positiva, favoriscono l'aggregazione di voti attorno all'idea di pace negativa, per evitare che prevalga la guerra più attiva; oppure, col negare il loro voto alla mezza pace e mezza guerra, favoriscono gli altri che faranno la maggior guerra.
In democrazia (sistema prezioso e imperfetto) gli ideali passano attraverso i numeri. Il puro testimone dell'ideale non si preoccupa dei numeri, ma solo di dire la verità. Fa benissimo, ma il suo ruolo non è nelle assemblee democratiche, quando sono messe alle strette del calcolo dei voti. In queste assemblee, l'ideale tende a farsi realtà effettiva, perciò deve contare i numeri, e deve scegliere che si realizzi l'idea meno lontana dall'ideale.
La politica è secondaria, non primaria. Certo, produce effetti incisivi, eppure, contro ciò che appare, essa non decide, ma è decisa: la politica è un effetto della società. Specialmente in democrazia, il potere politico, per fame di consenso, esegue ciò che la società vuole. Gli ideali, le scelte di vita personali e private, che si sommano formando l’ethos comune, orientano e determinano la politica. Per quanto possa decidere in autonomia e responsabilità (art. 67 Costituzione: « …senza vincolo di mandato»), per quanto abbia brama di dominio, il personale politico cerca consenso, quindi in definitiva obbedisce alla società. Il metodo va benissimo: la democrazia formale è una conquista preziosa, da non perdere assolutamente, neppure in nome di un bene maggiore, più sicuro, portato da minoranze che si dicono illuminate e migliori. Ma questo impegna enormemente la società, se appena pensiamo che la politica avrà, in definitiva, la stessa qualità umana che noi nella società produciamo e viviamo.
Ora, la tradizione di sinistra crede ancora troppo nella politica, nella presa del potere. La sinistra è nata, nell’età delle rivoluzioni, con l’abbattere il potere ristretto delle monarchie e aristocrazie. Benissimo. Il mito corrispondente era che il potere in mano al popolo sarebbe stato a favore di tutti, quindi giusto e pacifico. Il potere precedente aveva la forza di fare tanto male, dunque il bene a cui il popolo ha diritto si farà togliendo quelle leve dalle mani dei pochi egoisti e ponendole in mano ai rappresentanti di tutti, che le useranno per il bene di tutti. Per questo scopo giusto era legittima anche la violenza, dalla ghigliottina alla guerra rivoluzionaria. Così, il machiavellismo dei poteri monarchici si trasfondeva nelle vene della borghesia e poi del proletariato rivoluzionari, e rispuntava da tutte le parti, dentro le rivoluzioni, fino a farle somigliare ai vecchi regimi.

