Imparare a morire
- 26 agosto 2007
Imparare a morire
Enrico Peyretti
Pubblicato in Servitium n. 171, maggio-giugno 2007, fascicolo dal titolo Morire (s.egidio@servitium.it )
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«Diminuire consentendo; consentire con animo sereno; distacco appassionato».
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« …la speranza che nulla va perduto della nostra vita: nessun frammento di bontà e di bellezza,
nessun sacrificio per quanto nascosto ed ignorato, nessuna lacrima e nessuna amicizia».
(Michele Do)
«Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire.
Il saper morire ci libera da ogni soggezione».
(Montaigne, Saggi, I,XX)
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Non hai finito di imparare a vivere, che devi imparare a morire. Ma c’è forse una grande differenza? Sono due classi della stessa scuola.
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Vorrei imparare a morire né ribelle né disperato, e neppure rassegnato, ma aperto e disponibile, grazie anche a quell’impoverimento di noi a cui ci conduce l’avvicinarsi del nostro morire: un impoverimento che è pure una liberazione da ciò che passa, un’uscita, un venire di nuovo partorito (che diciamo anche “venire alla luce”). Il nostro morire si avvicina inesorabile per il semplice scorrere del tempo su di noi, che siamo temporali, anche quando ci sentiamo in buona salute.
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Una volta la pietà religiosa guidava a fare «l’esercizio della buona morte», con tutti i più macabri particolari prevedibili. Ma, più che prepararsi a morire – che sa di rassegnazione, mentre si deve invece sempre, fino all’ultima possibilità, voler vivere – è necessario imparare a morire. Per esserne capaci, occorre pensare la morte senza esorcizzarla, occorre investire nel patrimonio della vita, perché la vita riempia la morte. Occorre sapere che verrà il momento di cedere, e lo spirito allora dovrà essere rifornito di vita, di esperienza, per potere sia resistere sia arrendersi.
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Quando morirai, dovrai sapere che stai facendo scuola. Sempre, chi muore insegna a morire. Per insegnare bisogna prima imparare. Prega ora Dio di poter essere allora ancora un po’ forte e sereno nella fiducia e nella speranza, nella consegna di te alla vita che non muore, pur attraverso il passaggio oscuro del morire. Quel passaggio che ci svuota e ci immerge, come in un battesimo. Chi ti vedrà morire riceverà da te una buona o una cattiva lezione. Se avrai pazienza d’amore, sarai nelle mani di Dio nel sostenere il mondo. Se sopporterai bene darai un esempio, se sopporterai male darai un ammonimento. Utile in ogni caso. Ti sembrerà di non poter fare più nulla, nella estrema debolezza, anche spirituale, e invece allora farai una delle cose più importanti della tua vita, col lavoro di morire, ultima fatica, se avrai preparato in te la sapienza del resistere e dell’arrendersi, in giusta misura. Quando non potrai fare più nulla, farai qualcosa non solo per te. Così hanno fatto i miei morti.
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Sono debitore alle diverse persone care che ho visto perdere forza, morire, svoltare oltre il tratto di strada che da qui vediamo, valicare il colle che le toglie al nostro sguardo e apre a loro uno sguardo nuovo inimmaginabile, che non sappiamo, ma a noi toglie volti di cui vivevamo. Prego Dio di sapere rendere ad altri, non troppo male, questo debito. Ma questa non è, e non deve essere, l’illusione orgogliosa e ridicola di una morte esemplare, con qualcosa di eroico: sarà un cadere e affondare, un perdere tutto, ogni aspetto e decenza, sarà un fare orrore a tutti (vedi Isaia 53), ma non a chi vede la trasparenza di ogni cosa, non a chi tutto raccoglie e rende nelle mani di chi dà e ridà la vita.
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Se la morte non verrà improvvisa, ci sarà un giorno in cui capirai che quella malattia non è come le altre, e che sei alla vigilia del passaggio supremo. Sentirai, solo tu, l’altoparlante: «Prossima fermata la morte». Saperlo è meglio. Può essere domani e può essere relativamente lontano. Adesso, mentre puoi, lavora, stringi tutte le mani che la vita ancora ti offre, perché nessuno vive da solo, e intanto chiedi col salmo 90: «Insegnaci a contare i nostri giorni, per arrivare alla sapienza del cuore». Sarà una stagione tutta nuova, mai vissuta. Sarai combattuto fra l’attrazione e la ripulsa, l’abbattimento e l’attesa. Sarai sbattuto tra paura e fiducia. Ma in realtà non sai ora che cosa vivrai allora. Avrai fatto nella vita questa cosa e quest’altra. A quel momento farai ciò che tutti, ma assolutamente tutti gli esseri umani, e anche i nostri fratelli animali, hanno fatto e faranno: morire, come siamo nati. Sarai tutto solo, come si suol dire, ma in verità non sarai solo: niente di tutto ciò che facciamo è così corale come il solitario passaggio del nascere e quello del morire.
