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l'intervento

Un diritto fuori corso che non si può più insegnare

5 luglio 2007
Ugo Mattei (Ordinario di diritto civile, Un.di Torino e prof. di diritto comparato, Un. della California)
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

E' quasi un luogo comune evidenziare il ritirarsi dello stato di fronte alla crescita implacabile dei grandi gruppi economici transnazionali che dominano la scena politica e ne «catturano» la legislazione. Oggi delle prime 100 economie mondiali, meno della metà sono stati, visto che 51 imprese multinazionali hanno fatturati più significativi del Pil di circa centocinquanta stati del mondo.
Per tutta la fase successiva alla Pace di Westphalia (ossia l' intera modernità) il diritto è stato progressivamente visto come un apparato tipicamente statuale, frutto esclusivo di quel monopolio della forza su cui si fonda la sovranità. Si potrebbe immaginare perciò che lo stravolgimento della cultura giuridica prodotto dalla crescita della soggettività politica non statuale tipica delle imprese multinazionali, puntualmente registrato (e talvolta perfino esagerato) da diversi studiosi, portasse con sé un cambiamento altrettanto significativo nel modo in cui la professione giuridica si riproduce al fine di adattare il proprio strumentario di lavoro alle mutate necessità.
I tempi dello stato nazione dotato di assoluta sovranità e capacità di produrre il proprio diritto sono definitivamente tramontati, perché le stesse opzioni politiche aperte alle maggioranze parlamentari sono circoscritte dalla cessione di sovranità alla c.d. «comunità internazionale», che rende alcune opzioni politiche impercorribili, se non forzando le barriere di una sorta di «stato di necessità economica» prodotto dall'influenza irresistibile di quei grandi gruppi economici transnazionali, che sappiamo molto più potenti di molti stati non solo perché più ricchi ma anche perché, tramite il proprio denaro, determinano molte fortune elettorali.
Unione europea e Fondo monetario internazionale limitano così le opzioni di politica economica. Onu e Nato, quelle della politica estera e della difesa. Nel loro insieme questi soggetti giocano un evidente ruolo di produzione normativa diretta e indiretta rendendo difficile sostenere, se non con argomentazioni del tutto formalistiche, che essi non siano veri e propri legislatori.
Forme di soft law
A questi noti esempi di legislazione imposta o eterodiretta in determinati settori (Giuseppe Guarino nel suo recente libro sull' Eurosistema mostra in modo estremamente incisivo le conseguenze politiche dei limiti alla sovranità economica imposta dall'Europa) se ne possono aggiungere molti altri, meno formali ma più sottili e forse anche più pervasivi. Si tratta della costruzione di un «pensiero unico» giuridico, coerente con quello economico e in quanto tale efficiente e desiderabile. La costruzione di tale pensiero unico (fortemente americanizzato) si basa su diverse forme di soft law che affianca sempre più pervasivamente quel soft power (a suo tempo impersonato dall' amabilità personale di Clinton) che è essenziale nell'esercizio dell'egemonia globale, come dimostrano le sfortune del giovane Bush che ha pensato di poterne fare a meno. Per esempio, la partecipazione al famigerato G8, che non è un organismo internazionale, e non è neppure un'istituzione in senso formale, essendo privo di qualsiasi organizzazione stabile produce una serie di conseguenze non indifferenti per i sistemi giuridici dei paesi che vi partecipano oltre che ovviamente per quelli che non vi partecipano. Innanzitutto, come ben sa chi ha tentato di convenire il G8 in giudizio dopo i fatti di Genova, il G8 è sovrano in senso profondo in quanto legibus solutus. Tuttavia, la partecipazione a quel consesso fantasma dal punto di vista giuridico produce un irresistibile effetto di emulazione da parte dei leader che vi partecipano sicché le politiche e poi le legislazioni ne fuoriescono «armonizzate» (ossia appiattite su quelle della potenza egemone). Vi sono poi forme di soft law ancor più sfacciatamente private che a loro volta producono adattamento al modello egemone. Quando un'agenzia di rating quale ad esempio Moody's stabilisce i criteri attraversoi i quali valuterà un sistema paese essa sta, per quel sol fatto, introducendo in modo soft i criteri che dovrano guidare la legislazione dei diversi stati.
