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La forza delle donne del Malawi

In un Paese sconvolto dalla povertà, le donne sono moltiplicatrici di speranza
16 luglio 2007
Emanuela Zuccalà (giornalista Io Donna)
Fonte: da Persona a Persona 8/07 (www.pangeaonlus.org) - 01 settembre 2007
Donne del Malawi Queste donne dovrebbero odiarmi. Sono la figlia dell’uomo bianco che due secoli fa le strappava alla campagna per esporle come vacche al mercato degli schiavi di Zanzibar. Sono la sorella delle multinazionali che hanno acquistato il monopolio delle sementi di Stato e ora vendono ai contadini grano ogm che ogni due anni diventa sterile e va ricomprato, in una spirale di bisogno senza fine. Per me la parità dei sessi ha a che fare con la carriera e la rappresentanza politica. Per loro è un marito che smette di picchiarle, di portare in casa altre donne in una bigamia illegale e tollerata, di contagiarle con l’Hiv. Questo mi raccontano Joyce Chimwala, Rodha Mothiwa, Mary Chaweza e le altre, sotto una tettoia di lamiera nel villaggio di Ntalava, Malawi sud-orientale: un puntino su questa striscia sinuosa di Africa australe, dove le strade sono balze di terra rossa che la pioggia trasforma in gorghi di fango e malaria. Io mi odierei se fossi in loro, trentenni con sei, sette figli, le camicie della festa strappate sotto le ascelle. Volti duri e curiosi che invece mi sorprendono con danze e canti commoventi, e appena oso chiedere agli uomini del villaggio di lasciarci sole, tra signore, loro saturano l’afa con acuti di giubilo.
Mi aveva allertata padre Piergiorgio Gamba, carismatico missionario bergamasco trapiantato da trent’anni in questa terra tra le più disgraziate al mondo, che forse ricordiamo più per l’adozione-blitz di Madonna che per le tragiche carestie del 2002 e del 2005. Una ex colonia inglese con 12 milioni di abitanti, al 65 per cento sotto la soglia di povertà e al 16 per cento affetti da Hiv, di cui solo un quinto accede ai farmaci. Le esistenze si spengono mediamente prima dei quarant’anni. Le donne muoiono di parto, sedici ogni giorno. I bambini orfani dell’Aids sono almeno un milione. Miseria innocente, quella del Malawi, che ha conosciuto la dittatura fino al 1994 ma mai il sangue del Rwanda, del Congo, della Somalia. La sua è povertà allo stato puro. «Il malawiano ti dice solo ciò che vuoi sentire», mi sorrideva padre Gamba nella sua missione di Balaka, «ti riceve danzando così tu ti fermi all’ingresso del villaggio senza inoltrarti nella sua casa, nel suo essere profondo».
Per le donne di Ntalava qualcosa si è spezzato e il loro nuovo essere me lo mostrano tutto. Mi fanno salire sull’alta cisterna in cemento nel cuore del villaggio, costruita da loro per strappare acqua pulita alla vicina fonte: «Prima ci ammalavamo di dissenteria, i bambini morivano. Adesso non più, abbiamo acqua pura per gli orti e le vasche dei pesci», declama Rhoda. Mi raccontano di come, unite, abbiano dissuaso dall’alcolismo il marito di Mary che per la birra si era pure venduto la bicicletta, bene prezioso, l’unico mezzo per superare la campagna e vendere qualche frutto nella polverosa città di Phalombe. E poi Joyce, la giacca troppo larga e occhi da furia: ha cacciato il marito che la tradiva, temeva l’Aids, e piuttosto che perdere la vita ha preferito perdere eredità e reputazione. Sogna di comprarsi dei polli perché – dice – «l’unica speranza per una donna malawiana è avere un piccolo commercio. Qualunque cosa, pur di non dipendere da un uomo».