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Ho meno dubbi sull’esistenza di Dio che (contro l’opinione di Cartesio) sulla mia esistenza. Non vengo da me stesso e non ho base in me. Se siamo sinceri, noi siamo sempre come il neonato, che sa di non bastare a se stesso e di vivere solo in simbiosi con la madre. Poi viene l’età stupida, della presuntuosa autosufficienza. Fino alla vecchiaia, che riconduce alla verità dell’origine.
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Non sai quanta vita ha dentro un vecchio, davanti alla morte. Molta nel cuore, poca di fronte. Bisogna prevedere anche triboli amari, dolori disperanti, perdite vaste. Sarà la sfida tra la fede antica e l’orizzonte che si chiude, la notte prima del giorno.
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Beati quelli che la morte prende con un tocco solo, e posa intatti sulla terra; quelli che muoiono in piedi, come i re antichi. Se avranno un poco imparato a morire, non li spaventerà l’improvvisa resa dei conti. Probabailmente, quello che più ci costerà sarà lo sfacelo fisico e mentale, il brutto cadere a pezzi, oggi più frequente di ieri, quando eravamo meno puntellati dalla medicina. È possibile imparare e prepararsi a quello sfacelo?
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Vediamo i nostri vecchi declinare. Spesso affondano nella mezza morte, come chi s’inoltra nella nebbia, o chi, cedendo, cessa di dibattersi nel gorgo. Sottratti al cerchio della comunicazione, prigionieri di una distanza immateriale, energia esaurita e spenta, ci appaiono scatole vuote, volti senza persona, diventano per noi condannati che predicono la nostra possibile condanna. Oggetti passivi di cura e di pena, perduto il discorso umano, sono infanti che crescono all’indietro, verso il rovescio del nascere. La loro lunga passione ci pare abbandonata da Dio. Sono ben più di tre le loro infinite ore di croce. Eppure, essi sono mistero di sostanza, puramente creduta, dietro l’impenetrabile apparenza. Anche nell’estrema decadenza, la vita impedita è vita umana, che era e vorrebbe essere umana. Servirli è una inutile pietà, che forse rivolgiamo a quel che potremo essere un giorno noi stessi, con orrore. Sono perduti e non perduti, sono lasciati a noi per prova e ammonimento. Preghiamo che l’ora del passaggio venga a loro pietosa: che venga sorella e non nemica, come nemico è il loro stato presente, e che nessun’arte umana prolunghi quella morte spacciandola per vita. Gli antichi, nella fede, chiamavano angelo della morte l’ospite sgradito della casa all’ora di un decesso. Angelo e non demonio è la morte naturale se non è arrestata sulla soglia, se non è negata al corpo che amavamo, che ora vuol morire, come la sera si vuol dormire. Cari nostri vecchi già nell’ombra, immagine possibile del mio domani, come prego io per voi la luce nuova, pregate voi quell’angelo per me, che venga buono e sollecito, non ladro di coscienza, ma guida nel passaggio, alla mia ora.
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Dio è il nome che diamo alla realtà ulteriore a noi, del tutto ulteriore, eppure presente e vicina, più in-sistente che e-sistente. L'uomo è un essere aperto: «una creatura fatta di nulla, che, stranamente, confina con Dio» (Claudio Napoleoni, Cercate ancora, p. 27: era un economista filosofo, non un teologo). Con-fine è con-tatto. O ci pensiamo galleggianti nel nulla, senza alcun senso né cammino, oppure con-fidiamo nel mistero, più reale di tutte le concretezze in cui ci arrestiamo, grandi quanto l'orma del nostro piede. Il mistero è parola silenziosa, è luce buia e abbagliante. Islamicamente abbandonarsi è cosa da non escludere per superbia, perchè è più vitale e comunicante del voler capire e interrogarsi e scervellarsi, che pure è cosa grande, da fare. Noi non siamo tutto. C'è Altri (dal mio prossimo più casuale, anche nemico, fino a Dio). C’è sempre altro, dove c’è un confine. Qui è l'inizio della sapienza, della pace, della nonviolenza.
