Intervista a Wenceslao Galan e Pepe Rovira
Barcellona, 26 marzo 2007
Intervista realizzata dai vendicatori delle umane sofferenze a Wenceslao Galan e Pepe Rovira (Gruppo Spagnolo Dinero Gratis, Collettivo Espai en Blanc).
i vendicatori: Che significa politicizzare la vita?
Wences: La realtà ha rinchiuso ciascuno di noi nei limiti della propria vita. Ci si deve occupare ogni giorno di movimentarla, aggiornarla, mantenersi in contatto con il mondo. È un ricatto massacrante, che assorbe e limita tutto quello che possiamo. Lo chiamiamo “stato di mobilità totale” ed è così che viviamo.
Politicizzare la vita significa sfidare insieme questo ricatto, intrattenere con il mondo e con la vita una relazione che rompa questo limite. Si tratta di sperimentare ciò che possiamo – ciò di cui è capace il mondo, di cui siamo capaci con la nostra vita- senza che l’impotenza o la speranza soffochino in partenza questo evento. Lì dove si trovano vite disposte a condividere questa esperienza, a metterla in pratica, a elaborare che significa “noi possiamo”, lì avviene la politicizzazione.
Politicizzare la vita non è facile. Dobbiamo gestire le paure, sopportare le tensioni –sociali, psichiche, vitali - che quest’incontro provoca, proprio perché non sappiamo quello che possiamo, perché non lo possiamo sapere. Però, messi di fronte alla realtà, dobbiamo decidere se accettiamo come limite che mi vada tutto bene con la mia vita e con le mie cose, o se voler vivere ci spinge insieme verso qualcos’altro, ci richiede altro, ci impone, alla fine, di politicizzare la vita.
V: Leggendo “vita e politica” sembra che un altro mondo non sia possibile, e che non ci resta altro da fare se non “far buchi nella realtà”... ma che significa “fare buchi nella realtà”?
W: Le vite politicizzate sono vite che s’interrompono da sole, che si disinteressano di se stesse, che sospendono il principio di mobilità totale che condiziona l’accesso al mondo. Proprio per questo irrompono nella realtà come un buco, uno spazio che interferisce nella sua logica, che erode il senso comune capitalista imposto ad ognuno di noi.
L’esperienza di ciò che noi possiamo non spera niente, non è un processo diretto verso delle mete rispetto alle quali possa essere giudicato. Al contrario, annullare il discorso della speranza è ciò che ci permette di aprire questo spazio e sostenerci in lui. In questo senso ipotizziamo che la realtà non ha un fuori, non ci sono uscite, o segnali che conducano fuori, verso la possibilità di un altro mondo. Una cosa del genere non possiamo concepirla né ce la immaginiamo. Questo è quello che c’è: il capitalismo è tutt’uno con la realtà.
Pertanto, il noi che si condivide politicizzando la vita non è un soggetto che si rivolge alla società con un progetto alternativo: democraticizzare la democrazia, socialismo nel XXI secolo ecc. Tutto questo va bene, ma si colloca su un altro piano.
Far buchi nella realtà dunque significa sostenerci nel vuoto, lottare nel vuoto, strappare a noi stessi quest’evento, perché è lì che ci spinge il nostro voler vivere. Non possiamo cambiare il mondo però la nostra relazione con il mondo sì. Soltanto che per fare ciò bisogna vincere di volta in volta tutto quello che dentro una persona spinge, dall’altro lato, a scendere a patti con la realtà, a cedere al ricatto, a tappare il buco. Voler vivere è ambiguo: ti spinge e ti frena, ti dà le forze per condividere l’esperienza del noi però t’induce a mettere in salvo la tua vita. Ecco perché aprire un buco vuol dire resistere al senso comune. Ma ricordiamoci della massima: resistere senza sperare niente. Qui non c’è una politica di risultati.
V: Se la vita “non può essere che sia solo questo”, e se un’altra cosa non è possibile, che cosa può essere allora?
W: Rispondere a questo ci costringe a parlare “filosoficamente”, vediamo se possiamo farlo con chiarezza. Anzitutto questo implica uno spostamento categoriale decisivo. Come ha esposto brillantemente una compagna di Espai en Blanc, il discorso sul possibile è una prigione. Viviamo in un mondo dove tutto è o è diventato possibile, in una realtà senza limiti, tanto che qualsiasi possibilità non fa altro che confermare e conformare quello che c’è, il finale senza fine nel quale ci siamo incastrati.