Da questi cenni scaturisce un quadro della giuridicità globale davvero complesso la cui fondamentale ignoranza rende oggi del tutto impotente la gran massa dei giuristi nazionali che dovrebbero invece essere le vestali della legalità. Soltanto poche élite professionali transnazionali (normalmente basate a Londra o New York ma anche qualche mega-studio nostrano) padroneggiano questa complessità.
Studiosi di diritto a convegno
In Italia, nonostante il successivo mutare del quadro di riferimento normativo che accompagna ogni cambio di ministro dell'università, gli studi giuridici stentano non poco adattarsi alla nuova realtà per ragioni istituzionali. Da un lato, è proprio per l'eccesso di una regolamentazione centralizzata che stona con i proclami altisonanti sull'autonomia degli atenei, a ingessare l'offerta didattica. Esauriti i «crediti» ministeriali obbligatori, calcolati con uno scoraggiante sistema «un tanto al kilo di studio», ben poco resta non solo per la creatività e curiosità individuale del discente ma anche per quella delle facoltà che hanno spazi troppo angusti per innovare. D'altra parte, è proprio la logica di «autonomia» dei consigli di facoltà a tradire forse ancor maggiormente le necessità di innovazione. I corsi vengono infatti attivati per ragioni legate all'offerta didattica, alle necessità dei gruppi accademici più forti di accrescersi e riprodursi in gran parte per le esigenze di carriera degli allievi. Viene così ignorato il principio della domanda, quello per cui dovrebbero essere attivati quei corsi e quegli insegnamenti che rispondono a una domanda sociale, a un bisogno di conoscenze nuove che si manifesta nel mondo professionale e istituzionale in cui gli studenti dovranno un giorno lavorare. Questi due principi, della pseudo-autonomia e del primato dell'offerta conducono a risultati altrimenti inspiegabili quali (fra i molti) il proliferare sproporzionato di insegnamenti obsoleti e la completa assenza di insegnamenti giuridico-economico-finanziari rivolti alla comprensione critica del funzionamento dei nuovi onnipotenti legislatori globali (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Wto, G8 ) e del loro impatto reale sul nostro sistema normativo.
Questo ritardo è proprio soltanto dell'Italia o altre realtà a noi vicine e lontane, sono riuscite a meglio adeguare alle necessità dei tempi presenti l'insegnamento giuridico? Tenterà di rispondere a questa primaria domanda conoscitiva il gruppo internazionale di oltre duecento studiosi di tutto il mondo raccolti nel progetto di eccellenza comunitaria Common core of european private law, volto a far emergere il «nucleo comune» del diritto privato in Europa. Alle sfide dell'educazione giuridica globale il «Common core» dedicherà infatti le plenarie del proprio tredicesimo incontro generale che da quest'anno lascerà l'università di Trento per divenire uno dei filoni di ricerca del progetto International university college of Turin (www.iuctorino.it) che dello studio interdisciplinare e critico degli aspetti giuridici e finanziari del capitalismo globale (in senso autentico, cioè inclusivo del sud-est) intende fare la sua cifra culturale.
L'incontro si terrà al Centro Torino incontra il 6 e 7 luglio. Relazioni sono dedicate all'esperienza francese di Parigi 2, a quella tedesca della Bucerius law school, prima facoltà privata di Germania, all'innovativo modello regionale della Pompeu Fabra di Barcellona, alle best practices della Central european university di Budapest e dell'educazione gius-cibernetica di Copenhagen, fino al modello cileno, oggi uno dei più vitali del pianeta nel tentativo di restituire civiltà giuridica a un sistema che più di ogni altro ha conosciuto i drammatici costi della sua prolungata sospensione.

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