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Camminare sulle acque (fatto reale o simbolico, non mi interessa) significa che la fede è in rapporto con l’abisso, è non-paura del male. Gesù dimostra la sua fede, la chiede a Pietro, lo rimprovera perché ne ha poca, pur se invoca salvezza. È questo il miracolo più ironizzato dallo scientismo scettico, per eludere l’invito al coraggio della fede. Per capire quel segno devo anch’io, come Pietro, camminare sull’acqua.
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Uscimmo, un giorno, dal corpo di nostra madre, con un corpo piccolo e fragile, ma più vitale del suo. Usciremo un giorno da questo nostro corpo con un corpo più vitale di questo, con un corpo universale.
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Un’idea della vita è questa: ciò che non afferri ora è per sempre perduto. Un’altra idea è che chi donò l’inizio donerà il compimento, se tu fai la tua parte, e tutto l’incompiuto della vita sarà ricolmato. Poiché nulla è orfanità e tutto è oggetto d’amore, come facciamo persino noi con chi e con ciò che generiamo, noi così incompiuti.
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Chi per primo dei due coniugi dovrà piangere l’altro? Ad uno tocca morire, all’altro soffrire. Chi più soffre la perdita dell’altro preferisce morire per primo. Ma morire è abbandonare. Chi meno soffre la perdita preferisce soffrire che morire. Così risparmia dolore a chi muore. Ma chi muore, preferiva proprio morire? Se è così, tutto va bene. Se invece preferiva soffrire, preferiscono entrambi la morte dell’altro. Se poi entrambi preferiscono morire prima dell’altro, ma non vogliono farlo soffrire, sono tentati di uccidersi insieme. In certi casi, avviene naturalmente di morire quasi insieme. Dove più ci si ama, diviene impossibile scegliere tra perdere e abbandonare.
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L’occhio superficiale vede nelle religioni soltanto riti, usanze, poteri, dottrine, folklore, dogmi, istituzioni, politiche, personaggi. L’occhio spirituale, anche se non ha trovato una luce viva a cui rispondere con fiducia, vede, attraverso le religioni e tutto il loro apparato, la fatica umana attorno alle grandi domande e attese dell’esistenza, che risuonano forti e profonde e ardenti e nobili, prima di qualunque risposta positiva o negativa o perplessa, nei cuori che pulsano più dentro e più in alto dei quadri razionali. Tutto è già stato detto: il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende (Pascal). Chi ha orecchie per intendere intenda (Vangelo). La differenza più importante non è fra credenti e non credenti, ma fra chi pensa alle grandi domande e chi non ci pensa (Bobbio, citato da Martini). Però, la salvezza dal nulla non sarà decisa da come pensiamo, ma da come viviamo: sarà salvo chi avrà soccorso il suo prossimo bisognoso; chi non avrà sentito nelle proprie viscere il suo appello, resterà nella morte, perché è già morto. Il bisogno e il diritto del mio prossimo non lo capisco con argomenti dell’intelligenza razionale, ma, come dice e ripete Luca evangelista, lo riconosco «nelle viscere», nella mia profondità vitale, che ho in comune con lui. Le viscere non sono un oscuro istinto animale, ma l’argilla di cui siamo fatti, che è fin dall’origine animata dallo spirito di vita che il Vivente soffiò in noi, se vogliamo ricordarcene.
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La lunga vita è un dono di Dio (e dei medici). La lunga morte è tutta dono dei medici (e di chi pretende tutto da loro). Un tempo ci si chiedeva se l’anima sopravvive al corpo. Adesso accade che il corpo sopravviva all’anima, intesa come presenza consapevole a sé e agli altri. È difficile e non sempre possibile distinguere tra l’accanimento e l’insistenza in cure che potrebbero rivelarsi utili; così è difficile distinguere tra l’abbandonare il malato e il non impedire la morte inevitabile. Forse dovremmo ricordarci che la morte è di sua natura ciò che ci sfugge.
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«Perché, per contare i suoi anni, lei conta le primavere? Confessi, lei spera qualcosa!».