In Malawi c’è una sola vera città, Blantyre. La capitale Lilongwe ha più l’aspetto di un paesone macchiato da un fiume asfittico. Il resto è ondeggiare di mais, tabacco e cotone, cime irregolari, il grande lago che dà il nome allo Stato e comincia a puntellarsi di lodge turistici. Le guide definiscono il Malawi «l’Africa per i principianti», come se qui l’impatto con il continente fosse più soffice che altrove. Ma non è che il gioco delle apparenze di cui parlava padre Gamba. Nelle campagne sono ancora le tradizioni tribali a scrivere il destino delle donne: lo sposo si trasferisce a casa della sposa, che per lui resterà una dimora provvisoria perché la sua vera famiglia è quella d’origine; la sorella e la madre sono superiori alla moglie e i figli della sorella più importanti dei suoi. Alla prima mestruazione le bambine vengono fatte sverginare da un anziano, crudele rito di purificazione. La vedova deve fare sesso con il cognato altrimenti sarà incolpata dei decessi al villaggio. Costumi che al tempo dell’Aids agiscono da untori.
Le donne di Ntalava si ribellano, indossano t-shirt con la scritta “Chigwirizano”, cooperazione, il nome del loro movimento femminista. Dicono basta anche le contadine di Mpanja, nel distretto meridionale di Nsanje fra le canne da zucchero e le anse del fiume Shire facile alle esondazioni. È l’area più povera, un tasso di Aids al 20 per cento e il 65 per cento di ragazze che lasciano la scuola. Qui lo sposo paga ai futuri suoceri una dote di 10 mila kwacha, 53 euro, cifra che sfama per mesi: difficile che una ragazza prosegua gli studi dopo i 14 anni, conviene accasarla. Invece Belita, Gladys, Evelina e le altre – analfabete come il 58 per cento delle malawiane, forse quarantenni ma qui l’anagrafe non esiste e il compleanno s’inventa – vanno di casa in casa per convincere le famiglie a mandare le figlie a scuola. «Guardateci: volete per loro una vita come la nostra?» urlano ai padri. «Non preferite vederle in un bell’ufficio di Blantyre?». E Gladys, elegante nelle sue stoffe verdi e viola, racconta: «A noi dicevano: a scuola i maschi vi ingravideranno e intorno a voi moriranno tutti, perché se hai un figlio senza marito seminerai dolore e morte. Le ragazze di oggi devono superare questi miti».
Dorothy Nyasulu è una donna molto popolare nel paese. Infermiera, si occupava di un programma statale di controllo delle nascite: «Le donne mi confessavano di non poter usare contraccettivi per non contrariare i mariti», mi dice nel tramonto porpora su Lilongwe, mentre le strade si riempiono dei bambini mendicanti che correranno come gazzelle per sottrarsi agli stupri. Poi Dorothy ha lavorato per l’organizzazione internazionale Action Aid, molto attiva nel paese, e oggi presiede la Commissione nazionale per i diritti umani che, ammette, «ha ancora molta strada da fare». È figlia del Malawi rurale, sa cosa significa vivere ai ritmi di una natura matrigna e ama girare per i villaggi, a tartassare le donne sui loro diritti, sedute sotto i baobab. La chiamano “the voice” da quando conduce un programma radiofonico su questi temi. «Poche donne sanno che il Parlamento quest’anno ha approvato una legge contro la violenza domestica» spiega. «Noi l’abbiamo tradotta nelle lingue locali e la ripetiamo in radio, nella speranza di non leggere più di mogli con le braccia tagliate per gelosia o bastonate quando si rifiutano di concepire l’ottavo figlio. Nelle campagne non c’è informazione neanche sull’Hiv. Le donne non fanno il test, e non sanno che i farmaci antiretrovirali sono gratuiti grazie al supporto del Global Fund».
Le studentesse della scuola cattolica di Nsanje no, loro sono informatissime da quando hanno creato il “Club delle ragazze”, uno spazio per parlare di futuro, ambizioni, problemi quotidiani. Una dimensione nuova, per adolescenti da sempre costrette a tacere obbedendo al passato. «Io voglio diventare ambasciatrice, per spiegare all’estero quanto è bello il mio Paese e imparare dagli altri Stati come si fa a non avere più carestie», cinguetta Chifundo Salifu, 12 anni, la divisa verde sgualcita e uno splendido volto da cerbiatta. Mia Zeka, 13 anni, da grande vuole fare la giornalista, «così vengo io in Italia a intervistare te». E io ti aspetto, Mia. Sul serio.
Note: da Persona a Persona - Fondazione Pangea Onlus

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