I fucili ad acqua dei Tinariwen
Incontro con il leader della band che sta stregando il mondo con la sua musica
«Voi non avete mai patito per l'acqua, ma vi assicuro che è più importante del petrolio, del caffè, del computer, persino del grano... Presto emergerà la verità e sarà uno choc che porterà molta sofferenza. I Tuareg lo sanno, da sempre convivono con la precarietà dell'acqua».
Faccia da simpatico mascalzone berbero, due baffi neri appesi a un cespuglio di ricci incolti, Ibrahim Ag Alhabib è la voce e la prima chitarra, il poeta e l'ideologo dei Tinariwen. Di questi tempi sovrappone il richiamo alle guerre che verranno senza una gestione saggia delle risorse idriche, alla promozione del nuovo album. Il titolo, Aman Iman (Ponderosa) in lingua tamashek vuol dire appunto «l'acqua è vita». «Ne siamo contenti - racconta - perché è in equilibrio tra il vero suono del deserto e la grandeur di una buona produzione internazionale». Merito dunque anche di Justin Adams, già collaboratore di Robert Plant e Jah Wobble. Da chitarrista, ha ragione nel dirsi fulminato da uno stile che ha tante risonanze ma nessun vero contatto con questo o quello, dal blues in giù. Ma tutti questi rocker consumati che ronzano intorno al suono dei Tinariwen - all'ultimo Montreux si è fatto sotto anche Santana - sembrano lottare più che altro contro la desertificazione della loro ispirazione. Ibrahim non la vede così: «Personalmente trovo che la condivisione musicale sia un piacere e una necessità. Solo così un musicista cresce, impara, apre le orecchie. Suonare con Santana e Robert Plant per me è stato un enorme piacere. Non conosco le loro motivazioni, ma penso che siano semplici come le mie: il piacere dell'incontro, tutto qui. Questo poi manda un messaggio forte ai nostri amici nel deserto: la musica dei Tinariwen è amata e rispettata ovunque». Già, anche in Italia: ora i Tinariwen passano su Radio1Rai e a Torino, dove faranno tappa il 12 aprile, per andare incontro alla domanda del pubblico il concerto è stato spostato in un luogo più capiente.
Nati come punto di riferimento per la cultura e le rivendicazioni politiche dei Tuareg stanziati nel nord del Mali, da un paio d'anni i Tinariwen sono una delle band africane più visibili e ascoltate nel mondo. Grazie alla disinvoltura con cui indossano le fender sulle djellaba e al loro «tiro» sonoro, una mistura elettrica di poesia orale e canzone d'autore che sa di blues irriducibile, di sabbia e di rabbia. Energia spavalda ma controllata, un modo di toccare le corde agli antipodi rispetto ai deliri di onnipotenza del rock, con una trazione ritmica che nel tempo medio ama viaggiare sulle piste che si innervano verso nord, mentre sui tempi pigri guarda a sud, alle ballate rese celebri da Ali Farka Toure, che non è nato troppo lontano da qui. Ma grazie anche al mercato, che unisce nella lotta le fabbriche brianzole e l'industria del rock, perché per soddisfare l'incessante richiesta di ribelli con la chitarra al collo ora si ricorre alla manodopera africana. Se poi ci sono di mezzo i Tuareg, il gioco si fa esotico. Il mito dell'«uomo blu» che poi sarebbe indaco, con l'inseparabile cammello che sarebbe un dromedario, resiste anche nell'era dei jeans cinesi e dei potenti quatre-quatre mangia-dune. Una visione aggiornata ora con la suggestione forte del musicista-guerrigliero armato di chitarra e kalashnikov. «La verità - sbotta Ibrahim - è che ci sono sempre state fantasie intorno ai Tuareg, fin dalle prime relazioni con l'Europa. Prima c'era il guerriero barbaro, poi è arrivato il nobile uomo del deserto sul suo cammello, infine la la chitarra e del kalashikov. Accade lo stesso all'italiano: spaghetti, pizza, opera, quel modo di gesticolare e di parlare ad alta voce. Sono dei cliché resistenti perché la gente non ha il tempo né la curiosità per conoscere la realtà». Ma noi mangiamo sempre spaghetti mentre i Tuareg hanno deposto le armi da un pezzo. «Sì, la guerra è durata due o tre anni, i Tinariwen esistono da 25. La vera storia va ben oltre il fucile e la chitarra».
Un pezzo importante di questa storia la ripercorrono i brani del nuovo disco: Soixante Trois ricorda i martiri del 1963, data della prima rivolta, a indipendenza ancora fresca. Poi un'unica scia di risentimento fino ai moti dei primi '90. «Nel '63 ho perso mio padre - ricorda il musicista -, nel '92-'93 amici e fratelli. Ora pensiamo solo alla pace». Gli accordi sono stati firmati, la pira con le armi dei guerriglieri è arsa nella pubblica piazza. Ma solo lo scorso anno nella città di Kidal è tornata la violenza. «Si voleva scuotere il governo - spiega Ibrahim - affinché si guardasse seriamente ai problemi del nord. È durata solo pochi giorni, poi si è passati velocemente ai negoziati e quindi agli Accordi di Algeri. Se il governo manterrà le sue promesse, credo che potremo costruire un avvenire insieme». Il Mali del resto sta offrendo al mondo il suo lato più seducente: atmosfera democratica, un grande cineasta come ministro della cultura, il Social Forum... «Ma il nord resta sfavorito - dice Ibrahim -, con il più basso tasso d'investimento in pozzi, scuole, ospedali. E il Tuareg non è rispettato nella vita politica: la lotta continua, ma nella cornice di una pace generale. Inshallah». Vogliono abbassare i toni sulla storia della loro «formazione» in un campo libico, i Tinariwen, ma da qui a votare alle elezioni di fine aprile ce ne passa. «Talvolta ho l'impressione che si svolgano in un altro paese, non nel mio - confessa -. I Tuareg non sono rappresentati e la gente non è interessata ai nostri problemi. Non credo che andrò a votare: penso che il nostro futuro verrà deciso in un altro modo, tutto qui».
Scorrono allora le canzoni incendiarie dei primi anni '80 a quelle che cercano di spegnere le fiamme dieci anni dopo. Ci sono i fantasmi delle carestie che hanno colpito e sparpagliato i Tuareg negli anni '70 e '80, ci sono le amarezze melodiche dell'esilio e c'è l'amore incondizionato per la vita nel deserto. Il pensiero va a Essakane, luogo sperduto tra le dune che da qualche anno ospita un festival tuareg molto frequentato anche da stranieri. «Il Festival au Désert ha aperto una regione prima frequentata solo da rari turisti e numerosi militari maliani. Ora le persone possono venire a vedere la realtà delle cose».
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