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Dibattito incendescente

Le Br dentro il Movimento?

Tesi cara soprattutto alla destra, ma che ha fatto breccia un po’ anche a sinistra e che ieri è stata sostenuta persino da un ex terrorista degli anni ’70-‘80, Sergio Segio, in un’intervista a Repubblica
1 novembre 2003
Piero Sansonetti - L'Unità 30-10-2003

Le Brigate Rosse non c’entrano niente con il movimento sindacale. Non c’entrano con Epifani e Cofferati. C’è bisogno di spiegarlo? No, basta la storia della Cgil e dei suoi dirigenti a rendere chiare certe cose. Da una trentina d’anni la Cgil e i suoi dirigenti sono in prima fila contro le Br. Lo avete visto il film di Bellocchio? Avete visto chi riempì le piazze d’Italia dieci minuti dopo il rapimento di Aldo Moro? Il sindacato, la Cgil.
Quello che parlava dal palco di San Giovanni era Luciano Lama, il maestro di Cofferati: non era Berlusconi. Fanno un po’ pena, francamente, dichiarazioni come quelle di tal Brunetta, o di tal Bondi, o dell’ex giornalista Selva. Bondi parla di “terrorismo scioperistico” a proposito della Cgil. È un linguaggio che non si sentiva, forse, dai tempi di Bava Beccaris.
Le Brigate Rosse non c’entrano neanche con il movimento no-global. Per due ragioni. La prima tautologica ma importante: non c’entrano perché non c’entrano. Nel senso che non c’è un solo fatto, una sola coincidenza, un indizio, una ricostruzione, una dichiarazione che permettano questa ipotesi. La seconda ragione è di principio: il movimento no-global ha un’impostazione politica che non solo è diversa ma è completamente opposta all’impostazione delle Brigate Rosse. Le Brigate Rosse casomai assomigliano di più alla politica tradizionale: sono un fenomeno novecentesco, interno a una visione della politica come scontro di potenze, azione di eserciti, esercizio dei rapporti di forza quali fonte del diritto. Il movimento no-global è pacifista ed ha una specie di repulsione per il potere e per la forza. Negli anni in cui nacquero le Brigate Rosse prese piede questo slogan: “Il potere nasce dalla canna del fucile”. È rimasto scritto per dieci anni nell’atrio della facoltà di lettere, a Roma. Slogan che esaltava al tempo stesso il potere e il fucile: due arnesi antichi che sono del tutto fuori dall’orizzonte ideale e politico del movimento.
È importante, se si vuole ragionare su questi temi, partire da qui. Altrimenti si cade in quelle disquisizioni del tutto pretestuose, che cancellano la realtà dei fatti e delle idee, e trasformano le tragedie della vita, e della storia, in oggetti contundenti utili per colpire gli avversari e per seguire disegni politici vantaggiosi (ma solo per qualcuno). Nel dibattito su Br e movimento (a parte Bondi o Brunetta o Selva, che fanno storia a sè) c’è un po’ questa trasformazione. Non è un dibattito pulitissimo. Perché, se si guarda bene, ha una sola via d’uscita: quella di dichiarare pericoloso il conflitto sociale (o sindacale), e quindi di sconsigliarlo, o proibirlo, restituendo alle sedi istituzionali e – al massimo – ai partiti, il diritto esclusivo a praticare e a regolamentare la lotta politica. In parole povere, abolire il movimento, cioè il fenomeno politico più nuovo di questo decennio, e il più influente sugli orientamenti dell’opinione pubblica e anche sui comportamenti del potere.
Per la verità, nella polemica che si è aperta dopo l’arresto di una dozzina di brigatisti accusati di avere partecipato all’uccisione di D’Antona, è emersa soprattutto la seguente posizione: “Non tutto il movimento è coinvolto, ma le sue frange più rissose lo sono. Perché costituiscono il brodo di coltura nel quale la lotta armata prende piede”. Tesi cara soprattutto alla destra, ma che ha fatto breccia un po’ anche a sinistra e che ieri è stata sostenuta persino da un ex terrorista degli anni ’70-‘80, Sergio Segio, in un’intervista a Repubblica. Segio fa anche dei nomi. Dice: “Attenti ai disobbedienti e ai Cobas”. No, i disobbedienti e i Cobas, così come tutte le organizzazioni che negli ultimi quattro o cinque anni hanno fatto parte del movimento no-global, non c’entrano niente con la lotta armata, la condannano, la considerano fuori dalle loro prospettive, e i loro stessi leader hanno in più occasioni espresso giudizi feroci e sprezzanti sulle Br di oggi (“non sono Br e non fanno lotta armata ma commettono semplici omicidi” ha detto Luca Casarini, leader dei disobbedienti; mentre Bernocchi, il leader dei Cobas, ha espresso molti dubbi sul fatto che questi gruppi armati non siano in qualche modo eterodiretti. Cioè guidati da burattinai). Il tentativo di dividere il movimento in buoni e cattivi, pacifisti e amici dei terroristi, è un tentativo non solo disdicevole e inutile (la forza del movimento sta nella sua complessità e nella sua diversità), ma molto pericoloso. Criminalizzare i Cobas e i disobbedienti, indicarli come i mandanti delle Br, vuol dire spingere involontariamente una parte dei ragazzi che li seguono, fuori dagli schemi della lotta politica organizzata e ai margini da tutto. Spingerli verso la disperazione. L’isolamento. La rottura. Verso la tentazione delle armi.