E quando parliamo di possibilità ci riferiamo tanto alle potenzialità di un soggetto –quello che potremmo essere, quello che la società darebbe di sè – come alla virtualità di un altro mondo – quello che potrebbe succedere - non ci serve la dialettica e nemmeno il discorso sulla differenza. La realtà stessa lo ha neutralizzato.
Quindi la politicizzazione non si effettua in relazione a quello che “può essere”, o a quello che “diventerà”, né come sviluppo di una potenza né come realizzazione di una possibilità inedita. Ma allora cos’è che la sostiene? Che tipo di forza è forza che lotta nel vuoto? È qui che si richiede la rimozione categorica e si avverte che ciò che ci conduce a politicizzare la vita, ciò che apre il buco e sostiene l’esperienza di ciò che “possiamo” è il Voler Vivere.
Non significa che il volver vivere annulli il riferimento a ciò che siamo, a ciò che può essere, insomma che non abbia un senso della possibilità. Avviene piuttosto che la sua relazione con la vita e la politica, cioè, la sua relazione con se stesso, apre un gioco proprio –un dinamismo, una struttra, un campo di categorie specifico – nel quale quel riferimento si gestisce in un altro modo. Non stiamo su ciò che può essere: ci esponiamo al voler vivere. Quello che importa non è la possibilità ma se vogliamo vivere fino al punto che proprio questo sia quello che vogliamo e che viviamo. In questo caso, ripetiamo, il possibile e l’impossibile, ciò che è e ciò che non è, non hanno più un’importanza decisiva. Sconvolge, ma questo è il gioco.
V: Qual è la dimensione politica di quello che voi chiamate “uomo anonimo”? Qual è la dimensione politica dell’anonimato?
W: La forza e la dimensione politica dell’anonimato è proprio questa: non cerca riconoscimento, non ha bisogno di gestire nessuna identità o differenza, non si chiede chi è. Al contrario, rifiuta espressamente questa logica. Quando andiamo per le strade con il No alla Guerra, quando ci riuniamo per cacciare un governo criminale e schifoso, quando dopo un attentato elaboriamo in qualità di “danneggiati” il significato del vivere, quando mettiamo in ridicolo i progetti istituzionali e il modello di città-marca, quando torniamo a riunirci, questa volta perché “non avremo una casa in questa cazzo di vita”, o infine, semplicemente quando ci incontriamo da qualche parte per chiarirci in che consiste il malessere sociale, in tutti questi casi stiamo agendo come uomini anonimi.
L’istanza del discorso è la prima persona plurale, secca: noi, noi che siamo qui, noi che sappiamo quello che possiamo ma proprio per questo condividiamo questa esperienza, senza lasciare, ricordiamoci, che l’impotenza e la speranza la soffochino.
Ovvio che il potere e la realtà come due bravi poliziotti - esterni ed interni - procedono alla nostra identificazione: chi siamo, pacifisti, cittadini con diritti, democratici radicali, oppositori del sistema eccentrici, ecc. Ma questo processo ci è estraneo, resta annullato in partenza, e per questo possiamo condividere questo spazio. Se ci fanno fretta possiamo rispondere che non siamo nessuno, che siamo i nessuno – qualcosa di simile ai “subalterni”: i senza voce e i senza parola – ma perfino questa definizione, nonostante sia solo al negativo, distorce la nostra esperienza. Ancora una volta, questo è buono, ha il suo contesto e la sua forza, ma si colloca da un’altra parte.
A proposito di questo concetto, l’uomo anonimo non è nemmeno la “folla” perché la folla non può usare , e non lo fa, la prima persona plurale, esporsi a se stessa come tale, sottoscrivere il suo manifesto, dire “noi siamo qui...”. Ma l’uomo anonimo lo può fare. La sua relazione con se stesso come istanza del discorso sotto quest’aspetto è analoga a quella del proletariato, vero autore del manifesto come espressione politica moderna. In entrambi i casi il motore della forza è l’anonimato. Parliamo per noi e a noi. E questo vale anche per questa intervista.
V: Che intendete per politica notturna?
W: Citerò, più o meno a memoria, Mar Traful: “una politica notturna si deve fare contro la miseria di una realtà che ci soffoca di giorno in giorno; da un noi zoppicante, fatto nel cammino; per interrompere la grande macchina; per gli interminabili sentieri del suo labirinto; su parole e azioni che si inventano; a seconda della nostra capacità di sperimentare, pensare, vivere, resistere, godere... sapendo che oggi siamo pochi e domani forse di meno. O di più.
V: È possibile condurre una “vita politica” nel momento in cui, come voi scrivete, “le esperienze (lavorative, affettive, di qualsiasi vincolo sociale) si privatizzano e particolarizzano?