Il rapporto società-politica. Con il fallimento e la caduta del comunismo sovietico, la sinistra è andata in crisi, ma non è una crisi mortale: può essere anche salutare. Oggi comincia a capire, dalla delusione, che la scorciatoia della violenza non produce giustizia. Ma resta nell’ingenua idea che senza prendere il potere politico non si cambia la società. Ora va cercato per via democratica, certo, ma è sempre il potere pensato come unica via per avvicinare l’ideale. Di fatto, però, la ricerca del potere come mezzo occupa talmente le persone che diventa, in buona parte, esso stesso il fine (dal socialismo al craxismo pragmatico, dal craxismo al berlusconismo, destra individualista e possessiva, votata anche dal proletariato sistemato), e l’ideale sfuma in lontananza, gli interessi particolari acquisiti prevalgono sui diritti universali da realizzare.
Cerco di spiegare quello che mi pare il rapporto società-politica con l’aiuto di Al Gore, nel suo bel film-lezione Una scomoda verità (www.climatecrisis.net). Forse dobbiamo soprattutto fare società "in attesa della politica", senza trascurare la politica. Al Gore dichiara con buono spirito: «Sono l’ex-futuro presidente degli Stati Uniti», e sembra dire che la sconfitta, ben dubbia, subita da Bush nel 2000 gli ha aperto una nuova possibilità, forse maggiore: «Allora ho capito che dovevo perseguire l’obiettivo con molta più forza», cioè più forza della politica. Nell’intervista su “Internazionale” (8 dicembre 2006, pp. 30-34) dice che non è possibile con la politica cambiare la mentalità generale. E nel film: «Il pericolo viene da ciò che crediamo vero e non lo è». Tante false credenze orientano la società che orienta la politica. Riguardo all’ecologia c’è la falsa credenza che le cose si aggiustano, che il problema non è poi così grave. «Su 928 scienziati quanti dissentono sul fatto del riscaldamento globale? Zero! Neppure uno! E quanti nella stampa? Il 50% ! Cioè, parlano per confondere la gente». Gran parte dei media inganna l’opinione pubblica, la quale devia la politica, perché «i politici ignorano quello che non è prioritario per gli elettori». «Gli scienziati devono dire la verità. Vengono contraddetti e tacitati perché dicono una verità scomoda». È scomodo per il potere politico prendere atto che «noi statunitensi siamo i maggiori responsabili di ciò che accade». «Non possiamo sbagliare ancora», avverte Al Gore: «Ci sono altri problemi oltre il terrorismo». Ma «sarà difficile abbandonare comportamenti a cui siamo abituati, che però hanno conseguenze inaccettabili». Per tutte queste ragioni, Bush gli dà pubblicamente del pazzo.
Chiede ancora Al Gore: «La politica deve privilegiare l’economia o l’ambiente? Difficile far capire questo a coloro il cui stipendio dipende dal non capire». Forse «una scossa improvvisa» sveglierebbe la coscienza comune. Infatti, «abbiamo tutto ciò che serve per risolvere questa crisi, meno forse la volontà politica. Ma in democrazia la volontà politica è una risorsa rinnovabile». È possibile riparare il guasto, sostiene Al Gore: con Gandhi, M. L. King, Mandela, si sono trovate buone soluzioni a problemi difficili.
Un’azione come questa di Al Gore sul problema ambientale avrà i suoi limiti, ma può essere indicativa di come si può tentare di agire nella società, alle origini della decisione politica, riguardo a tutti gli altri problemi della convivenza.
Gramsci insegnò ai comunisti che in Russia, società arretrata (grande testa e piccolo corpo), bastava prendere il Palazzo d’inverno per avere il potere, ma nelle società europee più sviluppate nel corpo che nel capo, occorreva conquistare l’egemonia culturale nella società per avere il potere: qui non poteva reggersi il puro dominio senza consenso. Togliatti accettò il metodo democratico. Con il quale, sempre di più nei decenni fino ad oggi, l’ethos reale dalla società si impone sulla politica, che perde potere direttivo, schiacciata tra l’inseguimento della società individualista, permissiva, acquisitiva, e il super-comando dei poteri globali di fatto, incontrollabili.
Aldo Capitini pensò e propose un’altra idea del potere: che resti «di tutti» (onnicrazia) e impegni tutti a gestirlo senza consegnarlo nella delega, e a finalizzarlo al togliere violenza e sviluppare liberazione. Era la riproposta dell’etica umana come anima e sostanza della politica. Anche la chiesa non ha cessato di predicare questo, ma, presentandosi come una forza sociale (parliamo dell’Italia), ha troppo legato i suoi ideali ai suoi interessi e posizioni sociali. Quando ha potuto comparire disinteressata, la morale (cattolica o laica) ha dato qualità umana alla politica.
La sinistra tradizionale, per i suoi presupposti culturali, ha diffidato della morale, che le appariva sovrastruttura rispetto alle leggi strutturali dell’economia e, pur avendo un suo rigore anche molto esigente, ha confidato nella forza del potere, ora democratico, come decisiva per cambiare la qualità umana. Oggi si trova molto spiazzata: in nome della libertà asseconda e assimila la morale individualista (da qualcuno definita «libertà da tutto in vista di niente»), fino ad inquinarsi di neo-liberismo; e, nel debole nome della giustizia, non può fare altro che aggiustamenti secondari interni al feroce sistema della voracità capitalistica dominante, dominio mondiale della competizione violenta sotto il nome abusato di libertà, diritti, democrazia.
Per tutto ciò, crediamo che il problema politico – della pace anzitutto, come sostanza della polis umana; della giustizia; della verità della parola circolante; della libertà solidale; dell’ambiente da custodire perché le generazioni future possano vivere – non sia primariamente politico, ma anzitutto culturale e etico, per poter essere politico. Dunque, problema di ideali coraggiosamente utopici, e di idee-programmi concreti, e soprattutto di volontà e di testimonianze di vita. Solo queste sono credibili e incoraggianti nella scelta dei giusti orientamenti comuni. I governi passano, i criteri per sceglierli e giudicarli contano di più.

19 dicembre 2006

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