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La cosa più triste della lunga vecchiaia è che ti muoiono gli amici. Traslocano prima di te. La casa dell’amicizia resta un po’ vuota. Speri che ti preparino la nuova casa. Intanto, ti rallegri dei giovani, ma non ti conoscono, e tu fai fatica a conoscerli. Padre Turoldo, al funerale di don Sirio Politi, a Viareggio, nel febbraio 1988, nel sole della darsena, mi abbracciò piangendo: «Siamo sempre più soli».
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Anche il nascere non è scelto, ma ci è dato, in condizioni ben determinate, e ci è chiesto di accettarlo e farlo nostro, sempre meglio, e di gestirlo con libertà responsabile. In questo, morte e nascita si somigliano, e permettono di pensare che la morte possa essere una nascita. Le malattie vengono e vanno. La mia ultima, breve o lunga, mi persuaderà e spingerà, come le doglie di chi mi generò.
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A volte vediamo qualcuno morire positivamente. Pier Giorgio, il mio fratello più giovane, carissimo, morì dopo un anno dalla scoperta di un tumore cerebrale non operabile. La perdita progressiva della parola è stata la sua più grande pena interiore. Ma ha affrontato la sua scalata (era appassionato alpinista) con fede e con coraggio ardito: «Se guarisco facciamo un bel pranzo, e se devo morire lo facciamo lo stesso», aveva detto all'inizio. Morire è possibile, sul ciglio dell'impossibile.
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La morte dei vecchi ci precede. Tra la loro morte e la nostra c’è un tratto di vita incerto, ma sperabile. La morte dei più giovani di noi ci prende alle spalle, sconvolge la legge dei tempi, ci minaccia in quel poco di sicurezza che credevamo di avere. Dei nati prima e morti prima, puoi anche raggiungere l’età e ti compiaci di superarla sentendoti più vitale di loro. Dei nati dopo e morti prima hai già passato l’età che per loro è stata mortale. Ti senti camminare sul ghiaccio sottile, ti sai più mortale, l’ora tua è superata, soltanto rinviata. La vita che vivi è un supplemento gratuito, un prestito e un debito: è anche un compito che ti impegna e ti onora, ma pure un indebito privilegio, che ti umilia.
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«La morte appartiene ad una realtà che finisce. I morti appartengono ad una realtà crescente, che prende il posto di questa presente, la quale è la realtà della potenza e della violenza», Aldo Capitini, Religione aperta (Parma, Guanda 1955, p. 477).
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La morte intacca ormai la mia generazione. Ognuno si chiede: come morirò io? Più ancora del quando, è il come che turba, e quanto durerà il suo morso, e dove mi azzannerà. Avrò le energie interiori per non soccombere nell’animo a quell’assalto? Nulla, nessuna cosa, nessun evento ci appartiene così esclusivamente come la nostra morte. Ci cade accanto, a destra e a sinistra, negli altri, sempre più spesso, eppure, sebbene ci tocchi sempre più da vicino, è tuttavia la loro morte. Appena li abbiamo pianti, e deposti dalla loro croce, urgono per noi gli appuntamenti della vita e sempre, della morte altrui, ci diamo pace. Eppure, dobbiamo molta gratitudine ai morti più vicini a noi: più efficace è la loro silenziosa lezione, spesso il loro esempio di coraggio e di fede. Chi muore, senza saperlo, insegna a morire. A noi tutti è grandemente necessaria questa educazione, per saper vivere.
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Caro Socrate, la tua morte è stata facile. Una sorsata amara, il freddo che sale dai piedi fino al cuore, un sereno conversare da saggio, tra discepoli affezionati e devoti. La nostra morte – guardala! - è molto spesso lunga e sporca di dolori abbrutenti, ci degrada, ci scarnifica, ci toglie dignità e pudore, ci sevizia e arriva finalmente con un ghigno a schiacciarci come un ragno, toltaci dal volto ogni decenza, ogni speranza, ogni spirito umano. Tu lo sapevi, Socrate, e l’hai detto: meglio morire condannato dalla democrazia stolida, con coraggio e gloria, che venir mangiato lentamente dal tempo che uccide. Tu non conosci la morte che decide di te, perché tu hai deciso di lei. Non parlarci della morte, o Socrate, con tanta sufficienza, perché tu, con furbizia, forse più che con filosofia, l’hai dribblata. Era questo che volevi dirci? Volevi non solo la nostra sentenza sui tuoi giudici, ma anche la nostra invidia? Altre parole sulla morte, ci occorrono. Non ci bastano le tue.