W:Anche qui dobbiamo osservare lo spostamento di una categoria. La privatizzazione dell’esperienza è, in effetti, il punto di partenza: la mia vita, quello che mi succede, i miei. Ognuno facendosi carico del mondo, delle relazioni, di ciò che può essere o non essere. Come risulta mostruoso tutto questo! Che solitudine! Non è strano che la depressione sia la nostra epidemia.
La privatizzazione induce a cercare, come reazione, quello che alla fine non è altro che il suo rovescio: il pubblico, la “pubblicità”. E da qui la cavalleria di Habermas, Hanna Arendt, la polis, ecc. La questione quindi è avere una vita pubblica, farsi cittadino, rispettare le differenze, procurare forme di consenso... tra l’isolarti come un riccio o l’affondare in questa paludosa retorica meglio la prima. Almeno ti tieni la tua rabbia e questo ti mantiene vivo, quando non ti deprime.
Però ancora una volta la vita che si politicizza, scardina questa dicotomia. Noi non è un’istanza pubblica né privata. Condividendo l’esperienza del possiamo, affermando così il nostro voler vivere, apriamo un altro tipo di vincolo, un altro campo di categorie.
Non si tratta di io “e” gli altri, o di noi “e” loro. L’importante non è la congiunzione né il modo in cui questa si elabori: razzionalizzandola mediante il dialogo, assumendola dialetticamente, ecc.
Chiaro che la mia vita e ciò che è mio stanno là, non li nascondo né li sublimo, come nemmeno riduco la presenza dell’altro come tale, il rispetto che mi stimola perché è un altro, le emozioni che mi provoca la sua presenza. Ma la cosa decisiva è lo spazio che condividiamo come “noi”, senza identità aggiunta, senza riconoscimenti, senza privacy né pubblicità.
Quello che in me vuole vivere già è qualcosa di condiviso, qualcosa che vuole e vive se stesso in prima persona plurale, e proprio per questo lo condivido, lo condividiamo in questo modo. Sfumando la parola potremmo gestirlo come una forma d’intimità – esattamente la sua forma politica - o d’interiorità comune, situata per così dire nella pelle.
Dalla pelle abbiamo risposto a queste domande. Non per sottometterci al giudizio pubblico o privato di chi ci legga, ma per chiarirci, che cos’è tutto questo in cui ci troviamo e come possiamo farlo funzionare – perché non sappiamo quello che possiamo, e non possiamo saperlo.
V: Da cosa nasce il “taxista ful”?
Pepe: Da “disconformità”, malessere, ricerche e incontri. Potremmo dire che nasce dalla casualità, intendendo che la casualità è una necessità che si incontra con una possibilità. Degli okupas, un collettivo politico, che agiscono e riflettono su come fare politica oggi, incontrano qualcuno (il regista) pazzo come il tassista, anticonformista come gli okupas, perso nella notte come il collettivo, come tutti, però con tanta voglia di cercare, di trovarsi, di sperimentare como tutti loro. Da qui credo nasca il taxista ful.
V: Che cosa lo rende diverso dal cinema politico tradizionale?
P: Quello che penso è che proviene dalla pelle. Non abbiamo fatto un film, è qualcosa che ci è successo, non mi riferisco solo al realismo di quello che avviene nel film.
A me piace chiamarlo “cinema realtà” ma non saprei se è il termine giusto né se sia diverso dal cinema politico tradizionale.
V: Il tassista ruba un taxi per lavorare, e si trasforma in un ladro e in un pazzo... disperato, incontra un gruppo di ragazzi che occupano spazi nella città per “disoccupare l’ordine” e “fare buchi nella realtà”... considerando che fare buchi in questa realtà è come svuotare il mare con un cucchiaio, chi è più pazzo, il tassista o gli okupas?
P: È più pazzo il tassista perché la sua pazzia parte dal senso comune , e soprattutto è più amareggiato, più triste e più solo. Se non avesse incontrato chi vuole svuotare il mare con un cucchiaio, forse avrebbe concluso i suoi giorni in un qualsiasi angolo sperduto della città.
V: Perché avete scelto il cinema per raccontarvi e raccontare la precarietà?
P: Noi non abbiamo scelto, abbiamo approfittato dell’opportunità, abbiamo accettato la sfida, perché non dire attraverso il cinema quello che già dicevamo in riviste e volantini? Adesso siamo contenti di averlo fatto.
Per informazioni sull'iniziativa Vita e Politica del 13-14 aprile, vai alla sezione "Calendario".
Grazie a Diana Cortese per la traduzione dallo spagnolo.
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