Naturalmente, si dice, per ragionare sull’oggi bisogna ricordarsi di ieri. La storia, la memoria, servono a capire (ma non sempre: se è storia antifascista, per esempio, molti recentemente ci hanno invitato a dimenticarla). È vero. Cosa dice la storia? Dice – si fa osservare – che negli anni settanta Brigate Rosse e altre organizzazioni sovversive (il più grande fenomeno terrorista che mai sia apparso in questo secolo in un paese democratico dell’occidente non occupato da truppe straniere) dilagarono, in Italia, trovando la propria linfa e la propria forza politica in un movimento estremista, e legale, e vasto, che aveva coinvolto una parte consistente della nuova generazione. Rossana Rossanda scrisse che quel terrorismo non era estraneo alla storia della sinistra, e parlò di “album di famiglia”. Perché non dovrebbe succedere la stessa cosa oggi? Perché non dovrebbe funzionare lo stesso “album di famiglia”?
Per vari motivi. Innanzitutto perché c’è una differenza abissale tra il movimento del ’77 e il movimento di oggi. E una differenza ancora più grande tra le Brigate Rosse di quegli anni e i piccoli gruppi di oggi. Lo scontro tra Br e movimento del ’77 fu uno scontro aperto, e il movimento si oppose alla lotta armata: ma non c’è dubbio che la prospettiva della lotta armata nasceva dentro una suggestione rivoluzionaria che era comune a tutto il movimento e che affondava le sue lunghe radici nel ‘68. Oggi la grande suggestione del movimento è il pacifismo e il rifiuto del potere. Questa suggestione non ha niente a che fare col guerrismo brigatista. E del resto anche queste Brigate Rosse, formate da pochi personaggi del tutto sconosciuti, hanno poco a che fare con le Br di allora: i capi delle Br e di Prima Linea erano tutte persone conosciute, negli ambienti di sinistra, erano stati dirigenti di primo piano del sessantotto e di vari gruppi extraparlamentari come Potere Operaio e Lotta Continua. L’unico punto di contatto, purtroppo, tra quelle Br e queste (certo, nient’affatto indifferente) è la comune e demente propensione a uccidere la gente.
Si dice: questo ragionamento vale per alcuni settori del movimento, non per tutto il movimento. Ovvio che la rete Lilliput non c’entra niente con le Br. Ma i disobbedienti che tirano letame sotto casa di Berlusconi? Non c’è il rischio che si inizi col letame e si continui con le bombe?
No, non c’è questo rischio. Ed è molto rischioso invece pensare che ci sia. Sarebbe come dire che i mandanti di quelli che uccidono a coltellate per motivi di traffico sono quella gente, numerosissima, che viola il codice stradale, e gira senza cinture, e magari passa col rosso. È proibito girare senza cinture, ed è proibito passare col rosso, ed è proibito tirare letame: non c’entra niente però con l’assassinio. E quando, in politica, si comincia a dire che chi non la pensa come noi, e usa forme di lotta che non condividiamo, e complica i conflitti e le battaglie sociali, è amico degli assassini, vuol dire che il danno che gli assassini hanno recato al senso comune è già un danno enorme. Come si fa ad evitarlo? Comportandosi contro il terrorismo con grande serietà. E cioè convincendosi che è un nemico da battere, e non un fenomeno da utilizzare per migliorare le proprie posizioni politiche. Berlinguer fece così. Pagò un prezzo e lo fece pagare al suo partito: ma ottenne un grande risultato politico nazionale.

Note: L'intervista a Sergio Segio
http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/cronaca/brigaterosse/segio/segio.html

Risposta di Luca Casarini
http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/cronaca/brigaterosse/cas/cas.html

Risposta di Massimiliano Pilati (Rete Lilliput)
http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/cronaca/brigaterosse/lilliput/lilliput.html

Giuseppe D'Avanzo: il movimento e le doppie verità
http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/cronaca/brigaterosse/movdavanzo/movdavanzo.html

Pacifista collabora con la magistratura e parla del suo compagno delle Br
http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/cronaca/brigaterosse/pacifista/pacifista.html

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