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«Prese il calice e disse…» (Matteo 26,27). «Se possibile, allontana da me questo calice…» (26,39). Anche nell’originale greco, la parola è la stessa nei due passi: potérion. Il calice del dono di sé e quello del supplizio patito, sono lo stesso calice.
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Si accendeva una candela benedetta nella stanza accanto e si assisteva il morente. Accadeva, di solito, che si spegnessero insieme. Non c’era accanimento. C’erano meno cure. Morivano tanti che oggi vivrebbero. E se il male lo imponeva, soffrivano molto, senza rimedio. Ma molti morivano come si vive, quando si vive bene, con una certa saggezza. Le generazioni imparavano una dall’altra. Il passato e il futuro, la memoria e la speranza esistevano ancora. Nascite, matrimoni e morti si avvicendavano nella stessa casa, nella famiglia grande come un tetto e salda come i muri portanti. Magari dura come i muri, e costrittiva, ma riparo alle tempeste esterne. La vita era una storia, non un seguito di istanti frettolosi, chiusi e smarriti. Quelle case nostre che hanno ancora qualcosa di questi beni, sono benedette.
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In ogni casa, o parentela, c’è chi arriva e chi parte: una vita si annuncia, una vita si ripiega nella vecchiaia. Ricordiamo, nella nostra infanzia, i vecchi di allora, che scomparivano. Da vecchi, vediamo spuntare nuovi bambini. Ognuno conosce in faccia il passato e il futuro dell’umanità a lui prossima, volti concreti della memoria e della speranza. Se dagli antenati ci viene memoria ed esperienza, dai discendenti viene ogni speranza. Quello che Natan dice a Davide da parte del Signore: «Quando tu riposerai con i tuoi padri, io farò sorgere il tuo discendente che uscirà da te, e renderò stabile il suo regno», ogni nonno (più ancora dei genitori) lo sente promesso a sé. Il nostro regno è il mondo umano di tutti. Ai nipoti, continuatori dei nostri tentativi, prolungamento libero della nostra vita, siamo debitori di un mondo decente, prima di partire, perché possano essere migliori di noi.
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Ho letto di uomini spirituali che sono andati verso la morte pazienti e sereni, composti nel letto. Non è possibile così. C’è il catarro dell’immobilità da espettorare, riempie fazzoletti immondi. C’è da orinare, dunque mettere, togliere, versare, lavare pappagallo o padella. Le incombenze della morte, sulla soglia dell’eternità, sono molto corporali. Sono quasi angeli, i santi morenti, ma hanno intestini e vesciche che pretendono attenzione. Altrimenti tutto il letto è da cambiare, il malato è da lavare, la meditazione per ben morire è disturbata e interrotta. Se non si è provveduto per tempo con provvedimenti molto materiali, le piaghe da decubito tormentano il santo, agganciano alla carne afflitta il suo spirito già in paradiso. Morire è difficile anche per i santi, non fatevi illusioni.
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Il monitor del mio computer ha, come sfondo, un’immagine di cielo con leggere nubi bianche, come l’immagine reale che contemplo al mattino. O cielo del primo mattino, luce in dolce espansione, allarga i cuori e le menti fino ai tuoi spazi senza confini, piega le barriere e le piccinerie, dilata gli sguardi e gli orizzonti. Quando il nostro corpo si esaurisce, o per il tempo o per la malattia, e termina il suo cammino, noi diciamo, con linguaggio vero di bambini, che «andiamo in cielo». È così. Usciamo dai limiti di spazio e di tempo, prendiamo un corpo più grande, intero, non caduco come questo, nello spazio intero dell’universo, e entriamo nel tempo senza fine della vita di tutte le vite insieme, che noi chiamiamo Dio. Questo che dico non lo “sappiamo”, ma lo possiamo pensare e attendere.
Enrico Peyretti, 1 marzo 2007
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Voi che dormite
Voi che dormite ad occhi aperti
cari antemorti
e ci guardate vivere
so bene che portate con voi
ricordi che non abbiamo accolto
segrete tristezze
offese perdonate
umili cadute e tacite preghiere
so che liberaste il mondo
da pesi che avete tenuto
tutti per voi
cercando di lasciarci soltanto
speranza e coraggio
so quanta vita
è nella vostra morte
cari antenati
guardate a noi che viviamo
e vi portiamo in cuore
che possiamo esser degni
della vita.
Luca Sassetti
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